sabato 23 luglio 2011

Il circo Minosse. Capitolo primo.

Come ogni anno, verso la metà di giugno, vennero e piantarono le tende. Piantavano prima dei paletti di legno, ispidi, insignificanti, che non ti persuadevano di un futuro sviluppo. Poi dai pali fiorivano le corde e dalle corde le grandi volute del pesante tendone centrale; i modesti carri sverniciati aprivano i loro coperchi, svelando alla luce un caravanserraglio di meraviglie: il rettilario con i suntuosi pitoni albini, il ranch dei pony, la macchina dello zucchero filato. 

Ogni anno, da diciotto anni, aspettavo con trepidazione quel momento. Già dalla sera prima mi appostavo sul campo e spiavo con gli occhi le curve fin sotto la collina, fin dove potevo arrivare, nel caso i fari dei furgoni squarciassero d’un tratto la notte. Era un appuntamento cui non potevo mancare. Mi dicevo che se lo avessi fatto, che se mi fossi distratto o dimenticato del giorno, il circo non sarebbe arrivato. Sentivo di avere un ruolo in quel rito, mi credevo privilegiato ed importante. 

Quando poi arrivavano non potevo fare a meno di gironzolare tra i carri. Da piccolo gli addetti ai lavori mi scacciavano e Dedalo mi appioppava un lecca-lecca, perché li lasciassi fare. Col tempo ero diventato loro amico e mi buscavo persino delle commissioni: spostavo casse, disfacevo corde, ammucchiavo legna. Gli operai sapevano di poter contare su di me e ormai mi chiamavano per nome. 

Quell’estate il campo era una distesa di stoppie riarse. Le cornacchie si sollevavano in grandi crocchi neri e bisognava gettar loro dei sassi per scacciarle. Col caldo il sangue ribolliva nelle vene e non si riusciva a trovar posa. Sembrava che il meriggio tremolasse di una sua tensione invisibile, come una guancia che cerca il fresco sul cuscino. Non m’ero mai sentito tanto forte o tanto vivo come quell’estate. 

La scuola s’era chiusa ai primi del mese. Tutti i giorni saltavamo sulle vespe e davamo gas fino al mare, che era a un paio di chilometri dal paese. Le mamme ci strillavano dalle soglie delle case che non facessimo tardi per pranzo. Sulla spiaggia le ragazze si distendevano al sole come tante lucertole, luccicanti di pomate. Erano fresche e rotonde come non le avevamo mai viste, abituati alle gonne lunghe della divisa. E tutti pensavamo che quell’estate finalmente si sarebbe goduta a fondo la gioventù.
“Ci daremo dentro come maiali!”, esclamava Gino, assestandomi delle gran pacche sulle spalle.
Io non avevo occhi che per Elena, la bionda. Ma lei di teste ne faceva voltare così tante che non si capiva proprio chi guardasse. Alla spiaggia non veniva mai da sola e stava sempre nascosta dietro gli occhiali grandi. 

L’arrivo del circo era il culmine di ogni estate. Una scossa di adrenalina attraversava la cittadinanza, sollevandola da stuoie e sedie a sdraio, per collaborare con l’allestimento. I vecchi sbuffavano dalla pipa che quella corda non era abbastanza tesa; i bambini infastidivano i coccodrilli nelle teche; le comari offrivano il vino e affettavano salami. Gli operai si tergevano il sudore dalla fronte e scambiavano quattro parole, raccontando dov’erano stati tutto l’anno e che in nessun posto si sentivano più a casa di qui. Era una piccola bugia che non faceva male a nessuno. 

Gino mi prendeva in giro per quella passione infantile, facendomi arrossire davanti a tutti gli altri:
“Ma che ti frega di quelli? Sei rimasto il più bambinone di noialtri, che invece di goderti questo sole te ne vai a sgobbare su in collina. E con Elena come la mettiamo?”
“Il circo è solo una settimana”, rispondevo, come a giustificarmi.
“Fra una settimana si sarà scordata che esistevi”.
“Oh che lagna. Se se ne scorda, contento un altro”.
“Che gran minchione”.
Eppure il circo piaceva anche a lui, quand’eravamo bambini. Ma io sono cresciuto, diceva, cosa c’è di così straordinario? Visto un anno visti tutti, e scrollava le spalle. A me non importava quello che pensava Gino: io al circo c’ero sempre andato e ci sarei andato pure quell’anno. 

Quella notte l’aria era chiara e tiepida. Avevo tolto le scarpe e m’ero seduto su un pietrone, la vista che dava sulla vallata. Le stelle mandavano una luce tremula: non c’era luna. L’odore era quello dell’erba tagliata, della paglia che secca e crepita al sole. Gino e gli altri dovevano essere ancora al bar: li avevo lasciati nel mezzo di un giro di rum e pera. L’alcol era caldo e mi gonfiava lo stomaco, mi faceva sentire bene. Era tutto perfetto e pulito e verde. 

