domenica 18 novembre 2012

Esploratori


Free me,

free me,
free me from this world. 
We don't belong here:
it was a mistake imprisoning our souls.
Can you free me,

free me from this world?


Explorers, Muse


Aveva uno sguardo negli occhi, uno sguardo certe volte che ti veniva da piangere solo a guardarlo, un po’ per la pena che ti faceva, un po’ per la pena che ti facevi tu per non saper che farci. Era lo sguardo dei disperati, dei dispersi, quello sguardo che qualsiasi clandestino ebbe su qualsiasi molo che non fosse il suo, quello sguardo che ciascun abitante del vasto cielo avrebbe su un pianeta non suo. Era lontano ed era solo, perduto chissà se in un passato remoto o in un futuro pauroso, ovunque ma non lì, ovunque ma non lì con te, trasportato altrove, rapito e irrimediabilmente distante. Il tuo sguardo, nel ricambiare il suo, era una fune, una mano che gli lanciavi oltre l’abisso, un’offerta di salvazione che lui non raccoglieva mai. Avevamo diciassette anni.
Avevamo diciassette anni e ci piacevano le stesse cose. Ci piacevano le sere fredde e secche, quelle in cui le stelle sono tante ferite pulsanti su un corpo livido. Ci piaceva la terra e le sue morbidezze, il verde multiforme e rotondo delle colline, i fiori che spuntavano ai bordi delle strade. Ci piaceva il papavero, rosso da far spavento, e il vino bianco. Ci piaceva tenerci per mano e andare, andare senza saper dove andare, solo per il gusto di sentire le nostre mani l’una nell’altra, strette e sudaticce ma unite. Avevamo diciassette anni e, forse, nei miei occhi, lui vedeva lo stesso sguardo che gli trovavo io, uno sguardo che era sofferenza e spaesamento e prigione e desiderio di affrancarsi. Uno sguardo che metteva le piume per spiccare il volo.
Avevamo diciassette anni. E una sera che eravamo fuori, come sempre, ad andare-andare, io lo guardai nel buio alzando il mento e dissi:
« Facciamo l’amore. »
Lui disse:
« Non so come si fa. »
Io dissi:
« Facciamolo lo stesso. »
Il suo sguardo tremolò un poco, spaventato e comico. Io gli carezzai la guancia e sussurrai che non doveva avere paura. Lui disse:
« Paura non ne ho. Ma non voglio farti male. »
Io dissi:
« Mi fai male sempre. »
Lui disse:
« Mi dispiace. »
Io dissi:
« È bene anche il male che mi fai. »
Lui mi strattonò la mano e camminò verso il ciglio della strada, mi aiutò a saltare il rigagnolo e fu là fermo, sotto la luna grande e bianca, nel campo di fave. Lo abbracciai, le mie braccia troppo corte per tenerlo tutto, troppo deboli per trattenerlo tutto. Mi sentivo come dita che stessero imprigionando una rondine. Chinò il mento e mi baciò. Piano, dapprima, come se avesse paura che potessi andare in pezzi, poi solide le sue mani si intrecciarono dietro la mia schiena e mi strinse a sé e mi sollevò un poco e la bambola di pezza che c’era in me tremò tutta di gioia contro il suo corpo. La grande luna mandò un grande bagliore frastagliato.
Un braccio che ancora sosteneva la mia schiena, mi distese tra le piante, sentii gli arbusti teneri che crocchiavano, sentii la vita fluire via dalla terra per confluire nelle mie spalle, sentii il verde premuto sotto le natiche e il profumo intorno dell’erba calpestata. Il suo viso, gli occhi innamorati e socchiusi, disse:
« Sei sicura? »
Io lo baciai ancora, ancora.
Avevamo diciassette anni, dita confuse, rantolii alieni. Ogni bottone aperto era una meraviglia. Avevamo diciassette anni, ogni porzione di pelle una consistenza da esplorare. Riccioli e boccoli e spunzoni e la stoffa che si spostava con suoni indecisi. Avevamo diciassette anni, faceva freddo e affogavamo di rugiada e lui affogò dentro di me rompendo oggetti e scoperchiando scatole, vento che spazzava stanze vaste e vuote. Fu un dolore lancinante e cieco come di fitta al petto. Ma non era dal petto che veniva. Era un dolore di regioni inesplorate, di foreste vergini falciate via.
Lo guardai e i suoi occhi erano lontani quanto non erano mai stati, così lontani che non si sapeva nemmeno se sarebbero tornati indietro, se il mondo che li aveva assorbiti li avrebbe risputati intatti.
E così, fu per salvarmi che andai anch’io. Andai, solcai verso la zona profonda in cui lui era, per aprire gli occhi su un pianeta diverso.
Quando aprii gli occhi, lui era lì. Era lì, incerto, fermo a metà del campo con la mano tesa verso di me. Intorno, prati viola e frutti maturi che pendevano dai rami, così pesanti che i rami quasi si spezzavano. Il cielo sopra di noi era bianco e liquido come latte, agitato da maree. Afferrai la sua mano e andammo insieme attraverso il campo, parlandoci e guardandoci e fermandoci ogni tanto per baciarci. E dicevamo che questa era la libertà, questo l’unico posto in cui dovevamo stare, questo il posto per noi, dove ci saremmo sentiti a casa e completi, la terra a misura nostra, dove un solo nostro cenno avrebbe trasformato il panorama in una cascata di luce. Qui noi eravamo re e regina l’uno dell’altra. Qui non c’erano leggi, non si doveva diventare grandi. Non c’era paura, non c’erano regole. Non c’era nessun altro a parte noi. Quell’errore che ci imprigionava, l’errore di esser nati a un mondo che non ci corrispondeva, quel mondo che i nostri occhi lontani e perduti piangevano, ecco, di quell’errore non c’era più traccia. Questa era la nostra vera dimensione. Questo il nostro Paradiso Perduto.
Ma poi lui mi strinse più forte la mano e disse:
« Dobbiamo tornare. »
Io scrollai la testa, non volevo.
Lui disse:
« Non voglio che resti qui da sola. »
Io dissi:
« Rimani anche tu. »
Lui disse:
« Non possiamo. »
Io dissi:
« Qui siamo salvi. »
Lui disse che non si poteva fare nulla, che bisognava raggiungere un certo compromesso. Lui disse che si doveva vivere dove ci avevano posto a vivere, anche se non volevamo, anche se non faceva per noi. Lui disse che il suo mondo ero io, il mio mondo lui, e così potevamo tornare ogni volta che volessimo. Che il Paradiso era sempre, perché eravamo il Paradiso l’uno per l’altra.
Io dissi:
« Ti amo. »
Lui disse:
« Ti amo. »
Quando ci svegliammo nel campo di fave, lo presi per il mento e guardai nei suoi occhi e nel fondo ci vidi riflessa dentro me. 


