László Moholy-Nagy, 7 A.M. (New Year’s Morning). |
La nebbia saliva dai campi arati come un
respiro. Nadine si figurava i semi rabbrividire gentilmente nella terra nera.
Il finestrino del treno si apriva sul paesaggio in un alone circolare, pulito
con la manica della giacchetta. Nadine guardava fuori dentro quel cerchio, aspettando
il fischio.
Il treno doveva entrare a Shrewsbury alle
dodici e trenta. Jules l’avrebbe aspettata sulla banchina. Era una bella
giornata per fare l’amore.
Pensò a come giocavano con le parole, a come
avevano sempre giocato con le parole. “Prendere una stanza” invece di “fare
l’amore”, “l’affetto che ti porto” invece di “la voglia che ho di fare l’amore
con te”… era una forma di pudore ancora, un modo per non smettere di cullare la
propria infanzia, ma aveva anche qualcosa di morboso e di disonesto, che la
faceva sentire sporca, impacciata. Usare le parole sbagliate era come
un’ammissione di colpevolezza, la prova che c’era qualcosa di cui vergognarsi
in una conclusione che avrebbe dovuto essere così naturale. E non era perché
credesse in Dio, non era perché ricordasse le imbeccate di sua madre – gli dei
e le madri sono fatti per quando sei bambina – ma perché non era una donna
ancora e non si sentiva donna e sapeva che diventarlo significava perdere
qualcosa. Non sapeva che cosa si dovesse perdere, non era qualcosa che si
potesse circoscrivere. Forse quel pudore stesso, forse il sentimento di quella
vergogna.
Venne il fischio. Erano le dodici e
venticinque. Il piccolo orologio da polso lo annunciava senza alcun timore.
Nadine si alzò e prese la valigia dalla rastrelliera, poi attese sulla porta
dello scompartimento finché il treno non si fu fermato. Salutò con un cenno del
capo una signora che rimaneva seduta. La valigia le sbatteva contro la coscia
mentre camminava fino all’uscita più vicina. Un uomo in berretto grigio le
sorrise e l’aiutò a scendere dal treno. Pensò che avrebbe voluto che fosse
Jules.
Per qualche motivo, Jules non si trovava mai
nel punto giusto. Ogni volta doveva strizzare gli occhi per cercarlo e non era
mai sicura di averlo individuato finché non erano a pochi passi di distanza. E
quasi non alzava gli occhi e non parlava finché non era sicura che fosse lui.
La vista le si era stancata per gli anni nella sartoria e il cuore anche le si
era stancato e spaurito, non nella sartoria, ma dappertutto.
Stava lì, con la valigia per terra sulla
banchina, guardandosi intorno. Lui venne da destra, camminando piano, e vide le
sue suole strisciare mentre si toglieva il cappello, un cappello di panno
verde, dalla foggia miliare. Alzò la testa.
« Ciao. »
Nadine si sporse sulla punta dei piedi e si
appoggiò contro di lui per baciarlo sulle labbra. Jules le restituì un bacio
frettoloso, come faceva sempre quando non si vedevano da tanto tempo. Ogni
volta quella distanza restava tra loro per qualche minuto, tenendoli più
lontani l’uno dall’altra di quanto non fossero stati finora. Poi un gesto, una
parola, allora l’isolamento si rompeva ed erano di nuovo insieme e ricordavano
chi fossero e che si amavano. Ma quei momenti sulla banchina, i primi momenti,
allora era sempre come se ancora non si conoscessero, l’imbarazzo di due che si
vedono per la prima volta.
« Ciao. »
« Fatto buon viaggio? »
« Sì. »
« Andiamo? »
« Sì. »
Nadine sollevò la valigia. Jules la prese per
la mano libera. Allora si guardarono negli occhi, si sorrisero e ancora
l’isolamento fu vinto.
Non si vedevano da quasi tre mesi. Settantadue
giorni, per essere precisi, appuntati in un’ordinata serie di crocette sul
calendario, un cimitero dell’attesa. Da quando era arrivata la lettera, di
giorni ne erano passati duecentoventitre. Nessuno sapeva se ce ne sarebbero
stati degli altri. Una settimana, due settimane poteva darsi, ma nessuno sapeva
cosa sarebbe accaduto dopo. Se sarebbe tornato. Se Jules sarebbe tornato.
Nadine l’avrebbe aspettato e questo era fuor di discussione – non fuori dalle
loro discussioni, che sempre e sempre, al telefono e per lettera, ritornavano
su quel punto, ma fuori discussione dal suo pensiero, che non ammetteva una
vita senza di lui. Non l’avrebbe ammessa, forse, neanche se vi si fosse trovata
costretta.
Era una romantica, una sciocchina romantica.
Questo il padre di Nadine ci teneva a ribadirlo ogni volta che si mettevano a
tavola, quando si aggiustava il tovagliolo dentro la camicia, e le mani di
Nadine si intrecciavano con forza sopra la tovaglia per non urlare.
