sabato 25 febbraio 2012

L'agenzia dei suicidi. Cap.24

“Ho i nervi a pezzi stasera. Sì, a pezzi. Resta con me.
Parlami. Perché non parli mai? Parla.
A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa?
Non lo so mai a cosa stai pensando. Pensa.”

Penso che siamo nel vicolo dei topi
Dove i morti hanno perso le ossa.

La terra desolata, T.S. Eliot


Quanto fummo gentili, educati, solleciti nei confronti l’uno dell’altra come quella mattina, io non ricordo di esserlo stato mai più. Ci muovevamo da un lato all’altro della camera spostando oggetti, chiudendo scatole, piegando lenzuola, come formiche laboriose. Lavoravamo in silenzio, non perché non ci fossero cose da dire, ma perché ce n’erano così tante che non valeva la pena di parlare.
Irene staccava le foto dalla bacheca, le appoggiava sul letto e raccoglieva le puntine in un barattolo di plastica. Rovistava nei cassetti della scrivania traendone mazzi e mazzi di carta per scrivere e carta scritta, che disponeva sul copriletto in due pile. Da una parte la roba da buttare, dall’altra quella che andava salvata.
I ritratti fotografici, la copia del dipinto – che una volta mi aveva detto essere l’Ofelia di Millais, e io mi ero battuto la fronte come se avessi improvvisamente ricordato, invece non ricordavo affatto – e un fascicolo piuttosto sottile di fogli finirono in una cartellina con l’elastico insieme alla sua agenda nera.
« Questi voglio che li tenga tu » ribadì, come se ce ne fosse bisogno.
Penne, matite e altri soprammobili rimasti a far la guardia agli angoli poteva prenderseli Marika. I vestiti e la biancheria riempivano due vecchie valigie e sarebbero finiti in beneficienza. I libri andavano alla biblioteca dell’università. Di questo mi sarei dovuto occupare nei giorni a venire, adempiendo alle sue disposizioni. Nessun testamento, nessuna lettera ad amici e parenti, per quanto lontani e quanto pochi fossero. Irene sperava che riuscissero ad evitare il dolore il più a lungo possibile. Sperava che non smettessero di sperare.
Restò ad ammirare la stanza vuota dal cantuccio della porta e annuì con soddisfazione.
« Fuori » disse, cacciandomi in mano la cartella « Mi devo vestire. »
« Non posso restare a guardare? »
« Per favore, aspetta in corridoio. »
Feci come diceva. Consumai il pianerottolo di passi, chiedendomi come mai ci metteva tanto e cosa stava facendo e se piangeva. Non capivo i miei sentimenti, così tentavo di dipingermi i suoi, ma erano tentativi un po’ goffi, sempre fallimentari. Mi affacciai sulla porta del bagno, socchiusa, e restai a guardare l’angolo di una vasca di ceramica, riempita d’acqua per metà. Sulla superficie appena appena increspata scivolavano dei petali rosa, che andavano lenti e lenti lungo vie segrete e studiate, come barche alla deriva o paperelle di gomma. Di tanto in tanto uno si fermava e faceva come per guardarmi. Mi chiesi se guardavano me come io stavo guardando loro e chi per primo avrebbe abbassato lo sguardo, se l’uomo senz’anima o il fiore senza vita, o forse lo avremmo abbassato entrambi nello stesso momento e saremmo stati perduti.
Poi Irene mi toccò la spalla, vide cosa stavo guardando e disse:
« Stavo facendo l’ultima prova. »
Provò pure un sorriso, che riuscì una smorfia, e mi caricò le braccia di barattoli con altri fiori e altri petali e altre decorazioni che dovevamo portare allo sposalizio.
« Scendi le scale prima di me » aggiunse « Dimmi come sto. »
Feci come diceva. Ai piedi delle scale c’era Marika, la bocca a metà di un biscotto.
« Si può sapere dove andate così eleganti? » disse, ciancicando la sua preda.
Non le badai. I miei occhi erano tutti per Irene.
Già una volta l’avevo guardata scendere le scale col cuore in gola, ma quel ricordo ora mi parve solo una brutta copia di questo o forse un’anticipazione, un assaggio che non aveva il gusto del piatto finito.
Stavolta la guardai e sperai di trattenerla tutta così. Sperai che non smettesse mai di scendere le scale. E così nel ricordo Irene ancora scende o risale le scale e quando arriva in fondo è già tornata da capo, come se l’eternità l’avesse bloccata in quest’unica sequenza di azioni.
Scende le scale tenendo sollevata la gonna di un lungo abito bianco. È un abito molto semplice, eppure molto incantevole. Il busto è fasciato da un unico lembo di tessuto pieghettato, mentre la gonna si allarga verso il fondo, le increspature che al tocco della luce sembrano di un bianco sempre diverso, ora avorio, ora panna, ora vernice. Le spalline leggermente bombate paiono due alucce che stiano per spuntare. Si ferma a metà della scala per aggiustare i capelli: sono tirati in alto con delle forcine, ma alcune ciocche sfuggono all’acconciatura. Il viso è atteggiato a un’espressione concentrata. Sembra estremamente preoccupata dei suoi capelli. Gli occhi sono lacrimosi, distratti. I pensieri vanno lontano, non so quanto lontano. So solo che non sono occhi disperati. Non hanno niente della paura. Sono occhi di una donna che va a stare da un’altra parte, occhi di una donna che cova insieme speranze e ricordi, e vede ora gli uni ora gli altri. È pronta a un’altra vita. Si congeda da questa.
« ‘Mmazza » dice Marika, rompendo l’incantesimo.

Le guardai salutarsi brevemente, un saluto tutto di superficie. Irene rise e ringraziò per i complimenti.
« Non so se torno stasera » disse, facendo un gesto con la mano che voleva significare la sua disinvoltura « Non stare in pensiero. E non spaventarti se entri in camera mia. Ho impacchettato tutto. Quando torno, riparto per un weekend dai miei. »
« Ci vediamo » rispose Marika.
« Ci vediamo » rispose Irene.
« Ci vediamo » aggiunsi io. E poi mi chiesi dove e quando e come e voltai le spalle al pensiero che pure dovevamo rivederci.
Irene mi precedette per aprire la porta. Armeggiai con le chiavi della macchina e stipai i barattoli sul sedile posteriore, assicurandoli con la cintura perché non cadessero. Irene sedeva davanti, tenendo fra le braccia il mazzo che le avevo procurato dalla fioraia. Tracciò con le dita la corolla di una margherita, soffiò via la polverina da un papavero e scavò col pollice nelle olmarie appassite. Un ciuffo d’ortica era finito nel mezzo per sbaglio: la punta del mignolo le si coprì di piccole vesciche. Se lo portò alle labbra per lenire il dolore e strinse al petto quel suo mazzo avvolto in carta di giornali.
« Ti ringrazio » disse.
Io diedi gas per andare dove stavamo andando, senza sapere dove stavamo andando, senza guardare la strada e sentendo forte al mio fianco la sua presenza già quasi intangibile. Era così bianca, così luminosa che era come guardare dentro un vuoto. Ho guardato nel vuoto e ancora non so cosa ho provato. Sapevo soltanto che dovevo andare diritto e invece volevo andare storto, saltare le curve, arrampicarmi sui muretti e finire nei burroni purché fossimo insieme. E vedevo la macchina come rotolare giù da un pendio senza fine in cui non smettevamo di cadere. Invece andavo diritto. Invece andavo diritto.