Di Chiara Pagliochini

venerdì 9 novembre 2012

Un epitalamio

Lady Godiva, John Collier 

Stamattina sono la pietra sul greto,
la pietra svelata che il fiume mette a nudo
e nuda a me stessa come un volo di corvi.
Amore, tu ieri mi hai fatto l’amore
la prima volta. Non l’ho detto a nessuno,
a nessuno voglio dirlo.

Ti sei alzato via e non hai detto niente
ma io avevo tante cose da dire.
È stato bene così. Io taccio.
Di queste cose si può solo tacere.
Non taccio. O parlo o impazzisco.
Non m’ascoltare.

Amore, non hai detto che m’ami.
E, se non lo dici, sono le mani
che devo interpellare, chiedere soddisfazione
alle tue dita, agli umori del tuo corpo
e non sentire dalla tua voce
che mugugni che ti piace?

Il mio corpo di donna non funziona così.
Nel mio corpo di donna c’è tanto dolore
da sciogliere piano con rispettosa dolcezza.
Il tuo piacere ti piace, non macchia.
Il mio piacere è che il dolore
mi viene da te.

Ho sentito il potere scivolarmi tra i polpastrelli,
il potere di contrarre la tua faccia in un ghigno,
quel potere così nuovo per me, donna brutta.
Nessuno ti parla del potere alle scuole.
Non dicono che far male e farti male
è potere, non dicono che bellezza è riempire,
amore, tutta una stanza di dolore.

Queste rime, così semplici e piane,
te le ho date in vece del mio corpo:
stamattina mi sono alzata prima io.
C’è un angolo, amore, che pur dolcissimo
non riusciresti a penetrare,
il mio angolo di donna, di vergine antica
dal quale insieme ti amo e ti odio
per l’esazione del mio potere in cambio del tuo.