« E se anche va tutto bene in Belgio o dove
cavolo lo mandano, che noi ci dobbiamo sorbire questo muso lungo? Ci viene
tanta gente alla sartoria e un giorno ci capita magari uno che non è così
poveraccio e ci fa un piacere se ti toglie da lì e ti si piglia. Magari arriva
uno che ti piace e te lo scordi. C’è la festa di primavera. Sono ragazzate. Non
ti pensare che lui in Olanda… Belgio dove cavolo sta, ci resti come un pero a
pensare a te. Che va bene che sei una ragazza carina, ma gli uomini sono uomini
e insomma,… »
Qui faceva una tossitina, per sottolineare le
vaste possibilità di quella reticenza, e tuffava la forchetta nella coscia di
pollo.
Sembrava, da come ne parlava il babbo, che in
Belgio Jules ci andasse a cercare moglie, invece che a combattere per la «
nazione ». La « nazione » era una parola che piaceva tanto a papà, da quando
era rimasto zoppo a un piede per averci preso una pallottola nel ’17, per caso,
per incidente, chissà perché. Ma Jules pallottole non aveva nelle mani e non le
aveva nei piedi e aveva il cuore molto buono, le spalle larghe, lui sì che
andava bene per la « nazione ».
E adesso, in quest’ultimo giorno di licenza
prima di partire, la « nazione » lo aveva gentilmente prestato a Nadine in un
giorno nebbioso nelle strade di Shrewsbury.
Il passo di Jules era diverso da come lo
ricordava, più sicuro, reso quasi marziale dall’addestramento pure in quella
passeggiata mano nella mano. Ma la sua mano era sempre la stessa, calda contro
la sua mano fredda. Era la mano di Jules che li ricomponeva, la sua mano che
disperdeva i pensieri cattivi del treno, assiepandoli ai lati delle tempie come
due tende. La sua mano chiedeva scusa per il tempo che non avevano passato
insieme, le prometteva spudoratamente che sarebbe restata, oliava quegli
ingranaggi dell’amore che devono essere puliti tutti i giorni. Tutti i giorni,
con lettere e parole di carta e parole bisbigliate dentro le cornette del
telefono, ingranaggi dell’amore smontati, sistemati sui tavoli, puliti
delicatamente con un fazzoletto, in attesa di essere rimessi insieme e oliati e
di nuovo spinti a funzionare dalla mano di Jules, che era quella che faceva
tutto il lavoro. Un amore lontano ha bisogno di più manutenzione di uno vicino,
va accudito e spolverato tutti i giorni, con profusione di piccole attenzioni
bugiarde e frasi che non si ripeterebbero mai ad alta voce. Bisogna dire più di
quel che si pensa, pensare più di quel che si dice, bisogna amare più forte e
meglio, per fare il lavoro di due anche quando si è soli. Nelle notti tristi,
un amore lontano richiede un grande sforzo di immaginazione. Un amore lontano
ha sempre il fianco vuoto. Fino a che la mano di Jules non è gettata come un
ponte tra un fianco e l’altro e non si sente più l’attrito.
L’albergo era un edificio a due piani, con
cinque camere al piano superiore, le finestre rettangolari affacciate su una
modesta piazza di pietra chiara, schermate da tende arancioni. L’esterno era
affrescato di bianco, c’era una veranda di legno, e l’insegna oscillava sulla
sua asta in un misterioso rollio. Nadine si sentì stringere più forte la mano,
guardò in su. Il sorriso di Jules era teso, un po’ balordo.
« Su, dai » disse lei.
Quando entrarono, un pendaglio di campanelle
scintillò sopra le loro teste, sparpagliando nell’atrio un suono frivolo. Una
donna vecchia e grossa, coi seni ingombranti come colline e i fianchi larghi di
tanti figli, prese il registro da sotto il bancone. Jules bisbigliò il suo
nome. La signora gli chiese di ripeterlo. Lo ripeté, appena più distinto, e
appose una firma illeggibile in una casella bianca. Nadine non staccava gli
occhi dalla donna, chiedendosi se avrebbe ricambiato il suo sguardo. Quando lo
fece, fu come avere uno scandaglio giù nella pancia. Quella donna, un giorno,
si era sentita come si sentiva lei, e non un giorno solo, ma tanti. Sapeva cosa
c’era da perdere, cosa andava smarrito, cosa si guadagnava in quel cambio tanto
straordinario. In quello sguardo a Nadine pareva di vedere tutto, il ricordo,
la paura, la solidarietà, il rimpianto, la pietà, la condanna, tutta una storia
di donna che non avrebbe mai conosciuto, ma che le veniva tacitamente offerta e
raccontata. Si sentiva meno sola, più sola.
Una chiave poggiò sul palmo aperto di Jules,
che la guardò.
« Andiamo? » disse.
Dietro il bancone si avvitava una scalinata di
legno. Il primo gradino scricchiolava. Nadine si sentiva sulla schiena gli
occhi della donna. Sentiva che la spingeva avanti e intanto la riportava
indietro.
Quando furono soli, nella camera, Nadine si
accoccolò in un angolo accanto alla finestra. Con due dita scostò un lembo
della tenda e guardò giù, verso la piazza. Un uomo dietro un carretto vendeva
mele caramellate, appollaiate su bastoncini di legno come cocorite.