Da bambino non dovevo venirci da solo. C’erano tutti, persino le ragazze, e ingannavamo l’attesa facendo la caccia alle lucciole. Poi tornavamo a casa con le tasche piene di sassi e un barattolo col coperchio ermetico. La mamma mi metteva a letto. M’addormentavo felice, cogli occhi fissi sul barattolo, dove una lucetta si spegneva e si accendeva a intermittenza. 

Non ricordo di essere mai stato triste e certo non lo ero allora, con il futuro che mi luccicava davanti come una promessa. I malinconici, i depressi non li avevo mai capiti. Mi sembravano degli strani bacilli contagiosi. Arrivavano con la loro faccia lunga, ti tiravano delle occhiate ed ecco che una patina grigia scendeva sul mondo, laddove tu vedevi tutto colorato. 

L’orologio faceva mezzanotte e un minuto. Mi immaginavo il giorno in cui avrei aspettato invano: sarei stato in piedi tutta la notte, teso come un palo. E al mattino il campo sarebbe stato sgombro come alla sera. Era il mio terrore. Mi pareva che il circo volesse dire che ero vivo, che ero giovane, che avevo ancora speranze. Il giorno che non fosse venuto mi sarei svegliato più vecchio di cent’anni e profondamente scontento. Un malinconico come tanti altri.
Ma per quell’anno, un anno ancora, fui salvo. Una luce, poi due, poi tre. All’inizio non erano che puntini, scarsamente distinguibili dallo sfondo blu della collina. Ma poi si fecero sempre più tondi, rotondi, sfere, piccoli bottoni sul paltò della notte, fondi di tazzine, ombrelli aperti. Dei fari. Il primo camion ne aveva uno fulminato, così assomigliava a un dinosauro ferito. Gli altri lo seguivano tranquilli, brontoloni, lungo la strada a picco sulla valle, tutta curve, con i guardrail bassi.
Spolverai le piante dei piedi e mi infilai le scarpe. Mi rizzai sulle gambe, solo contro la collina e contro il tempo.


Il primo furgone si fermò al centro dello spiazzo, il freno che si arrendeva docile tra le dita del conducente. Gli altri tre si sparpagliarono intorno senza una logica apparente. Parecchi sportelli si aprirono all’unisono e si richiusero con uno schiocco, mentre gli occupanti atterravano con un balzello sul terreno, stampandovi orme inconsuete. Un tacco, uno stivale, un piede nudo. Accavallarsi di voci, di gente che aveva viaggiato tutto il giorno o forse più giorni e aveva tante cose da raccontarsi, tanti aneddoti tenuti in serbo per gli altri lungo la strada. I motori ancora accesi rendevano i loro toni più incalzanti e i fasci di luce percorrevano il campo in linea retta, tagliandolo in una scacchiera ordinata. 

Io ero fuori dal cono di luce. Non sapevo decidere se farmi avanti oppure scappare via, silenzioso, per ripresentarmi solo al mattino. La loro intimità mi imbarazzava.
Cercai di distinguere le sagome e di attribuire un nome a ciascuna. Riconoscevo il proprietario, Minosse, sempre più grosso di spalle e di fianchi, come un temibile Mangiafuoco. Poco distante sua moglie, tanto secca quanto il marito era grasso, e una bambina alle calcagna. Camminava a malapena, l’anno prima. C’era il fachiro e c’era la donna cannone, i saltimbanchi. C’era il domatore del leone, uno solo e spelacchiato, non più aggressivo di un gatto malnutrito. E poi c’era quella figura vestita di bianco, un vestito tutto bianco contro il nero della notte, la gonna che ruotava mossa dalla brezza. Non la riconoscevo. Volteggiava da un lato all’altro dei furgoni, muovendosi in piroette e il suo biancore era tale che cancellava tutto il resto. Era una figura senza volto e senza nome. 

Ne seguii le evoluzioni per un poco, catturato dalla leggerezza dei movimenti e delle curve, dal braccio sottile e bianco che si sollevava, dalla voce trillante, argentina come un campanello. Piano piano finii per non vedere che lei e capii che non dovevo farmi avanti. Se mi fossi fatto avanti l’incantesimo si sarebbe spezzato e il braccio sarebbe ricaduto lungo il fianco, se c’era un fianco. Le pieghe del vestito si sarebbero lisciate e non ci sarebbe più stato incanto, ma solo conoscenza. E non c’è incanto nella conoscenza. Così lasciavo che la farfalla mi si stampasse sulle retine e piroettasse sotto le palpebre, irretito dal magico movimento della gonna e dal trillo della voce e del vento. 

Una volta a casa, sotto le lenzuola, immaginai di sollevare un lembo della veste e di scoprire una gamba altrettanto bianca, di percorrere la coscia con la mano, la pelle tenera. Il fantasma aveva la faccia di Elena, che mi incitava a continuare, a salire, a salire:
“Bene così, Teseo”, aveva una voce di campanello.
Non potei far altro che togliermi i pantaloni. 

Di Chiara Pagliochini

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