Di Chiara Pagliochini 

mercoledì 26 settembre 2012

L’invenzione


a mia nonna Gensina

Ricordo ancora com’era a casa quando arrivava una lettera da Pasqualino. Il postino veniva sulla bici sbilenca, con un moccioso arrampicato sulla canna, e i freni fischiavano giù per la discesa di Cecanibbi. Si fermava sull’aia in un gran polverone, tra lo stridio dei freni, e mi chiamava a gran voce dalla finestra:
« Gensina, scenda, scenda! »
A casa c’ero sempre io, che ero la più piccola. Mi toccava fare il pranzo per quando il babbo e la mamma tornavano dai campi. Così, quando arrivava una lettera da Pasqualino, ero io la prima a metterci le mani sopra e me la stringevo al petto e la baciavo e la ribaciavo, tutta sudicia e sgualcita com’era. Il postino, che si chiamava Gianni, mi faceva un sorriso grosso, il suo marmocchio uno sberleffo, e mi pregava di salutargli i miei. Io gli dicevo, « Presenterò! », e lui si ricacciava in testa il berretto rotondo. Poi dava una spinta ai pedali e sfilava via sollevando un nugolo di pagliuzze. Passava tra le galline che si scansavano con un chioccio indispettito e s’arrampicava su per la salita. Ogni settimana era la stessa cosa.
Le lettere di Pasqualino, però, non arrivavano tutte le settimane. Anzi, se ne arrivava una al mese era già tanto. Questo non m’impediva, però, di sperarci sempre e di pensare che quel « Gensina, scenda! » m’avrebbe portato altre notizie di mio fratello, e chissà che storie strampalate stavolta. Io non sapevo ancora leggere bene, così la lettera la appoggiavo sulla panca vicino alla porta, in attesa che ritornasse la Marina. Me la spiavo mentre rimestavo i fagioli nel callaretto e canticchiavo intanto per passare il tempo. Poi dalla finestra veniva la voce del babbo, il suono d’uno scaracchio, e mamma che saliva le scale in un fruscio della vestaglia, le gambe secche e scorticate.
« Gensina, è pronto, è pronto? » mi chiedeva ancora prima di salutarmi e poi mi faceva scansare e s’appropriava del mestolo, come se i fagioli fossero roba sua e non voleva che potessi accamparci qualche pretesa. Papà si sedeva a tavola con le dita unte di grasso stampate sulla tovaglia e mi guardava da sotto le sopracciglia sudate, poi mi chiedeva di andare a dargli un bacio. Io ero la sua piccola, « la sua bestiaccia », e per me aveva sempre una parola di riguardo. Aveva anche le cinturate di riguardo, ma solo quando lo mandavo fuori dei gangheri.
La Marina arrivava in cucina tutta vestita come una signorina. Passava sempre dalla camera a pettinarsi quando tornava dai campi, come se in cucina ci avesse il moroso. Al paese il moroso ce lo aveva, ma il babbo non lo sapeva ancora. Io li avevo visti baciarsi dietro il fico e alla fontana, ma mi diceva sempre « tu fa’ la spia e io ti struppio ». Così me lo tenevo per me.
I giorni che arrivava una lettera da Pasqualino la Marina però non passava dalla camera. Era sempre la prima a vederla, perché la mamma e il babbo non sapevano leggere e quindi non si curavano della posta. Dalla cucina io aspettavo impaziente il suo strillo – strillava sempre – e nel cuore mi cresceva tanta ansia e una voglia di star bene.
« Mamma, mamma, è di Pasqualino! »
Solo a quel punto la mamma strillava e si metteva a piangere ancora prima che la lettera fosse aperta. Poi soffiava il naso nel sinale e si sedeva vicino a papà, una mano sulla sua. Il babbo non piangeva: solo alla fine gli trovavi sempre gli occhi lucidi. Allora Marina entrava in cucina tenendo alta la lettera sopra la testa, mi faceva segno di sedermi « zitta e buona » e si schiariva la voce. Piano piano sollevava i lembi della busta, un po’ per fare scena, un po’ per non sciuparla di più. Le dita con le unghie nere spiegavano il foglio. Schiariva la voce un’altra volta.
Le lettere di mio fratello Pasqualino cominciavano sempre così, « Cara mammina, caro babbo, io sto bene. Come state voi? E Gensina? E la Marina? ». Ogni tanto l’ordine cambiava e metteva la Marina prima di me, ma io non ci restavo male. Questa era l’unica parte uguale. Il resto era diverso ogni volta, perché diverse erano le cose che gli capitavano ed erano sempre buffe e divertenti e sembrava che, invece di essere prigioniero, fosse partito per una scampagnata. Così i pianti che ci facevamo erano sempre di gioia e mai eravamo tristi perché stava male.
Pasqualino lo avevano preso a Lubiana nell’ottobre del 1944. Adesso so che era un posto lontano, così lontano che non mi capacito di come fosse finito laggiù. Che ci aveva a spartire con quelle terre e quella guerra e quel modo di parlare? Certo, non aveva deciso lui di andarci, lui che aveva sempre pensato di aiutare il babbo col tabacco e mettere su famiglia e venire a stare a casa con la moglie e dieci, quindici bambini. Però alla guerra ci era dovuto andare lo stesso e non aveva fatto in tempo a ingravidare la Lucrezia, che adesso era la morosa di un altro e non ci salutava più per strada. Per la Lucrezia non mi dispiace, lo dicevo che era una smorfiosa (a costo di buscarmi un boccatone).
Nell’ottobre del 1944 mio fratello lo avevano pescato che se la batteva nella macchia e, prima che potesse darsi alla fuga, s’era ritrovato la canna d’un fucile puntata alla schiena e gli avevano detto, « Marsch », e qualche altra parola brutta tedesca, sicuro. Adesso erano sei mesi che stava a Francoforte, una città ancora più lontana, tedeschissima, e faceva i lavori per una famiglia di lì. La famiglia non era malaccio, lo diceva in tutte le lettere, anzi lo trattavano bene e la domenica gli permettevano di andare al mercato, guardato a vista, s’intende, ma sempre due passi erano. Sapeva parlare anche un po’ di tedesco, ma non ci scriveva mai che parole.
Dopo i saluti poteva venire qualsiasi cosa. Tra « E la Marina? » e il resto, la Marina faceva una pausa e ci guardava dritto in faccia, come se non sapesse come andare avanti, come se avesse disimparato a leggere. Poi mandava giù un groppo di lacrime, rifissava gli occhi alla lettera e seguitava.
Una lettera che mi ricordo diceva così:
« Cara mammina, caro babbo, io sto bene. Voi come state? E Gensina? E la Marina?
Non ci crederete, ma oggi mi hanno dato per pranzo una bistecca. Ci sono proprio rimasto. Ho alzato la testa per chiedere se la potevo mangiare tutta e la signora mi ha detto di sì. Cavolo, una bistecca, gli è saltata una rotella. E tu babbo l’hai scannato il maiale? E quanti quintali faceva quest’anno? Vorrei tanto essere lì con voi e cuocere la pizza sotto il fuoco colle salcicce. Ma voi non state in pensiero, perché qui mi danno da mangiare la bistecca e quindi va tutto da Dio, solo che mi mancate.
Un saluto alla Lucrezia se la vedete. E ditele che non importa se s’è messa con Primetto. Aveva ragione la Gensina, è una smorfiosa e basta. E tanto me la sono rifatta anch’io la morosa qui. Alla faccia sua.
Vi abbraccio, vi voglio bene. Torno presto. »
Ma presto non tornava e il mese dopo lasciavo un’altra lettera sulla panca e di nuovo Marina strillava e di nuovo i suoi occhi si perdevano nel vuoto e inghiottiva il pianto.
« Cara mammina, caro babbo, io sto bene. Voi come state? E la Marina? E Gensina?
Qui sono tanto buoni con me. Mangio tanto e sono pure ingrassato e non sgobbo come a casa. È meglio qui che stare alla guerra, dove potevo rimanerci secco. Ce la spassiamo, insomma, e vorrei che foste qui anche voi perché staremmo sempre a pancia all’aria. Qui nessuno va a cogliere il tabacco per gli altri, sono tutti puliti, le camicie stirate e lavorano nelle fabbriche e negli uffici e non vedi in giro nessuno con le scarpe bucate. È un posto strano, ma mi ci trovo bene.
Se potessi vi manderei dei soldini, ma non me li fanno mandare, però ho messo da parte un bel gruzzoletto e faremo festa quando torno. Accenderemo il fuoco sull’aia e arrostiremo il capretto e chiameremo Faustino: suona ancora la fisarmonica? Mi ricordo che era bravo parecchio e io posso sempre accompagnarlo con la chitarra. Ma poi l’avete venduta la mia chitarra?
Fatemi sapere come state. Vi voglio tanto bene, so che ci vedremo presto. »
E ancora, settimane, settimane.
« Cara mammina, caro babbo, io sto bene. Voi come state? E Gensina? E la Marina?
Oggi vi voglio parlare della mia fidanzata e se il babbo mi darà la benedizione me la riporto a casa e facciamo un sacco di bambini. È una come non se ne trovano giù da noi, bionda bionda e con la pelle come una bambola. Si chiama Hella ma io la chiamo sempre Nena, come la nonna, e lei ride scoprendo i denti grossi perché le sembra un nome divertente. È tedesca, ma è a posto. È gentile. La sua famiglia non la conosco ancora, ci vediamo solo i giorni di mercato. Sembra una poverella come noi, ma ha detto che mi presenta ai suoi. Ed è davvero tanto buona, quindi la mamma non si deve preoccupare. E poi le sto insegnando l’italiano, quindi quando viene sa già tutte le parole e non dovete preoccuparvi di niente. E non preoccupatevi, perché sono serio e casini non ne combino. E lo dico soprattutto per il babbo, che lo so che sta in pensiero.
Scrivetemi cosa ne pensate e se faccio bene a parlare col suo babbo. Ma se mi dite di no, non lo faccio, state sicuri. Soprattutto la Gensina voglio sapere cosa pensa, perché le mie morose non le stanno mai simpatiche.
Vi abbraccio forte, ci vediamo presto. »

