mercoledì 1 febbraio 2012

Festa mobile, Ernest Hemingway



Ma Parigi era una città molto vecchia e noi eravamo giovani e lì non c’era niente di facile, neanche la miseria, né i soldi improvvisi, né il chiaro di luna, né la ragione e il torto né il respiro di qualcuno sdraiato al tuo fianco al chiaro di luna.

Sono sempre stata una persona di facili innamoramenti e di odi inspiegabili, repentini, istintivi. Ma giacché sono anche molto lunatica o debole di carattere o democratica, è facile che i miei odi si trasformino altrettanto inspiegabilmente e repentinamente in amori. E certamente è vero anche il contrario.
Prendiamo il signor Ernest Hemingway, ad esempio. Non posso negare di essere stata piuttosto ostile e refrattaria per un certo periodo. Quando per caso ci trovavamo nella stessa stanza lui mi lanciava certe occhiate come se volesse abbordarmi. Erano occhiate molto possessive, il modo in cui guarderesti un libro sullo scaffale o una borsa in vetrina, quello sguardo che dice, “sei mia”. E tu, come il libro e la borsa, non puoi neanche esprimere il tuo parere. Ma siccome io non ero né una borsa né un libro e potevo voltare la testa a mio piacimento, mi giravo dall’altra parte e storcevo il naso. Tuttavia sentivo sempre il suo sguardo provocante solleticarmi l’attaccatura dei capelli. Il signor Ernest aveva un suo fascino indiscutibile, scriveva molto bene, ma ti guardava con quell’occhio, quell’occhio insopportabile. Avevi l’impressione di essere solo una bambola, una cosa inerte. Avevi l’impressione che, nel profondo,  non gli importasse di te, ed era proprio così. Che se ne andasse a ubriacarsi o a pescare o in safari o a guidare l’ambulanza. Non gli avresti restituito lo sguardo né detto una parola gentile. Era un presuntuoso, un vanaglorioso, un finto duro, ecco tutto.
Poi, un giorno, qualcosa è cambiato. Non so se è partito da me o da lui, fatto sta che quella sera eravamo entrambi più malinconici del solito e siamo finiti a scambiare quattro chiacchiere per tirarci su di morale.
Lui fissava il fondo del bicchiere e parlava con una voce bassa e un po’ arrochita, che non pensavi potesse possedere mai. Mi raccontava di quand’era più giovane, della sua vita a Parigi, della gente che aveva conosciuto, del suo mestiere di scrittore, delle sue antipatie e della sua vita coniugale. Parlava di tante persone che io conoscevo solo per sentito dire e che lui, invece, aveva conosciuto tutte. Nomi che per te significavano tanto e che lui citava con quell’apparente trascuratezza, con la nonchalance di chi davvero ha vissuto con quelle persone momenti a loro modo indelebili.
Mi raccontò di Gertrude Stein, che assomigliava a una contadina friulana, non sopportava il turpiloquio, gli consigliava che libri leggere e gli diceva sempre di comprare quadri anziché vestiti. Aveva litigato con Ezra Pound perché lui le aveva rotto una sedia e Ernest le voleva molto bene, anche se spesso non era d’accordo con quello che diceva.
Mi raccontò di Ezra Pound, che aveva pochi soldi ma non temeva mai di prestarli, che credeva sempre che i suoi amici fossero artisti meravigliosi e a cui aveva imparato a tirare di box.
Mi raccontò di Ford Madox Ford, a cui puzzava l’alito e che diceva sempre bugie quand’era stanco.
Mi raccontò di quel poeta intossicato d’oppio che gli aveva tirato contro una bottiglia di latte e che, per essere un poeta, aveva un’ottima mira.
Mi raccontò dei camerieri della Closerie des Lilas, che una volta portavano i baffi e versavano sempre del whisky in più, ma poi avevano dovuto smettere e pure tagliare i baffi, e non s’erano più ripresi.
Mi raccontò della paura che non arrivasse la primavera, dei pescatori che pescavano nella Senna per portare a casa un po’ di pesce fritto. Raccontò della stanza in cui scriveva, riscaldata da un camino, in cui gettava le scorze dei mandarini. Quando aveva il blocco dello scrittore si diceva, “Ern, hai sempre scritto, e scriverai ancora, basta che cominci con una frase vera, il resto verrà da sé”. Mi raccontò di quando non aveva i soldi per mangiare e allora faceva lunghe passeggiate per distrarsi.
Mi raccontò di Hadley, la sua prima moglie, di quanto straordinaria fosse, di quanto si amassero, di quando andavano a sciare e di quando facevano l’amore stretti stretti. Mi raccontò del loro bambino, Mr Bumby, un piccolo filosofo che non piangeva mai, e del loro gatto, F. Puss, che era la bambinaia di Mr Bumby.
E poi, verso la fine, fece due nomi ancora e io sussultai e non potevo più stare per l’agitazione. Sì, aveva conosciuto Scott Fitzgerald, poteva assicurarmelo. Una volta, quando si conoscevano da poco, lo aveva accompagnato per un viaggio a Lione. Scott aveva bevuto troppo e si era convinto di avere una malattia ai polmoni. Lui si era arrabbiato molto, ma gli faceva pena, e l’aveva accudito come una brava infermiera. Diceva che il talento di Scott era come la polvere sulle ali di una farfalla: niente l’avrebbe potuto raschiare via. Niente e nessuno, nemmeno sua moglie Zelda, che pure ce la metteva tutta, e lo trascinava da una parte all’altra di Parigi in feste e festini col solo proposito di impedirgli di scrivere. Voleva averlo tutto per sé? Era invidiosa? Eppure Scott la amava così tanto, così tanto che era pronto a sostenerla nella sua pazzia e persino a diventare pazzo lui per colpa sua. Ecco, su questo punto era irremovibile, e io gli dissi che non potevo fidarmi del suo solo parere. E poi non dev’essere facile per due scrittori vivere sotto lo stesso tetto. Non è facile neanche essere amici, figuriamoci marito e moglie! Ma no, Ernest francamente non lo credeva: lui era sempre stato un amico sincero ed era tanto più sincero quanto migliori erano gli scrittori che aveva di fronte.
Alla fine mi trovai con gli occhi lucidi. Non sapevo se la sua storia fosse tutta vera, ma era passato tanto tempo e lui ormai era un uomo fatto e finito. Se anche aveva lavorato di fantasia, non c’era niente di cui poter accusarlo. I sentimenti c’erano, erano stati autentici ed erano quelli a farmi piangere, non tanto gli accadimenti in sé.
Poco prima di andarmene, misi una mano sulla sua, lo guardai negli occhi e dissi:
« Beato lei, signore, che è stato giovane a quei tempi. Sono tempi bellissimi per quelli di oggi. Ci pensa? Facevate quel che vi piaceva e lo chiamavate lavoro. Adesso noi ci tocca correre da una parte all’altra e quel che vogliamo fare lo confiniamo in un angolino, per farlo nei momenti di respiro. E pagare un affitto a Parigi… non ci voglio manco pensare. Vi chiamavano una generazione perduta ma, se fossero vissuti oggi, che termine avrebbero usato per noi? »
Ernest strinse il bicchiere, una stretta forte, di polso, e mi allungò di nuovo quella sua occhiata di possesso. Ma stavolta io ci leggevo malinconia e affetto e schiettezza. E decisi che potevo essere sua, che non c’era niente di male ad essere sua, perché mi avrebbe custodita teneramente.
« Tutte le generazioni sono perdute a modo loro. E questo significa che nessuna lo è davvero » rispose, e mi fece una carezza.

Di Chiara Pagliochini

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