Il cielo era alto e limpido sopra di noi quando Irene spinse la porta dell’agenzia. Registrai il suono di materie plastiche come se lo sentissi per la prima volta. Mi sembrava di camminare e di guardare attraverso una bolla dalla superficie levigata, che faceva tutto più attutito, più informe. Vedevo la scena da lontano, come se non la stessi vivendo, se stesse capitando a qualcun altro, la sequenza di un brutto film dai colori spenti o il passaggio di un libro in terza persona.
Era Iris quella che ci veniva incontro dal corridoio? Era sua la voce che disse « Non aspettiamo nessun’altro? » ? La sua faccia pareva galleggiare a mezz’aria, con la treccia da una parte a far da áncora. Non sapevo che piega dare agli angoli della sua bocca, come uno scultore indeciso sul modo di sbozzare la pietra. Alzavo lo scalpello e quando stavo per colpire, zac!, quello mi ricadeva fiaccamente lungo i fianchi.
« Nessun’altro » disse Irene, da qualche parte intorno a me.
Sentivo la voce di Ida ma non ero capace di vederla. La sentivo affaccendarsi per togliermi la giacca. Sono sicuro che sfilasse una manica, ma non tanto sicuro che la sfilasse dal mio braccio o che sfilasse la manica portandosi dietro la giacca. Non sono sicuro che indossassi una giacca.
Sapevo che Iris diceva « Bene, potete accomodarvi », e quella era l’unica cosa che contava, perché Irene si stava incamminando lungo il corridoio, seguendo una lucina fioca in fondo. Sapevo che dovevo seguirla perché lei mi teneva per mano, ed era la forza del suo strattone a trascinarmi avanti.
La saletta era sgombra e pulita, le luci tutte spente. Non c’erano banchi né tappeti né sgabelli. La lucina proveniva da una porta sulla destra, una luce soffusa traverso un vetro smerigliato. Ricordo di aver premuto il naso contro il vetro, come se pensassi di vederci dentro un impiccato. Poi Iris spinse la porta e la tenne aperta per me, il che mi parve strano, perché non volevo impiccarmi. Guardai Irene per avere conferma che stavamo facendo bene, ma lei non ricambiò lo sguardo.
Quando la porta si chiuse, volevo andarle dietro, ma Iris mi tenne fermo e disse:
« Lei resti qui. »
C’era una fila di seggiole allineate lungo la parete, e sembrava che io dovessi restare qui. Mi sedetti e chiusi gli occhi dentro le mani incrociate, per schiarirmi i pensieri. Qualcuno mi spinse un bicchiere d’acqua contro il petto, allora aprii gli occhi e vidi Ida. Stavolta la vedevo, ma non riuscivo a sentirla parlare. Muoveva le labbra come un pesce rosso, rinforzando il suo messaggio con qualche piccola pacca sulle spalle. Dissi, « Grazie », ma non sapevo se era quello che voleva sentirsi dire e la guardai allontanarsi ancheggiando.
Dovevo fare qualcosa per cavarmi fuori dalla bolla. Avevo l’impressione che fosse tutto sbagliato. Mi concentrai su azioni semplici che dovevo sbrogliare una per una. Piegai il dito indice cercando di non piegare tutti gli altri. Tirai su col naso. Mi grattai dietro l’orecchio dove avevo male. Mi gratificò pensare che questi compiti mi riuscivano. Applicai l’attenzione a quella stanza, per capire come fosse fatta e perché eravamo passati dalla porta invece di restare dietro il vetro. Era una stanza larga, violentemente illuminata. A guardare il soffitto c’era da riabbassare subito gli occhi, perché le palpebre si riempivano di scintille incandescenti. Il pavimento era mattonato color crema, grandi lastre chiare e buone, che non ribattevano in faccia la luce.
Al centro della sala, su una pedana rialzata, c’era una vasca da bagno. La vasca era poggiata di profilo, sorretta sui suoi piedini d’ottone, modellati in solide zampe artigliate. Mostrava una faccia di mezza luna, una faccia ammiccante e formosa come una pancia di donna. La luce batteva sulla fiancata, così che non sapevo se era davvero una vasca o piuttosto una piroga sulla cresta dell’onda o forse una falce reclina sull’erba o una smorfia, una smorfia beffarda, crudele. Distolsi lo sguardo, non potevo soffrire il suo, e lo diressi altrove.
Cercai con gli occhi Irene, ma non trovai che i suoi piedini che si muovevano. Sporgevano da un lettino incartato di bianco, come di quelli per visitare i malati, e Irene era seduta a cavalcioni, le gambe e i piedi nudi che sferzavano l’aria in movimenti di dondolo. Dietro il lettino c’era un grosso macchinario che registrava delle lineette seghettate. Era carino da guardare perché le lineette correvano via, alzandosi e abbassandosi come se non volessero farsi acchiappare. Intorno a Irene, camuffate in grossi camici e pantofole e mascherine, ronzavano Iris e Ida, più irrequiete loro delle lineette, e certamente più difficili da acchiappare. Quando avevano avuto il tempo di cambiarsi? O erano sempre state vestite così?
Erano strani i loro gesti da così lontano, gesti confusi, da pantomima. Gli arti si aggrovigliavano, le teste si frapponevano, i passi confondevano tutto, e non si sapeva di chi fossero tutti quei pezzi, come se le parti fossero più del tutto o il tutto molto meno delle parti. O forse ero io che guardavo come attraverso una reticella. Forse guardavo al rallentatore, ed era per questo che i loro gesti così semplici si spezzettavano in tanti piccoli frammenti, che presi singolarmente erano privi di significato e anche insieme parevano un Picasso.
Poi Iris si staccò dal lettino e camminò verso la vasca, e per seguirla i miei occhi si strizzarono come un tubetto di maionese. Come si versa tè da una teiera panciuta, che riflette e cattura la luce giocando a rimbalzarla tra le tazzine, come si versa tè da una teiera panciuta e il fumo sale spiraleggiante dal fondo della tazza e si chiede, « quanto zucchero? », come si versa tè da una teiera panciuta e lo si trangugia con labbra attente, premute appena appena sul bordo, pronte a ritrarsi come le piume di un pulcino, così si può versare acqua in una vasca da bagno. La si versa con un secchio di rame, la si versa con premura, inclinando bene il beccuccio. E se non c’è abbastanza tè per tutti o non abbastanza acqua, allora la donna si scusa o almeno tenta di giustificarsi con una smorfia e dice, « Ne faccio subito dell’altro », e scompare in una stanza attigua da cui riappare portando altro tè o altra acqua, e la teiera e il secchio fanno il loro lavoro finché tutti non sono serviti, finché l’acqua non trabocca dalla vasca, il tè dalla tazza colando sul pavimento, sulla tovaglia, lambendo le punte delle scarpe.
Poi la donna immerge il cucchiaio nella zuccheriera, attenta, con un sorriso sul volto, pronta ad evitare lo spreco e il risparmio, scuote il cucchiaio perché la quantità sia esatta e spolvera finemente la superficie. I granelli ricadono come pioggia incantevole, si dissolvono in dolcezza nella pancia del tè.