Un’infermiera con una gonna blu camminava tenendo per mano una bambina. Un cane
pisciava contro l’angolo di una casa.
Quando si voltò, Jules si toglieva la cintura
dai pantaloni color cachi, di un tessuto un po’ liso. Lo guardò negli occhi,
quasi lucidi nella luce lattiginosa che veniva dalla finestra. Jules ricambiò
lo sguardo, imbarazzato, e smise di trafficare con la cintura. Si avvicinò
lentamente e tenne sollevata la tenda per lei.
« Tuo padre sa che sei qui? » chiese, come dal
nulla.
« Era fuori per certe commissioni. »
« E i soldi per il biglietto? »
« Sono miei. »
« A che ora devi ripartire? »
« Alle tre. »
Jules si cercò al polso l’orologio. Non ne
aveva.
« È l’una e dieci » disse Nadine.
« Non abbiamo tanto tempo. »
« Abbastanza. »
Jules lasciò cadere la tendina. « Devi usare il
bagno? »
« Vai prima tu. »
La carta da parati, con un motivo di roselline,
era scollata da una parte, dietro il comodino accanto al letto, e si arricciava
sporgendo verso l’esterno. Il letto era grande, con una trapunta gialla di
stoffa ruvida, sormontato da un crocefisso nero, sottile ma minaccioso. Il
pavimento era di assi di legno. In un punto la testa di un chiodo stava
leggermente sollevata. Dietro la porta del bagno, Jules tirò l’acqua. Quando
uscì non si guardarono negli occhi.
Nello specchio del bagno, dietro il lavabo di
ceramica, Nadine cercò nel proprio viso un indizio. Doveva esserci un segno,
anche uno piccolo, che annunciasse la portata del cambiamento che la aspettava.
Non era un segno fisico, quanto un segno spirituale che cercava, una certa
espressione negli occhi, il modo in cui si incurvava il suo sorriso. Non è
questa l’espressione, diceva, che una donna ha prima di fare l’amore. Si guardò
e non si piacque e pensò che non sarebbe piaciuta. Ma forse non era adesso che
doveva cercare, forse non era adesso che qualcosa avrebbe dovuto manifestarsi.
Forse più tardi, dopo, guardandosi allo specchio non si sarebbe riconosciuta.
Fece scorrere l’acqua, si sciacquò il viso dalla foschia del viaggio e strofinò
l’asciugamano contro le guance, che subito si arrossarono. Al riflesso nello
specchio mormorò un silenzioso arrivederci.
Jules era nel letto con le coperte fino al
mento e fissava il soffitto. A Nadine si strinse il cuore a vederlo così. Stare
nel letto a quell’ora le parve buffo, non riusciva a spiegarlo altrimenti. La
camera che non conosceva, il letto così grande e quella piazza fuori in cui non
c’era niente che le corrispondesse… solo Jules, il suo Jules, così rannicchiato
zitto sotto le coperte. Si sentiva felice e vagamente ammalata.
Camminò verso il letto e toccò la trapunta con
una mano, tastandone la consistenza come faceva al negozio. Tutto fu un po’ più
pauroso, più vero. Si sedette sul bordo del letto, voltata verso la parete, e
in fretta sbottonò la giacchetta, la gonna. Fece una pallina coi collant. Si
chiese se Jules la guardava e, se la guardava, che cosa pensava di lei che
faceva una pallina coi collant e lasciava i suoi vestiti così, tutti
spiegazzati per terra, accanto al letto. Ma doveva capire, Jules, che non
poteva muoversi, non poteva muoversi perché avrebbe attirato la sua attenzione,
perché così facendo si sarebbe esposta di più al suo sguardo, che insieme desiderava
e che scansava, che sentiva come un complimento e come offesa. E un secondo
stare con lui in quella stanza le sembrava bellissimo, il secondo dopo si
sentiva morire. Si lisciò la canottiera e la sottoveste e, in un’unica mossa
fluida, senza guardarlo, si infilò sotto la coperta. Con gli occhi chiusi, per
un istante, sentì come se fosse suo padre, quando le parlava a tavola col
bavaglino al collo – gli uomini sono uomini. Lo sentì che si muoveva al suo
fianco, dall’altra parte del letto. Si chiese che movimenti faceva.
Più tardi, carezzandole la schiena, lui disse
che non era importante. Nadine alzò la testa dai suoi singhiozzi e pianse più
forte contro la sua spalla, affondandoci dentro col naso. Le sue gambe, i suoi
seni, il suo corpo chiedeva scusa a contatto col corpo di lui. Jules ripeteva
che non era importante, le carezzava dolcemente la testa, oliava e risistemava
per lei gli ingranaggi del loro amore.
Non era importante, certo, che non avessero
saputo fare l’amore. Chissà quanti altri avevano dormito in quella camera, tra
quelle lenzuola, e non avevano saputo fare l’amore, quanti altri a cui il tempo
aveva insegnato, riflessi che rispondevano giusto all’interrogatorio dello
specchio. Ma Jules e Nadine - quella era l’ultima volta che si vedevano.
Di Chiara Pagliochini