mercoledì 27 giugno 2012

Nonna portava le maniche lunghe


La mia nonna porta sempre le maniche lunghe. Anche quando è caldo e tutti fanno acqua dalla fronte, lei tiene su quel golfino nero bordato di merletto sul davanti. La mia nonna il caldo non lo soffre. Il freddo, neanche. E non ha mai fame e non si lamenta e non è come tutte le altre nonne, a cui fanno cilecca le ginocchia. La mia nonna, anzi, lei mi porta in braccio quando svoltiamo l’angolo e mamma non ci vede più dalla finestra. Dice sempre che io sono nata stanca. Lei stanca non lo è mai, un tran-tran continuo, un ciuf-ciuf di vaporetto, ora è nell’orto, ora in cantina, adesso in soffitta, adesso in cucina. È dappertutto, in tutti i posti insieme, anche se fa finta che non è così. E se io le dico, ‘Nonna, ma ti ho vista adesso adesso giù in cantina’, lei risponde, ‘Non è possibile, sono sempre stata qui.’ È possibile, invece, lei è in tutti i posti, fa tutte le cose lei, ma a me non vuole insegnarmi come si fa.
La mia nonna ha i capelli grigi tutti tirati sulla fronte e premuti fitti fitti in una treccia. La treccia è appuntata sul dietro della testa e sembra il bordo di pastafrolla di una crostata. Gli occhi sono piccoli, azzurrini e aguzzi. Indovinano sempre tutto. Le gambe, le braccia, la pancia è tutta asciutta, come se Furia, il nostro cane, le avesse spolpato via gli ossicini.
Certe volte andiamo alla fontana e allora mi carica sulla carriola e spinge. Non sbuffa mai e non si rimbocca le maniche. Neanche quando sbatte le lenzuola sul gradino di pietra della vasca, neanche allora, no, non le rimbocca mai. I polsini si bagnano tutti, ma lei non ci fa caso. E quando si porta una mano alla fronte per tergere il sudore, neanche allora, le maniche son tutte tirate giù.
E a questa cosa non ci avrei mai fatto caso se non fosse che oggi nonna è morta. L’hanno trovata nel letto, su un fianco, che dormiva un sonno un po’ più lungo. A me non volevano farla vedere. Ma poi papà ha detto, ‘Non è così piccola, può capire’, e allora mi hanno lasciata entrare dentro la camera. Sul baule ai piedi del letto c’era la bambola che c’è sempre, una bambola di porcellana grossa, castana, tutta vestita, che ti fissa cogli occhi di vetro che non capisci mai dove guardino. Sopra, appeso al muro, c’è il quadretto con Santa Rita a mani giunte. Dal quadretto penzola un rosario con le perline celesti. La nonna era stesa sulla coperta. Era pettinata bene e non aveva più quel golfino. Le avevano messo una giacca nera nera, con dei bottoncini dorati. Le mani non gliele avevano ancora composte (perché mi hanno detto che i morti si compongono, anche se non ho capito come si fa; mi hanno detto anche – è stata Anna – che si de-compongono, ma proprio non ci ho capito niente. Sembrano tutte cose per le costruzioni e non mi fanno senso).
Le mani e le braccia, insomma, stavano ancora lungo i fianchi, tutte rigidine e fredde, riscaldate dalle maniche della giacca. Mi sono avvicinata alla sponda del letto, ho preso una mano e ci ho messo sopra un bacio. Il bacio non è restato lì sopra, ma è entrato dentro e io so che nonna l’ha sentito. Papà dice che è questo che succede quando siamo vecchi e siamo diventati nonni. Io so che tutti diventano vecchi, ma non tutti diventano nonni e quindi, se non si diventa nonni, che succede, si muore a metà? Forse si muore più scontenti, non lo so. La nonna aveva quasi un sorriso. Era carina.
Ma quando il bacio è sparito e ho riappoggiato la mano sul copriletto, la manica si è scostata un pochino e sull’avambraccio bianco bianco, sodo, striato di viola, ho letto una sfilza di numeri che non li avevo visti mai. Era un numero lungo, con le migliaia e le decine di migliaia e a scuola non li abbiamo ancora fatti, così non lo sapevo leggere. Era un numero così grosso che ho pensato, ‘La nonna deve essere qualcosa di enorme!’