Allo stesso modo frivolo e concentrato, coi medesimi gesti di padrona di casa, di moglie, di madre, con lo stesso sorriso arcaico, misterioso di sacerdotessa, Iris pescava dai barattoli di petali. Il suo pugno si apriva, si chiudeva, terminava con una curva sciamanica, dolce ed esatta, e i petali sussultavano sul pelo dell’acqua. Allo stesso modo frivolo e concentrato, coi medesimi gesti di balia e di oracolo, Iris stringeva il mazzo nell’incavo del braccio e le sue dita si aprivano e si chiudevano, cogliendo i fiori dai loro steli, recidendoli con un gesto nervoso, rigettandoli in uno sfolgorio, il colore che si dilata nell’aria, l’esplosione di una polveriera che dura un secondo.
E i petali recisi cominciavano la loro corsa intorno intorno al bordo della vasca. Uno si arrampicava seguendo il contorno di un’onda concentrica, batteva contro la parete, ne veniva frastornato e lanciato al di fuori, e scivolava lungo il profilo di porcellana, bagnato, gualcito, tutto solo in una piccola pozza.
È una cosa che rimarrà nella mia memoria per sempre. La riscrivo, la ricoloro cogli occhi ogni notte. Ogni tanto vi aggiungo un dettaglio, me la costruisco limata come doveva essere, priva di sbavature. Sono sicuro che qualche imprecisione dev’esserci stata, sicuro di averne inventata almeno la metà, ma se non è stato così doveva essere così. A volte le cose devono essere in un certo modo e basta. Cambiarle, migliorarle non è un regalo che facciamo alla memoria, bensì una giusta compensazione della realtà mancata. Scriverle una bella morte è l’ultima cosa che farò per Irene. Non importa che non se lo meriti o non se lo sia meritato. Importa che sento di doverglielo, perché la mia vita prima di lei non era vita. E se ho sofferto, se continuo a soffrire, se anche soffrirò per sempre, non si può fare una colpa a qualcuno per averlo amato. Non era colpa sua se era così amabile e non era colpa sua non amarmi. Non era colpa di nessuno, non è stato. Ma tutto quello che ho avuto da lei… a volte io credo sia pari a quello che ho perso.
La vedevo sul lettino. Adesso Ida le sfilava il vestito dalle braccia, le sfilava la biancheria e Irene restava nuda, completamente inerme, si affrettava a coprirsi con le mani perché non la vedessi. Ma io non stavo davvero guardando, non in quel momento. Se anche l’avessi guardata, non avrei visto una donna, non avrei visto un’amante. Avrei guardato negli occhi quell’animale spaurito, quell’animale senza speranza, con la sua carne da macello pronta al patibolo, e avrei provato soltanto compassione.
Iris immergeva la mano nella vasca, saggiando la temperatura dell’acqua. Intanto Ida spiegava un camicione bianco e lo passava a Irene. La testa scura sbucava dallo scollo rotondo e non c’era più niente di lei. Le sue dita accolsero tremanti un bicchiere d’acqua, batteva i denti dallo sforzo di reggerlo. Iris le fu davanti e tenne la sua mano nella propria, le proprie dita sulle dita bianche e malferme, stampate sul vetro. A capo chino, si dissero qualcosa. Iris annuì. Io pensai che era l’ultima cosa che si dicevano e non potevo sentirla e fui colto da una rabbia che le avrei uccise io. Le avrei uccise io, entrambe, sul momento. Se solo le gambe non fossero state così incapaci di alzarsi, di far funzionare le articolazioni. Se solo la mia bocca si fosse piegata a quell’urlo che sentiva salire.
Era l’ultima cosa che si dicevano e io non avrei mai sentito cosa s’erano dette. Non avrei mai capito Iris, non avrei capito se aveva rimorsi, se soffrisse, se voleva bene a Irene quanto gliene volevo io. E se gliene voleva, perché la uccideva.
Ida cavò dalla tasca del camice un barattolino di plastica. Svitò il coperchio e precipitò sul palmo quattro o cinque pilloline. Le depose nella mano aperta di Irene, quella che non teneva il bicchiere. La guardai e mi sembrava di sentirla soppesare, sembrava una grossa e sgraziata bilancia, da un lato il bicchiere, dall’altro le pillole, come chiedendosi quale pesasse di più o perché pesavano così tanto. Restò con le braccia aperte un secondo solo. Io abbassai gli occhi. Quando li rialzai, era troppo tardi per fermarla. Vidi scomparire i confetti sulla punta della lingua, li vidi inghiottiti, dispersi. Bevve il bicchiere d’acqua in un lungo sorso. Sentii qualcosa che mi si fermava nei polmoni, come se Irene fossi stato io.
La vidi cadere. La vidi distesa. Vidi quel corpo cui non avrei parlato mai più.
Non la vidi cadere. Non la vidi distesa. Irene saltò giù dal lettino come se non fosse mai stata più viva, saltò giù dal lettino e mi corse incontro, si appallottolò tra le mie braccia e i miei occhi che piangevano. Avevo pensato di non poterle parlare mai più e adesso che la stringevo tra le braccia non trovavo niente da dirle. Le parole non salivano. Le bagnavo di pianto la camicia, lei piangeva sulle mie guance. La stringevo forte. Volevo che restasse.
« Abbiamo ancora qualche minuto, prima che facciano effetto. »
E allora pensai a quanto eravamo fortunati e a quanta altra gente non lo era, noi che ci lasciavamo sapendo di lasciarci, noi che ci lasciavamo abbracciati, nel pieno delle forze, nel cuore della vita. Noi che avevamo ancora davanti qualche minuto tutto per noi, e potevamo scegliere le parole, le ultime parole per dirci addio.
Non avremmo fatto come facevano gli altri. Non avremmo mancato l’appuntamento. Ci saremmo detti la cosa giusta, la cosa perfetta, le ultime parole che mai nessuno prima era riuscito a dirsi.
Sentivo Irene che sospirava forte, la testa nell’incavo della mia spalla. Cercai la sua pelle sotto il camicione per sentirla e stringerla e possederla in un attimo con tutta la forza, l’intensità che avevo.
Mi disse delle cose. Disse:
« Ricorda la promessa. »
Io dissi che non avevo dimenticato. Dissi che lo avrei fatto. Lei disse:
« Va bene. »
E poi restammo di nuovo in silenzio, in un pianto abbracciato. Io cercai dentro di me la parola perfetta, il sigillo, l’incantesimo che l’avrebbe liberata. Lo cercai come può cercarsi la parola ferma sulla punta della lingua. Volevo dirle qualcosa che potesse non dimenticare mai e che allo stesso tempo sapevo non avrebbe mai ricordato. Ma era importante per me, importante per me. Non potevo esserle mancante.
E quando l’ebbi trovata e le girai la testa e gliela dissi nell’orecchio, urlando, gliela gridai attraverso, l’ultima parola io l’avevo trovata, ed era per lei, non ce n’era mai stata una simile, mai scrittore o poeta o amante o profeta, mai con lo stesso amore. Le voltai la testa. Ma lei aveva gli occhi chiusi.