Ma non ci siamo rivisti tanto presto. Però ci siamo rivisti e forse è solo questo che conta. Pasqualino ci ha messo cinque anni per tornare a casa. E quando è tornato era da solo, nessuna Hella, nessuna Nena, ed era sciupato, con la barba, secco come un chiodo. S’è presentato sull’aia senza scriverci niente, così, dalla mattina alla sera. Io avevo già dodici anni quand’è tornato, ormai sapevo leggere e avevo scoperto l’inghippo. Marina s’era sposata col suo moroso ed era andata a stare alla Pizzichina.
Quando Pasqualino è tornato, non ha voluto raccontarci niente. E mi ricordo che la mamma e il babbo si stupivano, perché per tanti anni ci aveva raccontato tante cose belle. E le cose erano due: o era diventato cattivo o le aveva dimenticate tutte. Non abbiamo fatto nessuna festa sull’aia. Cioè, l’abbiamo fatta, ma lui non si divertiva. E gli è rimasta ancora oggi un’ombra negli occhi che non era mai scesa sulle sue parole.
Quando Pasqualino è tornato, la Marina l’ha salutato con un certo imbarazzo, dicendogli qualcosa nell’orecchio. Io penso di sapere che cosa gli ha detto, perché ormai sapevo leggere, al contrario della mamma e del babbo.
Sapevo leggere ed ero andata a riaprire quelle lettere una per una e avevo visto che dopo « Cara mammina, caro babbo, io sto bene. Voi come state? E Gensina? E la Marina? » non dicevano mai niente, erano tutte righe nere, scarabocchiate con la penna, di parole che la censura non aveva fatto passare, di storie che non ci aveva potuto raccontare. Così la Marina, che era l’unica che sapeva leggere, inventava per noi quelle parole e quelle storie, tessendo per noi un’invenzione fantastica, un’invenzione che ci scaldava il cuore.