Di Chiara Pagliochini

domenica 19 febbraio 2012

L'agenzia dei suicidi. Cap.23

Ecce Ancilla Domini, Dante Gabriel Rossetti

Il trattamento di Irene era il dodici maggio. Me lo disse quel giorno, sul ponte, stringendomi un pochino la spalla mentre parlava, quasi dovessi finire oltre il parapetto per lo spavento. Io feci solo di sì con la testa e dissi che sarei rimasto con lei. Mi fece promettere che avremmo ancora trascorso tanto tempo insieme, c’erano tante cose da fare, cose da comprare, il numero degli invitati da decidere, come disporre il tavolo degli sposi. Mi sentivo come un amico gay cui fosse stato chiesto di fare da testimone. Perché quello era certo il matrimonio di Irene, il suo ultimo modo di sposarsi a qualcosa.
Come un testimone di nozze la accompagnavo in giro per negozi. La osservavo provare vestiti e sottane e camiciole bianche bianche che non lasciavano niente all’immaginazione. Ero tenuto a starla a guardare, ad azzardare commenti, sentendomi sempre troncare le parole di bocca quando dicevo cose poco appropriate. Ma dire cose inappropriate era facile, con lei che usciva dai camerini magrissima e seminuda e mi sfilava sotto gli occhi come se non fossi neanche umano. Suppongo mi vedesse come una specie di infermiere, di amica del cuore, e invece io dovevo correre in bagno e restarci per dei minuti.
Alla fine, quando risalivamo in macchina, mi lanciava di quelle occhiate maliziose e un po’ incerte, lascive di una impudenza di ragazza, e diceva di sentirsi offesa, perché non avevo visto il suo ultimo completo.
Quando la mia pazienza era ormai arrivata al limite e un solo cenno del suo dito bastava a procurarmi acute fitte di frustrazione, finalmente giunse a una decisione. Si sarebbe immersa nuda, e fine dei giochi. Non aveva abbastanza soldi per pagarsi una camicia carina, se voleva prendere anche i fiori. Mi offrii di pagarla al posto suo, ma non volle sentire ragione.
In un discount acquistò quattro confezioni di petali secchi, di quelli per profumare gli ambienti. Spiavo nel cellophan per cercare più varietà possibili e ce n’erano di un rosso cupo, graveolente, di fucsia e di arancioni, di marroni e di blu. Mentre li stipava nel carrello lamentava di non poterne avere di veri, perché a comprare fiori freschi si spendeva troppo, e io le suggerii di passare dalla fioraia. Forse c’erano fiori un poco sciupati che potevano darle a buon mercato. Irene disse che ero brillante – brillante, proprio così! – ma che bisognava passarci la mattina del trattamento, perché riuscisse bene.
« Posso passarci io per te. »
« Sarebbe splendido. »
Mi ero ormai piegato a quella farsa con tanto convincimento quanto era il suo.
Il giorno prima del trattamento era domenica e volle far visita ai miei genitori. Mi fece guardare mentre si vestiva, perché voleva fare una buona impressione sui miei, e io dovevo dirle cosa le stava meglio. Fece di tutto per ignorare i miei consigli e alla fine optò per una gonna bianca, larga come la corolla di un fiore, e un camicia di chiffon. Sembrava più grande dei suoi vent’anni ed infinitamente più stanca. Aggiunsi sette mesi e ventisette giorni al conto, che pure continuava a non tornare. Avevo voglia di restare con lei per sempre.
Durante il viaggio ripassava i nomi dei miei nipoti e se li fece descrivere ancora una volta, per saper distinguere Mirco da Tommy non appena li avesse visti. Le ricordai di non far parola dell’agenzia e soprattutto di non dire che eravamo fidanzati.
« Ma noi non siamo fidanzati. »
« I miei si fanno sempre strane idee. »
« Vorresti che lo fossimo? »
« Non direi. Non oggi. »
« E domani? »
« Meno che mai. »
« Dopodomani? »
« Fosse possibile. »
Tener saldo il volante era difficile, con lei che continuava ad interrogarmi scioccamente, forse per il gusto di aggiungere dolore al dolore. Mi sentivo come un uomo che stava per morire e a cui si parlava senza alcuna gentilezza. Eppure era lei che stava per morire. Come poteva essere così tranquilla, così spavalda? La amavo e la odiavo con pari intensità.
A mamma la presentai come una collega.
« No, mamma, non Greta. »
Si chiamava Irene e soffriva di bronchite, così il dottore le aveva consigliato una gita in campagna. Non vorresti venire a casa mia? Perché no? Sarò lieto di ospitarti! Ma certo!
Irene era tutta sorrisi e mezzi inchini e si comportava bene, come se la camicia di chiffon le avesse aggiunto una nuova maturità. Mio padre la scortò a tavola sottobraccio e mentre andavano le parlava del ciliegio sul colle che l’aveva piantato suo nonno e di noi figli che non volevamo prendere in mano l’attività. Irene annuiva e sentivo scintillare per l’aia la sua risata. Mamma mi si accostò e disse che era carina ma troppo magra, e mi chiese se le piacevano le tagliatelle. Io non lo sapevo, così mi fermai a salutare Raffa, come se fossi molto interessato a lei che rimestava tra i sedili della macchina, cercando non so quale giocattolo di Elisabetta. Elisabetta era incantata dalla gonna di Irene e correva in tondo da lei al nonno, piena di smorfiette come sono le bimbe quando vogliono attirare l’attenzione. Mirco e Tommy erano già in sala da pranzo, seduti ai loro posti, braccia conserte: scoprii più tardi che erano entrambi in punizione.
A tavola Irene mi era seduta accanto. Io facevo la mia brava scena per svuotare il piatto dalle tagliatelle e ogni tanto cercavo la sua gamba sotto il tavolo, perché non riuscivo a parlare. Lei rispondeva al gesto appoggiando il suo palmo contro il mio, così non c’era bisogno di parole.
Non la vidi mai mangiare con più appetito di allora e, conoscendo i suoi trascorsi, mi parve straordinario. Si pulì la bocca col tovagliolo, cercò una seconda porzione e persino si voltò allegra verso di me, dicendo:
« Tu non ne prendi ancora? »
Mi affrettai a stringerle la mano sotto il tavolo per dirle che no, davvero non ne prendevo.
Dopo pranzo Raffa la sottopose a un interrogatorio serrato. Non so cosa si dissero, ma ricordo che le guardavo in silenzio dalla poltrona e mi veniva da mangiarmi le unghie per l’agitazione. Speravo che riuscisse a non tradirsi. Difatti non si tradì.
« Tua sorella ti vuole molto bene, però è un po’ una rompicoglioni » disse, mentre la accompagnavo sul colle a vedere il ciliegio. Papà aveva rinunciato alla sua passeggiata pomeridiana, sperando forse che sul colle, da soli, potessimo fare tanti bei nipotini. L’avevo osservato a lungo, l’avevo osservato osservare me che osservavo Irene e Irene che osservava me e tirare le sue conclusioni. Le mie farse non reggevano un secondo alla sua indagine, ma ero contento che non ne facesse parola con nessuno. Avrei voluto chiedergli quanto in lungo vedevano i suoi occhi. Se sapeva cosa sarebbe successo domani. Se poteva prevederlo per me.
Irene si aggrappò al mio braccio mentre i tacchetti delle scarpe sprofondavano nella mota. Se le tolse e continuò a camminare con le scarpe in mano, e il suo sguardo ondeggiava attento sul paesaggio coi suoi scorci, come se volesse imprimersi tutto sulle retine. Come se fosse l’ultima cosa che voleva guardare e trattenere.
Ci sedemmo sul poggio, faccia alla campagna, la mia schiena contro il tronco del ciliegio. Per terra era una distesa di petali passiti e scricchiolanti, che Irene soffiava via dalla sua camicetta tenendoli sul palmo della mano.
« Mi dispiace che non sei venuta quando è fiorito. È così bello quando è fiorito. »
« È bello anche adesso. »
« A me mette tristezza. Sembra che si stia svestendo. »
« Magari si sveste per qualcuno. »
Sorrise e avvicinò la sua spalla alla mia e rimase in quella posizione rannicchiata, come se volesse entrare nei miei fianchi. O restituirmi una costola. O un altro di quei pensieri scemi che ti vengono quando sei troppo innamorato.
« Non resteresti con me? »
« In che senso? »
« Viva, come in questo momento. Non vorresti restare, fermarti? Stare con me. »
« Non lo so. »
« Cercavi una persona che ti volesse bene. Hai fatto tanta strada. Io sono qui. Lo so che non sono proprio quello che volevi, che magari avevi aspettative un po’ più alte, ma non potresti fermarti, accontentarti? »
« Non è così che funziona. »
« E come, allora? »
« Mi sono spinta così avanti, troppo avanti. »
« Ti sei spinta da te. Significa che puoi tornare indietro. »
« Non voglio. »
« Non vuoi. »
« Tu mi vedi così e pensi di volermi bene, ma non è vero. Pensi di volermi bene, ma in realtà è tutta una cecità. Non c’è niente di bello in me da viva quanto ce n’è in me che sto per morire. È la morte che ti fa sentire così. Prende una cosa banale e la trasforma in una cosa magnifica soltanto perché stai per perderla. Come quando muore una persona famosa e senti un vuoto, ma in realtà fino a ieri non ti fregava niente. E non dico che sia una cosa ipocrita, perché è la morte che fa così. Tu non mi ameresti se non stessi per morire. »
« E tu non mi ami? »
Volevo urlarle che mi desse la possibilità di non amarla, urlarle che aspettasse un mese o un anno, il tempo per capire se l’avrei amata o meno. Il tempo per capire quanto tempo ancora avrei amato le sue tristezze e se mi sarebbe ancora piaciuta struccata. Il tempo per capire se riuscivo a staccare quei ritratti dalla bacheca e attaccarci invece una foto nostra. Il tempo per capire se eravamo una coppia che litigava spesso o che andava sempre d’accordo su tutto. Il tempo per capire se davvero le piacevano le tagliatelle o aveva vuotato il piatto solo per compiacere mia madre. Il tempo per capire se era troppo giovane per me. Il tempo per capire se poteva innamorarsi di un altro e lasciarmi. Il tempo per capire se le piaceva fare l’amore. Il tempo per capire se era brava. Il tempo per capire che c’è ancora qualcosa per cui valga la pena e che dobbiamo aggrapparci, aggrapparci e tenerci stretti per non lasciarci più andare. Ma il tempo era la vera rinuncia di Irene. Rinunciando al tempo, ci priviamo di tutto il resto.
Non urlai nulla, ma la strinsi tra le braccia e cominciai a baciarle tutto il viso. La fronte spaziosa con le rughe di espressione molto evidenti e l’attaccatura dei capelli, la punta del naso lucida come un bottone, le guance che profumavano di fard, le orecchie friabili di marzapane. Le baciai le palpebre, che frullarono al tocco come le ali di un uccellino e sbatterono mentre spiccavano il volo.
Tra le ciglia mi guardò e la vidi così spaventata che pensai si sarebbe ritratta o racchiusa in un bozzolo o, peggio ancora, che sarebbe rimasta così immobile e impaurita senza neanche tentare una difesa. E quando avvicinò le labbra e sentii il suo primo bacio colarmi sulla tempia non ci vidi più e le sbottonai la camicia e lei si lasciò sdraiare sulla schiena, coi petali che scricchiolavano tutti sotto il nostro peso. Le baciai il collo e le spalle scoperte, baciai i seni nudi attraverso una canottierina e sentii il petto che si scuoteva come una tromba delle scale quando cade un pallone e rimbalza per centomila gradini. La sua bocca si perdeva in un piccolo mugolio sommesso, come se stesse per piangere o parlasse nel sonno, e ogni tanto veniva più lungo un sospiro che mi sentivo soffiato forte contro la pelle.
Trovai le mutande sotto la gonna e le abbassai l’elastico, ma lei scattò a sedere come se avessi tirato una molla. Mi restarono le dita bagnate e restò l’orma delle mie dita nella carne morbida tra le cosce.
« No » disse solo, scuotendo la testa in modo confuso e imbarazzato, tutta rossa dalla bocca in su.
« No » ripetei stordito e arrabbiato, indeciso se guardarla.
« Non… no. »
« Guarda che non importa. Non devi avere paura. Non… fa molto male. »
Mi avvicinai e cercai di carezzarle la guancia con le dita ancora umide di lei, ma scansò la mia carezza come se potessi ustionarla.
« Non è questo. »
« Allora? »
« Non voglio oggi » disse in tono tremolante e poco energico, con gli occhi sull’orlo delle lacrime.
Mi veniva da ridere e da piangere per lei e sinceramente mi faceva anche un po’ ribrezzo.
« Hai paura che potresti cambiare idea. »
« No. »
« Sai che è così. »
« No. »
Farfugliò qualcosa di insensato che io non ascoltai. Ero certo che se l’avessi lasciata parlare mi avrebbe rifilato una trita teoria sulla purezza o magari sul peccato o una teoria ancora più da Irene, del tipo che si trattava del segno che non amava e non era mai stata amata, e questo era il motivo per cui doveva morire. Uscii pazzo e mi costrinsi letteralmente a non ascoltare. Quando ebbe finito e il colore le era rientrato nelle guance, io la guardai e dissi:
« Vorrei che potessi pentirtene, ma tanto so che non potrai. »
E questo la fece piangere, e io dovetti consolarla.

Eravamo ancora sul colle, stretti l’uno all’altra, quando sentimmo l’esplosione. Irene si era piegata dentro il mio orecchio e mi sussurrava qualcosa. Era strano, perché non c’era nessuno sul colle che potesse ascoltarci, nessuno oltre me che potesse ricordare le sue parole, eppure Irene s’era piegata dentro il mio orecchio, come se non volesse udire il suono della sua stessa voce.
Ci parlò dentro e disse la cosa più orribile che avessi mai sentito. Ci parlò dentro, si staccò ed esclamò:
« Prometti! »
Io avevo tagliato via le parole dalla bocca. Le avevo tagliate via, sgomitavano per scappare giù dal colle, per rotolare altrove.
« Prometti! »
Non potevo promettere. Non potevo. Era la cosa più sordida e orribile che mi avessero mai chiesto, una di quelle cose che dici, è la fine del mondo. Ed è la fine del mondo. È davvero la fine di un mondo. Una di quelle cose orribili da cui non si può tornare indietro.
« Prometti! » urlò per la terza volta, strattonandomi il collo della felpa.
« Prometti! Prometti! »
« Prometto » mormorai, voltandomi dall’altra parte.
Subito dopo esplose il camino, e fu come se l’avessimo fatto esplodere noi.
Da sotto il poggio si alzava una nube di denso fumo nero, una colonna maestosa che saliva in fretta e incipriava le nuvole di fuliggine. Presto mi fu alla gola e mi alzai per capire cosa fosse successo, da dove venisse. Si alzava da casa mia, giù in basso, e il camino era in fiamme. Aveva preso fuoco, e d’un tratto erano tutti sull’aia, i bambini che correvano da un lato all’altro, piccoli come sassolini. Sentii mio padre urlare il mio nome e vidi Irene confusa, perché non sapeva il mio nome. Era straordinario che non l’avesse ancora scoperto.
Le dissi, vieni!, e dimenticai la promessa appena fatta. La cancellai dalla testa dove s’addensava il fumo e insieme ridiscendemmo la collina. Mio padre usciva dalla cantina imbracciando un fucile.
« Ma che diavolo succede? »
« S’è tappato il camino » rispose, strofinandosi la fronte con la canna lucidata. 
« Da quant’è che non lo pulivi? »
« Eh, un paio d’anni. »
« Il fucile? »
« Ci sparo dentro per stapparlo. »
Annuii come se fosse una pratica consolidata.
Lo seguii in cucina, dove lo vidi piegarsi dentro la canna fumaria e infilare la cartuccia nel fucile. Mi coprii le orecchie per prepararmi al colpo. Tuonò un bum che scosse la casa da cima a fondo e la mamma entrò urlando dalla sala da pranzo, si portò le mani alla bocca e disse:
« Misericordia! »
Una pioggia di fuliggine venne giù dal camino, investendo noi e le mattonelle della cucina. Papà fece un salto all’indietro mentre un tizzone ardente rimbalzava sul pavimento e finiva rotolando ai piedi della mamma.
« Presto presto, vai a prendere la carriola. Dobbiamo spalare via questa roba! »
Siccome papà si stava già preparando al secondo colpo, era evidente che parlava con me.
« Prendi anche il secchio della cenere! » mi urlò dietro, scrollando la polvere dal grembiule. Eravamo tutti neri come cornacchie.
Sull’aia trovai i bambini che additavano il camino in fiamme e l’entusiasmo sulle loro faccette era troppo evidente per non far sorridere. Doveva essere l’avvenimento più eclatante da mesi. Raffa tossiva e parlava al cellulare con chissà chi, sciorinando una lunga serie di imprecazioni.
Feci il giro della casa fino alla rimessa delle legna, dove stava di solito la carriola. Mi fermai in cima al prato che mi divideva da lei, e fu allora che la vidi. Vidi Irene che mi correva incontro con le maniche della camicia rimboccate e la faccia impolverata, le braccia che impugnavano saldamente i manici della carriola e la guidavano a zigzag attraverso il prato, fino a fermarsi ai miei piedi esausta, col fiatone.
Aveva le guance rosse come se scoppiasse di vita. Guardai il fumo in alto, le fiamme che lambivano la base del camino come una corona di lampadine.
« Grazie. Dai a me » dissi, carezzandole una guancia. Le tolsi una riga nera.
Aveva le guance rosse come se scoppiasse di vita. Invece, scoppiava di morte.

Di Chiara Pagliochini

mercoledì 15 febbraio 2012

L'agenzia dei suicidi. Cap. 22

LA MORTE PER ACQUA

Phlebas il Fenicio, morto da quindici giorni,
dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare,
e il profitto e la perdita.
Una corrente marina gli spolpò l’ossa in sussurri. Come affiorava e affondava
passò attraverso gli stadi della maturità e della giovinezza
procedendo nel vortice.
Gentile o Giudeo
o tu che volgi la ruota e guardi sopravvento,
considera Phlebas, che un tempo fu bello, e alto come te.