 Di Chiara Pagliochini

domenica 16 settembre 2012

Eveline a bordo

Andrew Wyeth

E poi c’è la paura, così dolce che avvelena. La leggi nella piega del braccio congestionato che si artiglia disperatamente al corrimano. E vedi un altro braccio, un’altra piega, corrimano di carta che hai letto una volta, tanto tempo fa, « her hands clutched the iron in frenzy ». Tutti i mari del mondo le si rovesciano sul cuore.
Il braccio appartiene a una ragazza non bella. Dalla punta dell’indice si risale lungo i torrenti viola delle vene gonfie fino alla spalla e al collo, un collo corto che sostiene un mento lungo, una bocca piccola e serrata, un grosso naso e occhi terrorizzati. La fronte è raggrinzita lungo trincee di una battaglia eterna, eternamente persa. Impercettibilmente scrolla la testa, di tanto in tanto, come per assicurarsi che i suoi capelli siano sempre lì, che la ciocca rosso cupo le ricada sempre allo stesso modo sulla tempia. È molto truccata, non bene.
C’è qualcosa in lei, aggrappata a questo corrimano, che grida la sua voglia di gridare. Se potesse, se lo scomparto della metro non fosse così gremito di donne e turisti giapponesi e signori con la ventiquattrore e pakistani, la sua bocca piccola e mal disegnata si aprirebbe in un urlo da cui forse non uscirebbe alcun suono. Ma sarebbe lo stesso spaventoso, spaventoso, perché il dolore è così.
Credo di essere l’unico, tra le persone che conosco, a prendersi così tanto disturbo per persone che non conosco affatto. È che non me la sento di ignorarle. Sì, so che si può solcare il mondo senza sentirsi attraversati dalle linee delle vite altrui, so che si può voltare la testa, affondare il naso in un libro, sprofondare in uno stordimento acustico dentro le cuffie dell’mp3, ma so anche che tutto ciò sarebbe da parte mia un atto di codardia, il venir meno al dovere umano della curiosità. Perché la curiosità – esser curiosi della tristezza su un viso sconosciuto, per esempio – è in qualche modo un dovere, una prova che non siamo al mondo per i fatti nostri, ma per avere a cuore i fatti degli altri, anche di chi non conosciamo. E non parlo di quell’atteggiamento critico, sempre altezzoso, di chi usa per gli occhi per guardare come è vestito qualcuno, che usa le orecchie per ascoltare quanto sia rozzo il suo timbro di voce. Io parlo di usare gli occhi e le orecchie e altri occhi e orecchie, più nascosti, per ascoltare le cose che non si vedono e non fanno rumore. Le tristezze, la punta di segreto dentro ciascuno di noi, dentro ciascuno di loro.
Capita, certe volte, di non incontrare nessuno per cui valga la pena di indagare così. Passano settimane, a volte mesi, come con gli occhi tappati, le orecchie sigillate, il cuore degli altri resta muto per noi. Poi un’espressione, un lampo di comprensione ed ecco ritorna l’amore per l’altro, l’amore incondizionato per l’altro in tutto il suo mistero. Così è stamattina. Così è questa ragazza aggrappata al corrimano.
Seduto al mio posto – accanto, una vecchia con la busta della spesa, più in là un ragazzino biondo come covoni – appoggio la testa sui gomiti e la osservo. Si morde le labbra laccate di rosso. Le inumidisce e fa come per aprirle su una parola che manca. È qui, ma altrove. Dietro le paratie degli occhi rivive un lontano passato o un passato vicino, magari una scena di qualche momento fa, un dialogo forse; oppure immagina, immagina cose non ancora accadute, cose che non accadranno mai o forse le capiteranno proprio ora, non appena le porte si spalancheranno sulla sua fermata. È bello, fa sentire potenti congetturare.
Adesso la prende un brivido. Fa una mossa come per chiudere una spalla sull’altra, per scomparire con una piroetta nell’aria consumata, greve di spezie e sudore, che la circonda. So questo: so che non vorrebbe essere qui. Non vorrebbe essere qui e non vorrebbe neanche essere altrove. Più di tutto, non vorrebbe essere. Ma è, è, e si artiglia al corrimano con tanta forza disperata che lo divellerebbe, se non fosse che il suo peso è così infinitamente trascurabile.
Parlarle, farle un cenno non avrebbe senso. È troppo persa in qualcosa dentro se stessa per accorgersi di me. Per accorgersi di qualsiasi cosa, credo. Quando qualcuno la urta, si sposta come per un riflesso, riaggiustandosi nella posizione di prima come una molla deformata. Non dice niente, i lineamenti non le protestano.
Il suo viso racconta però una storia che conosco, una storia che conosco per averla letta già tante volte sul viso di uno sconosciuto e persino nel mio. Persino nel mio, al mattino, davanti allo specchio, le guance non ancora rasate, si racconta la stessa identica storia. E poi c’è la paura, così dolce che avvelena: è questa la storia. Storia di aver paura di tutto, storia di spaventarsi da soli, storia di esser soli ad aver paura. Così, questa è la storia della ragazza, la storia che invento io per lei, ma che è plausibile quanto qualsiasi altra, forse persino più plausibile della sua vera:

la ragazza è appena uscita da un colloquio di lavoro. La ragazza ha indossato i suoi vestiti migliori, si è truccata come meglio poteva. Non bene, non è capace, non è bella. Il suo nome è stato chiamato, si è seduta, ha parlato con voce di chi finge di essere un altro, un altro senza paura. All’altro capo della scrivania, l’uomo ha annuito spiandole il reggiseno bianco dietro la camicetta bianca traforata. Un vezzo di eleganza, ma ora un errore così da poco. La ragazza si è accorta che l’uomo non la ascoltava, la ragazza si è accorta che non guardava proprio lei. La ragazza si è alzata, ha stretto la mano che le veniva tesa sconcertata, ha detto: « Grazie, non mi intessa più ».

la ragazza sta andando dall’uomo che ama. Non l’ha ancora mai visto, ma che l’ama lo sa. Lo sa perché si consuma gli occhi di pianto e la gola di paure che ingoia, ingoia. Pianger sempre non si può. La ragazza sta andando e non vorrebbe andare. Non vorrebbe andare, perché sa che andando si rovina tutto, che la realtà compiuta incrina la perfezione della fantasia. Sa di non essere bella, sa di non essere truccata bene e nel suo cuore gonfio di angoscia queste piccole stupidaggini hanno importanza, perché in amore è così. Quando le porte si apriranno, la sua mano si staccherà dal corrimano, le sue gambe cammineranno via, farà forza e sbucherà dalle scale buie sulla piazza sfolgorante di sole, il Duomo appoggiato davanti come un merletto. Quando le porte si apriranno, avrà voglia di fuggire. Non fuggirà.