La terra desolata, T.S. Eliot


Ofelia, Hughes

Quando andai da lei, quella sera, la trovai avvolta nel pigiama, prona su una cioccolata calda. Marika grugnì un saluto e sparì in cima alle scale. Sentii la porta della sua stanza che si chiudeva.
Non ci fu bisogno di far pace, perché Irene non era arrabbiata. In questa fase della sua vita la rabbia era un sentimento per cui non c’era più posto. Ce n’era stata tanta, un tempo, così tanta che aveva pensato dovesse arrivare a consumarla, a spolparle le ossa fino a lasciare una sorgente visibile e scoperta di furore. Ma quei tempi erano andati, superati e, anche se era così giovane, le sembravano ricordi di un’altra vita.
Le domandai di condividerli con me. Offrii in cambio dei ricordi miei e lei mi offrì una cioccolata, con sopra una polvere di granelli di nocciola. Sedemmo al tavolo, sotto la luce elettrica, con la tv spenta, e cominciammo a parlare.
Più che mai in quel momento la sentivo lontana, i suoi ricordi intangibili per me quanto i miei dovevano esserlo per lei. Ma mai come in questo momento ebbi una tale occasione di capirla. Riesaminò i motivi, andando di uno in uno come un passerotto che becchettasse semi, con un tono a volte lieto e leggero e altre volte aspro come la sua voce era stata un tempo anche per me.
Cominciò da quel giorno, quando si trovò sola all’aeroporto. Non aveva permesso a nessuno di accompagnarla. Un beauty case, due valigie e un bagaglio a mano le ruspavano tra i piedi come una nidiata di cagnolini. La gente si muoveva veloce su gambe e rotelle, nuovi mostri mitologici con sguardi allampanati e occhi che si appuntavano ai tabelloni luminosi cercando di decifrarli. Sedeva immobile, trangugiando di tanto in tanto un sorso d’acqua da una bottiglietta.
Sapeva che doveva alzarsi di lì e avviarsi al check-in. Era stata così previdente, aveva un margine di anticipo così largo, e lo stava consumando tutto per uno stupido attacco di panico. Capiva adesso quanto fosse sciocco, quanto forzatamente ottimistico essere venuta sola. Sapeva che se una mano non l’avesse scrollata non avrebbe avuto la forza di alzarsi. Tappò la bottiglia, fece leva sulle gambe e provò. Si mise in piedi, raccolse la borsa, e fu allora che le ginocchia cominciarono a tremare. Così sciocca, così sciocca. Si sforzò di tornare al tabellone. Appuntò il numero del volo sull’agendina. L’aveva già fatto, lo fece di nuovo. Donne e uomini e anziani in camicie a quadri e coreani con ridicoli cappelli sfrecciavano ai due lati da destra e da sinistra, tutti così sicuri e rapidi come piccoli insetti giudiziosi. Squillò il cellulare. Lo lasciò squillare. Si piegò sulle gambe cercando di non mettersi ad urlare.
Non poteva farlo. Semplicemente non poteva. Il solo pensiero di muovere un altro passo o di alzare un peso o di rivolgere la parola a qualcuno per chiedere aiuto… era semplicemente impossibile. Sentiva che stava per rigettare la colazione. Si sforzò di tenerla dentro come le avevano insegnato. Anni e anni di pratica per vincere l’istinto di ficcarsi due dita in gola e lenire l’angoscia. Non poteva. Non in mezzo a tutta quella gente.
Seppe che era finita quando le scritte rosse cominciarono a liquefarsi entro il contorno delle palpebre. Colavano dal tabellone come se qualcuno le stesse pulendo via con uno smacchiatore. Una valigia le morse una caviglia. Una mano si poggiò sulla sua schiena e disse qualcosa con la voce di una signora. Scosse la testa per dire che non voleva niente. Grazie, non ci serve niente. Grazie, lasciateci in pace. Lentamente recuperò l’equilibrio e si rimise in piedi.
Trascinò le valigie una per volta sul pavimento tirato a lucido, verso il luccichio della porta di vetro. La vedeva allontanarsi ad ogni passo, farsi più piccola e più sfocata, e quando il palmo poggiò sulla superficie liscia e fredda, seppe che era davvero finita.
Un tassista pelato stipò le sue cose nel bagagliaio. Allacciò la cintura lentamente, con una mossa misurata.
« Mi porti al mare » disse.
« Mare? » il tassista pareva perplesso.
« Mare. Quello più vicino. San Benedetto? Senigallia? »
La geografia era indifferente.
« C’è la spiaggia di Falconara a cinque chilometri. »
« Falconara andrà benissimo. »
Si stese contro il sedile rigido con la testa girata da un lato, per non far vedere che piangeva.

Veniva da una famiglia molto comune, Irene. Suo padre faceva il pompiere, la madre era casalinga. Aveva un fratello più piccolo che andava ancora al liceo. Per i suoi aveva sempre parole tranquille, venate di un profondo senso di colpa, che emergeva solo a tratti, alle curve più inaspettate.
Fin da piccola le era stato insegnato che due cose erano importanti per sopravvivere a questo mondo, il giudizio e l’educazione. La prima parte dell’insegnamento l’aveva assimilata molto bene, e non si poteva dire che non fosse giudiziosa. Solo, i suoi giudizi partivano spesso da premesse sbagliate. Era convinta di ogni singola cosa che diceva, convinta fino al midollo, e un consiglio mal indirizzato non mancava mai di infastidirla. Quanto all’educazione, questa seconda parte era più astratta e meno efficace. A volte la vedevi sforzarsi di essere educata, allungare una frase di cortesia, ma sempre con un leggero ritardo, e non era mai chiaro se lo facesse per innata malizia o infantile timidità.
Quand’era ancora piccola, i suoi avevano cominciato ad istruirla alla responsabilità. Ogni settimana, di domenica mattina, subito dopo la colazione, riceveva la sua paghetta, che conservava in una bustina di carta tra due libri. Si era imposta un piccolo regime molto austero e ogni settimana riusciva a metterne da parte più della metà. In un’agendina di pelle nera, molto simile a quella che avevo stretto tra le mani, teneva il conto delle entrate e delle uscite. E quando si iscrisse all’università riuscì a pagare la prima tassa da sola. La cosa la riempiva d’orgoglio, non soltanto perché le sue rinunce erano valse a qualcosa ma perché mostravano quanto caparbia e votata al sacrificio fosse. Si era sempre sentita votata al sacrificio, un sacrificio non più concreto dei precetti genitoriali sull’educazione, ma non per questo meno sentito. Era come se avesse bisogno di non essere troppo felice, come se la necessità la spingesse a non aspettarsi molto. Il pensiero di rinunciare a qualcosa le dava piacere.
Fu forse per lo stesso meccanismo che quando aveva quindici anni smise di mangiare. In realtà la cosa era iniziata molto prima: aveva lavorato nel suo inconscio per anni e anni, come un piccolo verme progressivamente ben nutrito. Non era mai riuscita a trattenere un amico per più di un paio di mesi; stringere nuovi rapporti era di per sé un’impresa scoraggiante, che la costringeva a veri e propri ricatti. Parlava poco e amava dire cose banali, come se allontanare le persone fosse un’altra fetta del suo amore per il sacrificio. Non pensava cose banali, ma non le piaceva parlare dei suoi pensieri. Per indole era malinconica e decisamente lunatica. Alternava fasi di distensione a periodi in cui persino lasciare la sua stanza le pesava.
Gli zii pensavano che i libri le avessero rovinato la testa, e non mancavano mai di esprimere questo giudizio durante i pranzi di Natale:
« I libri le hanno rovinato la testa. »
Leggere le piaceva quasi quanto i numeri. Entrambi erano una forma di incasellamento che la rassicurava sulla possibilità di un ordine. Perché Irene era sicura che dovesse esserci un ordine. Da qualche parte esisteva una dimensione dove ad ogni “a” corrispondeva sempre “a” e la x si trovava in tutte le equazioni. In questa dimensione ognuno aveva ciò che gli spettava e tutti potevano essere semplicemente com’erano. Nessuno ti giudicava se eri di cattivo umore e potevi persino formulare pensieri di morte senza sentirti in colpa. Laggiù, se eri una x, avresti subito trovato una y che ti corrispondeva, una y che solo potesse fare coppia con te, perché era l’unica in grado di definirti e di interpretarti. Cercava questa y in tutte le persone che incontrava, e allora non ci sarebbe stato bisogno di ricatti e neanche di dire cose che non pensava. Avrebbe potuto parlare in libertà e persino essere accettata per ciò che era, se non capita. Ma trovare la y era difficile, perché questo mondo, a differenza dell’altro, era disordinato e caotico. Per questo finiva sempre per allontanare tutti.
A quindici anni smise di mangiare, come se col diventare trasparente potesse scomparire dai pranzi di Natale. Non era un modo per sentirsi più bella o più adeguata a una certa idea di sé, quanto un primo, blando, tentativo di suicidio. Mangiare stava a vivere come non mangiare stava a morire, diceva la proporzione. I numeri le vennero in aiuto quando fu il momento di contare i grammi e i milligrammi. I suoi erano spaventati, la riempivano di attenzioni. Molta gente si scansava, ma altrettanti erano quelli che si avvicinavano a lei. Era il suo ricatto di maggior successo: la morte era una colata di miele che coinvolgeva nel suo profumo un nugolo di mosconi.
Fu vero fino a un certo punto. Fu vero fino a quando rinunciarono a tenerla a casa e la ricoverarono in un centro per disturbi alimentari. Allora tutto prese una piega meno divertente.
Di questo periodo aveva ricordi duri, intrisi di dolore. Ma era un dolore che era più una rabbia, come se d’un tratto avesse trovato qualcuno su cui sfogare la frustrazione per tutte le sue rinunce. Enumerava tra i suoi nemici psicologi e suore dalla voce mite. Poteva rievocare la vergogna di un cucchiaio premuto tra i denti e il lento gocciolare delle flebo che la tradiva. Ricordava l’essere privata di tutto, perché niente doveva distrarla dal pensiero di lei. Pensare tutto il giorno a se stessi, come se fosse una cura, anziché una malattia. Ricordava le attività di gruppo, le facce tirate, le frasi di circostanza, le raccomandazioni grondanti moralismo. Ma la cosa che le portava un riso isterico alle labbra era il ricordo di quegli stupidi manifesti. Una volta ne aveva tirato giù uno e si era data a strapparlo in striscioline sottili. Quando l’avevano trovata, erano tutti troppo spaventati per punirla.
Era un grosso manifesto raffigurante una ragazza scheletrica, presa di schiena. Le costole sporgevano dalla pelle come quelle di un dinosauro dissepolto e quasi la si poteva scambiare per un fossile. Era ferma di fronte a uno specchio, ma il riflesso non le corrispondeva. Lo spettatore avrebbe dovuto capire che vedeva se stessa come la persona del riflesso, una ragazza grassa e brufolosa con un brutto grugno.
Tutti odiavano quel manifesto, ma nessuno osava farne parola. Lo odiavano perché era semplicistico e barbaro e minimizzava il loro come un problema di immagine. Odiavano con pari intensità la ragazza scheletrica e la ragazza grassa, perché né loro né il loro riflesso si sentivano adeguatamente rappresentati. Le trasformava in caricatura, in generalizzazione, voleva parlare di tutti senza parlare di nessuno. Odiavano quel manifesto perché spesso la gente si fermava a guardarlo e, quando alzava gli occhi su di loro, si vedeva che le compativano.