Di storie come queste, il suo viso e le sue mani ne raccontano milioni. E così il viso della vecchia con la busta, così quello del ragazzino biondo grano. E tirarsi indietro, non leggerle, è un misfatto che compiamo contro noi stessi, privandoci della possibilità di esercitare sensi segreti, più sensibili dei nostri cinque sensi. Di questo ci priviamo, della possibilità di alzarci dal nostro posto, avvicinarci a quella ragazza, staccarle le dita dal corrimano, una per una e, mentre lei alza la testa come per chiederci perché o forse per insultarci di una libertà che non capisce, dirle la parola che stava aspettando:
« Non avere paura. »
C’è una parola così per tutti. C’è una parola perfetta che districa il nodo segreto in ciascuno, che apre la paratia e fa traboccare gli occhi di lacrime di squisita gratitudine. C’è un pianto premuto in fondo alla gola di ciascuno. Basta azzeccare una parola per evocarlo.
Le cola il trucco sulle guance. Quasi non capisce perché quella parola sia arrivata da lei. Perché se la meritava, ecco perché, ce la meritiamo tutti.
« Non avere paura. Avrai paura sempre, ma non voglio che tu la abbia proprio adesso che posso vederti. »
La ragazza fa sì con la testa. Mi sorride un pochino. E il suo sorriso spalanca le porte sulla mia fermata. La sua non è ancora arrivata, la sua è più in là, dove non posso più vederla, dove la sua paura esploderà di nuovo contro la solidità fredda del corrimano. E non ci sarà nessun altro a vederla.


Di Chiara Pagliochini

lunedì 10 settembre 2012

Non cantano più le cicale

Campo di grano con volo di corvi, Vincent Van Gogh

Ha un tasto il crepuscolo che lo usano per spegnere le cicale.
Le cicale hanno cantato per tutto il giorno. Il loro canto si spande nei campi come un nastro, una banda sonora continuamente srotolata e arrotolata.
Quando arriva il crepuscolo, al canto delle cicale non ci si fa più caso. È diventato un suono d’ambiente, il plic plic del rubinetto che perde da sempre, il battito del cuore, quella musica celeste di cui parlavano gli antichi, quella dei pianeti che ruotano sui cardini, delle stelle che emettono luce pulsante.
Ma quando arriva il crepuscolo d’un tratto succede. Zabuuuuum. Come se andasse via la luce o tagliassero un cavo. Come se il mondo rimanesse tutto all’oscuro. Ma sono solo le cicale. Le cicale non cantano più, si sono spente, gli zampini hanno smesso di grattare. A non averlo più nelle orecchie, il canto manca come una luce spenta. Si spalanca un vuoto che non si riesce ad accendere. Click. Non c’è più click. Nessuno riaccende le cicale. Hanno smesso di cantare, nessuno sa perché.
Poi, piano piano, si affacciano i grilli. Timidi, dapprima, come se tutto quel cicaleccio li avesse resi vergognosi. Timidi che la loro voce, a confronto, sia così sottile e velata che non s’avverte neanche. Ed eccoli che ricostruiscono pazientemente una strenna musicale, dipanano lo spartito, sistemano gli archetti.
Non c’è più il silenzio. Non c’è più lo spaventoso silenzio che ti aveva mozzato il cuore. La terra ha di nuovo il suo rumore, velato, un rumore più adatto alla notte, ai cuscini, alla rugiada che scende gocciando sui fili d’erba. Sul capo si posa una calma mansueta. La notte diventa una bestiolina docile da accarezzare.

Ma cosa vuoi accarezzare, se non hai nessuno da accarezzare?
Accucciata nell’erba, Milena si stringe le caviglie. È l’estate dei suoi diciotto anni.
Quando hai diciotto anni, le notti estive sembrano grandi e profumate. Le stelle nel cielo seguono archi altissimi. Vorresti prenderne una e cavalcarla fino allo zenit, tanto senti di poter far tutto.
Accucciata nell’erba, Milena si stringe le caviglie. Non può fare niente. Solo vomitare.
Il vomito esce con un rivoletto giallo dalla bocca color corallo e cola in mezzo alle gambe. Impiastra le mani, le caviglie, tutto. Le scarpe sono laccate di fresco.
« Hai fatto? »
No, un altro conato scuote lo stomaco e riporta a galla qualcosa. Non c’è più molto.
« Un fazzoletto » è la voce di Milena, bassa, arrochita. Solleva leggermente il busto. Una mano le porge un fazzoletto, allunga le dita a stringerlo. Si pulisce la bocca, lo appallottola, lo lascia cadere. Raddrizza la schiena e sistema i capelli tirandoli indietro con i palmi.
Due occhi in mezzo al buio la guardano. È Lucia.
« Voglio andare a casa » le dice.
Lucia non dice niente. Le avvolge i fianchi con un braccio e la aiuta a camminare via. L’erba sulla costa è alta e tutta un frinire. Più lontano qualche lucciola fa scintille come una lampadina guasta. Lucia sa di buono, di profumo, di pulito. Milena si odora le mani: sanno ancora di vomito.
Non parlano. Milena è felice che Lucia non parli. Non ha bisogno di spiegarle nulla. Né di Luca né niente.
« Ti dispiace andare a casa così presto? » domanda Milena. Le sembra una buona domanda da fare, una domanda per dimostrare a Lucia che le vuole bene.
« No, no. Mi annoiavo. »
« Anche io. »
Non è vero, era troppo impegnata a odiare per annoiarsi. Odiare quelle stupide ragazzine vestite bene, coi loro abitini plissettati, i rossetti rossi, i flash delle macchinette fotografiche. Odiare Luca che le guardava e offriva da bere e faceva lo stupido. E vuotare uno dopo l’altro quei bicchieri di plastica colmi di vino scadente. Non c’era stato tempo per la noia.
« Una merda di festa. »
« Sì. »
Chissà se Luca si starà chiedendo dove sia. Milena sgrana gli occhi alla notte e non lo sa. Vorrebbe tornare indietro, tornare alla festa, ma ha già detto « Voglio andare a casa » e sembrava una cosa così ragionevole, dopo aver vomitato anche l’anima per colpa di uno stronzo. Ma adesso no, non sembra più così ragionevole, perché se quello stronzo non fosse poi così stronzo… « E poi ha detto che mi deve parlare… »
« Torniamo indietro » sbotta.
Lucia si ferma, la guarda. « Alla festa? »
« Sì. »
Non protesta, Lucia. Si volta e prende a camminare nell’altro verso. È come se non avesse una volontà sua, come se il suo ruolo non fosse che di raccogliere gli altri quando vanno in pezzi, di accostare i cocci per i bordi, uno a uno, e rimetterli insieme con un fazzoletto. Milena odia Lucia. La odia perché sta sempre zitta. Non è vero che le vuole bene.
« Luca è uno stronzo » dice. Prova a intavolare una conversazione, ma Lucia si stringe appena nelle spalle, non reagisce.
« Ha detto che mi doveva parlare. »
« È per questo che stiamo tornando là? »
« Sì. »
Lo spiazzo della festa, in mezzo al campo, è una rovina di bottiglie. Bicchieri di carta ammaccati e cenci di festoni. Una ragazza con una gonna corta è sdraiata a pancia in sopra su una panchina. Tra le gambe divaricate occhieggia un tanga. Milena lo trova di cattivo gusto. Un tipo cammina lungo una linea immaginaria a occhi chiusi. Ha le braccia spalancate come due ali d’aereo e fatica a reggersi in piedi nonostante sia solidamente poggiato a terra, ancorato a un paio di Hoogan. Luca non si vede.
« Mile! » è la sua voce, arriva da dietro.
Milena si volta, Lucia sussulta. Luca le raggiunge e si ferma.
« Vi sono venuto dietro quando ho visto che vi allontanavate. Tutto bene? »
« Ha vomitato » risponde Lucia. Milena si chiede chi le abbia sciolto la lingua, chi le abbia permesso di parlare al posto suo.
« Mi dispiace. »
Gli dispiace. Cazzo, non deve dispiacergli. « Porca puttana, non devi fare la parte della ragazzina che gli muore dietro e vomita perché è depressa. Cazzo, cazzo. » Vorrebbe prendere Lucia per i capelli e strapparglieli. Ha tanti capelli Lucia, lunghi, raccolti in una treccia a spina di pesce. È bella Lucia, il viso cosparso di lentiggini. Non sembrava così bella in mezzo al campo. È bella. Odia anche lei.
« Ti senti meglio adesso? »
« Sì » almeno a questo, Lucia l’ha lasciata rispondere.
« Fai due passi con me? »
Luca e Lucia si scambiano un’occhiata. È brevissima, soltanto Milena la nota.
« Andiamo. »
È da tutta la sera che aspetta questo momento. Non ci sperava neanche più. Quando Luca ha detto « Devo parlarti di una cosa », Milena non si è scomposta, non ha sorriso. Ha chiesto « Di cosa? », ma lui ha risposto « Stasera ». E adesso è stasera, è stasera da tante ore e Luca ancora non le ha parlato e ha fatto il cretino con tutte, a Marta ha persino alzato la gonna (quelle gonne larghe bianche, vaporose come una corolla, che non sei Marylin e non sarai mai Marylin e che cazzo te le metti a fare?). Ma adesso è più stasera di prima. Adesso Milena cammina con Luca rasente il campo, il braccio di Milena dentro il braccio di Luca, il passo di Milena col passo di Luca. Non vorrebbe lasciarlo mai più. Giorno dopo giorno, per tutta l’estate, Milena ha amato Luca di un amore viscerale. Il primo pensiero al mattino, Luca! Il pensiero quando ci si veste, Luca! Il pensiero di quando ci si guarda allo specchio, Luca, non sono abbastanza bella. La certezza di non essere abbastanza bella non solo per Luca, ma per Marco e Giacomo e Nicola. La certezza di non essere le ragazze sui giornali di moda. Il vestito indosso a loro sta sempre meglio che indosso a te.
« A diciotto anni è normale. È un disturbo di percezione. »
Un disturbo di percezione. La mamma di Milena fa la psicologa. È stupida. E una gran troia. Lo sanno tutti che mette le corna a papà. La mamma di Milena apre l’armadio di Milena e i vestiti di Milena le stanno sempre meglio di quanto non stiano a Milena. La mamma di Milena è la prima della lista, la prima della lista dell’odio.
Ma adesso c’è la sera, c’è il campo, c’è Luca. Luca sta sorridendo. Milena sorride. I denti di Luca sono bianchi, color luna. Le guance sono lisce e sbarbate, i capelli corti. Milena ama Luca perché non fa mai caso a come è vestita, perché le dice che sta bene (ok, solo ogni tanto) anche senza trucco, perché è l’unico con cui riesca a parlare. Luca non odia nessuno, ama tutti. In lui l’odio di Milena si stempera e si frantuma. Per amore di Luca, amerebbe tutti. Ma è troppo difficile se anche Luca non ama lei.
« Ti sei divertita? »
« No. »
« Ti si legge in faccia. »
« Mi danno fastidio. »
« Chi? »
« Tutte quelle ragazze. Finte. »
« Lucia non è finta. »
« Un tantino meno finta della media. »
« Non ti è simpatica? »
« Non lo so » Milena scrolla le spalle, non ha voglia di parlare di Lucia.
« Però è stata carina con te. »
« Anch’io sarei stata carina con lei se avesse sboccato anche l’anima. »
« Non dovevi bere così tanto. »
« Non ho bevuto tanto. Ero triste. »
« Perché eri triste? »
Glielo dico, non glielo dico. Milena non lo sa. Dovevano parlare, e non si stanno dicendo niente. Aveva pensato che si sarebbe deciso del suo destino, se non del suo destino almeno della sua felicità, ma lo stanno decidendo a sfilettate di nulla.
« Perché dovevi parlarmi e sembrava che non volessi » glielo ha detto. Un piccolo accenno di ‘qualcosa’.
« C’era gente. Non potevo parlarti là in mezzo. »
« Potevi sorridermi. »
« Non l’ho fatto? »
« No. »
« Mi dispiace. »
No, Luca, non devi dispiacerti, devi sentire che sono arrabbiata. Sono arrabbiata, arrabbiata, un furore che mi sale su dalla gola agro e mi rizza tutti i peli delle braccia. Devi dirmi quello che hai da dire o sdraiarmi in mezzo al campo e baciarmi e slacciarmi la salopette e baciarmi il seno. Non devi dispiacerti, Luca, devi ricordarmi perché siamo qui. Milena gli appoggia la testa contro l’avambraccio. Guarda in su. Lontano lontano formicolano le stelle. Le piacerebbe guardarle distesa sulla panca come la ragazza con la gonna corta. Le piacerebbe guardarle riversa tra le stoppie, le caviglie di Luca che sfiorano le sue, le sue mani nei suoi capelli, il profumo dei loro corpi che si amano.
« Mile, mi sono messo con Lucia. »
Sulle prime non è chiaro. Milena non capisce cosa stia dicendo. Non capisce perché non ha senso. Milena sa che un’emissione di fiato è sempre un’emissione di senso e, se è Luca che parla, allora quel senso è tanto più legittimo aspettarselo. È un ragazzo intelligente Luca.
« Con Lucia. »
« Sì. »
« Era questo che dovevi dirmi? »
« Sì. »
Qualcuno inghiotte la saliva. Fa un rumore tremendo, come un crocchio per l’aia.
« È una brava ragazza. Sono contenta per te. »
La frase si è formata così spontaneamente sulle sue labbra che non ha dovuto cercare neanche la forza per mentire. Le sue labbra hanno mentito, lei non è più lì. Lei è nel campo, accucciata nell’erba che si stringe le caviglie. E Lucia le copre le spalle con un fazzoletto in mano, come se con quel misero pezzo di carta potesse asciugare tutto il vomito che fluisce e continua a fluire e quasi zampilla dalla pelle e dai bulbi oculari. È un vomito cosmico che tutto sommerge, che tutto esaspera come lo strillo delle cicale. È un vomito che solo un buon tasto – non stasera, non oggi – spegnerà.