Quando ne ebbe abbastanza, smise di rifiutare i cucchiai e di staccare l’ago della flebo. Adesso rispondeva alle domande degli psicologi e ai sorrisi delle suore. Accettava le loro iniezioni di felicità artificiale con tanta gratitudine quanta falsità. Nel giro di qualche settimana la lasciarono andare a casa.
I suoi erano incerti sul modo di trattarla e da allora non fu mai più lo stesso. Loro che sempre avevano cercato di responsabilizzarla adesso le rimboccavano le coperte, chiedevano sempre “come stai?” e cercavano di analizzare tutti insieme il motivo per cui era tanto infelice. Capì che la cosa non poteva continuare e cominciò ad abbozzare qualche tirato sorriso. Era capace di simulare una lievità che certe volte rasentava la follia e alle sue battute taglienti e un po’ affettate non si smetteva mai di ridere.
Finito il liceo, si iscrisse all’università. A forza di bugie si era di nuovo guadagnata la fiducia dei suoi e, quando lasciò la casa e la città paterna, questo fu salutato come un gesto di grande responsabilità e maturazione. Era una fuga, era lo stesso che fuggire dal centro, ma questo lo sapeva solo lei.
Poi venne l’occasione della borsa Erasmus, i preparativi, l’aeroporto, l’angoscia. Quello che per qualche anno aveva retto in un equilibrio distorto si incrinò di nuovo. Il tempo del sacrificio era finito, non si trattava più di ricostruire. Adesso voleva solo staccare tutti i pezzi, disporli in ordine sul pavimento e saltarci sopra coi piedi fino a farne una polverina.

Si alzò dal tavolo per sciacquare la tazza e fece scorrere l’acqua molto più del dovuto. Evitava il mio sguardo ed io evitavo di guardarla, tranne quando era voltata di schiena. Ricordai la mia prima impressione, cioè che scompariva nei vestiti, e allora mi parve più fondata che mai.
« Anch’io una volta mi sono sentito così » dissi, come se la cosa potesse in qualche modo offrirle sollievo.
Irene girò brevemente la testa e un fiotto di luce piovve sull’osso sporgente della sua mandibola. Non lo avevo mai raccontato a nessuno. Ai miei avevo accennato qualcosa, ma non più di quanto potessero capire. Si ha sempre l’impressione che nessuno possa capire tutto. E allora, a che vale parlare?
Era stato quando Rebecca mi aveva lasciato, dopo che eravamo andati a vivere insieme e volevamo sposarci e stavamo per avere un bambino. Non è vero che non ho mai voluto sposarmi e non è vero che non ho mai amato nessuno. Ma è più facile come faccio io, far finta di niente. Mi innamoravo di lei centinaia di volte al giorno, quando sorrideva, quando girava il mestolo nella pentola, quando si stringeva contro il mio fianco e sentivo due cuori battere nel suo. Le piaceva truccarsi nello specchio in cucina, così avevo sempre il bagno libero. Eravamo felici.
E poi qualcosa era andato storto, per nessuna ragione plausibile. Un aborto spontaneo. Aveva perso il nostro bambino, perso come se fosse andata al parco e lo avesse dimenticato lì, e d’un tratto io non stavo più diventando padre e neanche lei madre e a tenerci insieme c’era solo un bell’appartamento ammobiliato. Io non le davo la colpa, le dicevo che ne avremmo avuti altri, tanti altri, ma Rebecca era troppo scossa anche solo per starmi a sentire. Fra di noi si era messo qualcosa che nessuno poteva penetrare. E dentro di me sapevo che non valeva fingere, che io la accusavo, che sentivo che quel nostro figlio io non l’avrei mai lasciato al parco da solo.
Non riuscimmo ad andare avanti. Non ci riuscivamo, insieme. Pian piano lei superò la perdita e cominciò a frequentare altri uomini e ai miei occhi era ancora più colpevole, perché adesso stava lasciando me. Vendemmo l’appartamento. Tornammo ognuno sui suoi binari.
Io giurai a me stesso che mai più mi sarei spinto tanto avanti. Giurai che non dovevo mai più affezionarmi a una persona o a un’idea. Qualche settimana dopo mi imbattei in Ryanair, il resto è storia.
Irene aveva arcuato le sopracciglia e mi guardava con la bocca leggermente dischiusa.
« E così sei umano anche tu » disse, un po’ sbalordita e un po’ canzonatoria « È una storia molto bella. È un peccato che non me l’hai raccontata prima. »
« Perché avrei dovuto? »
« Perché io ti ho raccontato tante cose. E invece non riesco mai a capire chi sei tu. Se provi qualcosa. Se ragioni su quello che senti. Qualche volta ho davvero l’impressione che… non lo so, che ci sia una parte di pazzia in te. »
« Pazzia? »
« Sì, quella pazzia silenziosa che germoglia in segreto e scoppia tutta assieme. »
« Detto da te è quasi un complimento. »
« Lo era. »
« Quel giorno, quando sei andata via dall’aeroporto, che cosa è successo? »
« Ho preso una decisione. »
« Quale? »
« Questa qui. »