Di Chiara Pagliochini

lunedì 6 agosto 2012

Per anni ho guardato attraverso il vuoto


Per anni ho guardato attraverso il vuoto
colmato da due mani che si stringono
senza capire che cosa stringevano e perché
avessero tanta paura di perdersi.
Adesso capisco che sono tutti persi
come noi oppure non si sono ancora trovati
ma tutti i vuoti vogliono essere colmati,
tutte le mani strette. Le dita scompagnate
si tendono ad afferrare il niente e ricadono.
Ma il vuoto sempre è percorso
di tentativi di trovarsi e non è mai
ostacolo ma sempre possibilità.
Così facciamo i bagagli e partiamo a cercare
la mano che si tende per noi.

Per anni ho guardato attraverso il vuoto
colmato da due mani che si stringono
e mi sembrava così goffo che si dovesse
sudare così, il palmo premuto contro il palmo.
Adesso capisco che una mano asciutta
non vale niente e che il giovane Holden
aveva ragione eccetera eccetera.

Per anni ho guardato attraverso il vuoto
colmato da due mani che si stringono
ma quando l’ho guardato insieme a te
m’è sembrato tutto diverso.
Camminavamo fianco a fianco ma avevamo
tutto quel vuoto che ci premeva in mezzo
e io mi sentivo su Venere, sentivo te su Marte.
Fossimo stati lontanissimi, non saremmo stati
così lontani. Ma non era colpa nostra.
Come potevano quei due ragazzi camminarci innanzi
con quel vuoto tutto colmato senza vergogna?
Non c’era pudore per il nostro pudore?
Non sentivano urlare il nostro cercarci?
E mi è sembrato d’un tratto così stupido
che non camminassimo mano nella mano
e ho avuto orrore di non avere orrore della dolcezza.

Per anni ho guardato attraverso il vuoto
colmato da due mani che si stringono
e lo schernivo e non faceva paura
e anzi mi sentivo intelligente ad avere ancora
la mano libera. Adesso capisco che era solo
una paura diversa che la mia mano
non fosse stretta mai. Perciò ridevo.
E quando poi hai allungato la mano
e hai allacciato le dita con le mie come una valigia
o un puzzle e per un attimo è stato strano
perché non sapevamo se era il pezzo giusto
e alla fine ho sentito lo scatto del gancetto
e ho visto il disegno completato (anche se
mi faceva male il mignolino), allora
sono caduta contro il tuo fianco
per combaciare meglio e ho pensato
di non spostarmi più. 

Di Chiara Pagliochini