Quel giorno, quand’era andata via dall’aeroporto e aveva pagato il tassì e s’era fatta scaricare le valigie in mezzo al nulla, al di là del muricciolo che divideva la strada dalla spiaggia, per prima cosa aveva tolto le scarpe e i calzini e li aveva abbandonati da una parte.
Il cielo stava scurendo, perché era pomeriggio inoltrato, e la lastra piatta del mare stava perdendo tutta la sua luce. La massa d’acqua era compatta e ostile, grigia come una distesa di ferrame. Sedette sul bagnasciuga e guardò la luce scemare finché fu sera. Le luci intorno alla costa si accendevano, ma non c’era una sola favilla in tutta la spiaggia e s’era alzato un vento che la faceva rabbrividire nelle spalle. Cercava di non pensare, o almeno di non pensare cose troppo dolorose e il rollio la aiutava a districare un dolore dall’altro, a cancellarne uno con l’altro, a sommergere e a trascinare entrambi giù nel gorgo della risacca.
Scorreva il mazzo delle ipotesi, contemplandole tutte con uguale scetticismo. Tornare a casa. Farsi rimborsare il biglietto. Partire col prossimo volo. Non c’era un’ipotesi, tra quelle, che le permettesse di restare seduta, il sedere sprofondato nella sabbia, le dita lisciate di granelli. Non c’era niente che potesse imbattersi in lei in quel momento e salvarla da se stessa, dagli altri, dalle decisioni da prendere. Solo lei, per la prima volta davvero sola, senza consiglieri e consigli, senza giusto e sbagliato. Il mare non parlava, l’acqua non farfugliava altro che onde.
Il mare alla notte ha un fastidioso richiamo, qualcosa che tocca la nota nascosta e preme un pulsante, avviando una spirale che fa di te un tutt’uno con lui. Silenzioso, racconta di possibilità infinite quanto infinite sono le sue scaglie. Il messaggio, inequivocabile, è che tu gli appartieni ed egli ti appartiene e che è disposto a custodire le tue spoglie in segreto, ad avvolgerle e rivolgerle in innumeri capriole. Ti sta chiamando per essere la sua sposa ed amica, la sua sirena e confidente, ti parla di tuffi che non fanno rumore e si dimenticano in fretta sulla terraferma. Promette una morte che è quasi un affievolirsi.
Non era la prima volta che pensava alla morte, ma mai tanto seriamente l’aveva iscritta nel novero delle ipotesi. Ora, quella le luccicava incontro dall’orizzonte mobile. Si spogliò di quello che era stata una volta, di tutto quel bisogno di attenzioni, e decise che era disposta ad essere dimenticata. Decise che essere infelice, imperfetta, codarda era suo diritto quasi quanto essere lì.
E l’unico motivo per cui i suoi piedi scalzi non furono lambiti dall’onda, quella sera, fu che un uomo la vide e le puntò una torcia in faccia e disse che di sera era proibito dormire in spiaggia. Pensò che lei si preparava per un lungo sonno, e quindi quell’uomo aveva ragione.
Rifece il cammino a ritroso, recuperò le valigie e cercò una stanza in un albergo che dava sul mare. Quella notte, in una camera d’albergo, pensò a tutte le persone che si erano uccise, quelle che le venivano in mente e le piacevano di più, e quasi tutti erano scrittori, perché le piacevano i libri. E l’acqua le cantava di un lontano ruscello inglese e la stanza spoglia, il letto grosso e vuoto, le parlavano di un’altra stanza dove la gente moriva ingoiando bustine di sonnifero, e nei confusi pensieri del sogno i due luoghi si unirono e anche le storie e furono un tutt’uno.
Qualche giorno dopo, quando già pianificava la sua morte, s’era imbattuta per caso in un annuncio. Una finestra le si era aperta sotto gli occhi mentre controllava la posta da un Internet Point. E quando poi, la settimana seguente, aveva chiesto a Iris perché proprio allora, perché proprio io, Iris l’aveva guardata con occhi di madre, bisbigliando:
« Perché avevi bisogno di noi. »
« Ne avevo bisogno. Tutto qui? È tutto così… funzionale, miracoloso? »
« No, Irene, è solo tutto molto ordinato. »

Ed era così. Io ero lì per caso e lei era lì per caso, ed entrambi non eravamo un caso bensì una pianificazione misteriosa, apparecchiata da chi non si sapeva bene. Da Iris? Non era anche Iris come noi, non era un caso ma l’architetto del caso? Né lei né io sapevamo dirlo e non parlammo di questo, né allora né mai. Perché io non ero abbastanza intelligente per parlare di cose più grandi di me e Irene aveva gli occhi gonfi di sonno.
Le chiesi se potevo restare e lei disse di no. Le chiesi se le dispiaceva che la baciassi e disse sì. Le chiesi perché e non rispose. Mi accompagnò alla porta. Le dissi:
« Domani voglio portarti in un posto. »
Lei disse:
« Va bene. »
« Vengo a prenderti alle nove. »
« Va bene. »
« Buonanotte. »
« Buonanotte. »

L’indomani andai a prenderla alle nove. Telefonai a Greta e spiegai che stavo ancora male. Lei capì che mentivo, ma mi tenne il gioco. Alle nove e cinque Irene salì in macchina e allacciò la cintura di sicurezza. Era truccata appena appena e aveva i capelli legati. Indossava scarpe da ginnastica. Sembrava pronta per una spedizione in campagna. Io lo trovai appropriato e fui contento che fosse vestita così, anche se non le avevo detto dove stavamo andando.
Fece zapping tra i canali della radio per cercare una canzone triste. Quando fu soddisfatta, le spuntò un sorriso. In viaggio parlammo ancora delle cose che le piacevano quand’era piccola e io le parlai della mia famiglia. Ne fu così affascinata che mi fece promettere di fargliela conoscere.
« Vorresti davvero? »
« Ma certo. Sembrano… una piccola baraonda bucolica. »
« Baraonda bucolica. Ti chiederei di spiegarmelo, se non sapessi che sono troppo scemo. »
« Tu vuoi sempre che gli altri pensino che sei scemo. »
« Beh, però sono molto bello. »
« Certo, certo » disse, con finta aria di condiscendenza. Gli occhi le luccicavano risate.
« E sono una brava persona. Me lo dicono tutti. »
« Questo è vero. Sei una brava persona. »
« Quindi tu pensi che non potrei mai fare cose cattive? »
« No, non dico che non potresti. Ma le faresti sempre a buon fine. Potresti fare una cosa cattiva per me? »
« No, non credo che potrei. »
« Neanche se sapessi che è quello che voglio? »
« No. »
« Ah, allora non voglio più essere amica tua » e si voltò sdegnata verso il finestrino, con una simulata aria di sconcerto.
Le indicai la strada che stavamo percorrendo e chiesi se non c’era mai stata. Rispose di no. Era un peccato, dissi, perché era uno dei posti più belli che conoscevo ed ero sicuro le sarebbe piaciuto molto. E quando, qualche minuto dopo, aprì lo sportello e si lanciò sul ponte sbracciandosi dal parapetto, seppi che avevo visto giusto.
Lo avevo scoperto per caso, in una gita in macchina, tanti anni prima. Vivevo a Urbino da poco tempo ancora e lavoravo solo al mattino, così mi restavano tanti pomeriggi da riempire. Ci tornai più volte da quella prima occasione e cercai di ricreare lo struggimento che me lo avevo reso caro, ma niente aveva la forza della prima visione. Quella stessa forza che ritrovavo adesso nella visione di Irene, e che potevo carpirle dalle retine per riguardare daccapo.
E vidi coi miei occhi quello che vedevano i suoi.
Il ponte romano sul fiume Metauro, un fiumiciattolo in realtà, un ponte con le sponde alte e massicce che scavalcava il torrente per ricongiungere la strada e la piazza del paese. Dal lato sinistro il fiume scorreva bassissimo e verde ben al di sotto del livello dell’abitato, compresso tra gli argini di mattoni; dal lato destro, per uno strano scherzo della natura e dell’uomo, scendeva lungo una serie di gradini, scintillando in cascatelle che toglievano il fiato, e sfociava infine in una pozza paludosa. Alta sopra il ponte svettava la torre merlata e più dietro, dal lato delle cascatelle, stava la sagoma massiccia di un ex cartiera, con la ciminiera che faceva il solletico al cielo e il tetto rattrappito in tre triangoli isosceli. La piazza era vuota, una panchina stinta sotto l’ombra di tre tigli, e la bandiera del Comune che sventolava impacciata, irrigidita, come un politicante fallito.
In mezzo al ponte un’edicola ricordava che Torquato Tasso era stato lì e, anche se non poteva aver visto l’ex cartiera, il ponte e la torre c’erano già. E aveva scritto un’ode al Metauro che Irene mi recitò con la bocca che le tremava e di cui non capii una sola parola.
Si muoveva da un lato all’altro come se non sapesse decidere qual era lo sfondo più bello, se gli argini segnati dalle tacche verdi, che raccontavano tutte le storie e le vite e le altezze del fiume, o il lato delle cascate, che sprizzavano nel sole freddo disegnando arcobaleni e gorgogliavano come ranocchie.
Poi si fermò e rimase in mezzo al ponte, esattamente al centro, con le braccia spalancate a cercare di stabilire un suo equilibrio, di pesare i due piatti della bilancia. E fu parte integrante di quel miracolo come una volta lo ero stato io.
« Ti piace? »
« Come si chiama? »
« Fermignano. »
« Vorrei poter morire qui. »
Quello era il suo modo per dire che le piaceva.
Si appoggiò all’argine di destra, quello che dava sulle cascate, e io le circondai le spalle con un braccio. Alzò il mento e vidi che piangeva. Aveva quel mento così lungo e quegli occhi così grandi e pieni di luccicore. Mi sentivo perduto.
« È l’acqua che lo rende così bello » farfugliò.
Io inghiottii un groppo di lacrime.
« Ma se l’acqua non ci fosse potresti restare sempre con me. »
« Vorresti un mondo senza acqua? »
« Lo voglio, se tu sei con me. »
« Moriremmo di sete. »
« Ma non morresti sola. »
« Non sarò sola, se tu sarai lì con me. »

Di Chiara Pagliochini