Quando papà ha visto cosa facevo, mi ha appoggiato la mano sulla spalla e ha detto, ‘Metti giù’, come se avessi rubato qualcosa. E anche a me sembrava di aver rubato qualcosa, per cui ho messo giù subito. Era una cosa che non si doveva toccare, eppure mi sarebbe piaciuto passare un dito su quei numerini in rilievo per capire com’erano stampati. Mamma dice sempre che mi ammazza se da grande mi faccio un tatuaggio, ma la nonna un tatuaggio ce lo aveva, e nessuno le ha mai detto niente.
Papà ha detto, ‘Usciamo’, e mi ha portato di sotto in giardino. Ci siamo seduti sul muretto, tutti e due con le gambe penzoloni. Allora ho pianto, perché era una giornata di sole tanto bella e non si poteva andare alla fontana dentro la carriola. Non ci si sarebbe andati più.
Papà mi ha detto di non piangere, perché sono cose che succedono. ‘Anzi, puoi piangere. Ma non essere arrabbiata. Sono cose che succedono ed è meglio che succedono così che in altri modi.’
‘Così come?’
‘Così che neanche te ne accorgi.’
‘Però non puoi salutare nessuno.’
‘Non fa niente. Lo sappiamo che ci vogliamo bene.’
‘Perché la nonna ha un tatuaggio?’
‘Non è tatuaggio.’
‘E cos’è?’
‘Un marchio.’
‘Perché la nonna ha un marchio?’
‘Gliel’hanno fatto quand’era giovane e stava a Trieste. Durante la guerra, quando c’erano i tedeschi.’
‘Me lo racconti?’
‘Non c’è niente da raccontare. La nonna era andata sulle montagne a fare la guerra per non farsi prendere dai tedeschi. Ma i tedeschi l’hanno presa lo stesso, insieme a Ginetto, che era suo fratello. Mio zio. Ginetto era sciancato a una gamba e non poteva camminare, così i tedeschi non hanno perso tempo e l’hanno ucciso subito, sotto gli occhi della nonna. La nonna invece l’hanno messa su una camionetta e poi su un treno e poi via, su, su, lontano, fino in Polonia. È lì che le hanno fatto il marchio.’
‘E cosa c’è andata a fare in Polonia?’
‘Stava in un campo di concentramento. Auschwitz, un posto brutto. Erano tante persone, tutte magre magre come lei e le facevano lavorare e lavorare. E quelli che non potevano lavorare li uccidevano. Loro, però, non morivano come la nonna, ché si accorgevano molto bene che dovevano morire.’
‘Come morivano?’
‘Questo un’altra volta. Sennò la storia la sciupiamo tutta.’
Io volevo sapere di più, ma papà mi ha messo una mano sotto il mento e mi ha dato un bacino in fronte. Poi è andato ad aiutare mamma, ché dovevano comporre la nonna. Così adesso io sto seduta a cavalcioni del muretto e mi domando perché la nonna non mi ha raccontato mai dei numerini. Sarebbe stata una storia tanto bella che la sarei stata a sentire da cima a fondo. Ma forse alla nonna non piaceva raccontarla ed era per questo che portava sempre le maniche lunghe. Io invece questa storia voglio raccontarla, perché mi piace tanto. Ed era un po’ matta la nonna a nascondere un tatuaggio così, ché non c’è vergogna a essere andati a lavorare in Polonia. Ma perché facevano i tatuaggi, poi. Non lo so, ma se io avessi un tatuaggio così, lo vorrei sulla fronte e non lo coprirei coi capelli e racconterei ai miei figli e ai figli dei miei figli quando e dove me l’hanno fatto. E sarei vecchia e sarei nonna e morirei che neanche me ne accorgo.
Mia nonna, però, portava sempre le maniche lunghe.



Un grazie all’ignaro passeggero triestino da cui ho raccattato questa storia.

Di Chiara Pagliochini

sabato 9 giugno 2012

Amor mio diacronico


Nel mio paesello vive una donna che ha ormai settant’anni e i capelli tutti grigi. Il viso è sottile, scavato, grinzoso, le gambe secche come ramoscelli, ma agili ancora e solide. Si chiama Anna. Fin da quando la conosco io, è sempre stata la donna più veloce del mondo e l’unico motivo per cui non ha mai vinto una competizione è perché non ha partecipato a nessuna. Quelle gambe gliele ha fatte svelte una giovinezza lontana, di faccende e fatiche e vergate quando tornava a casa tardi. Sono sgusciate sempre di sotto alla gonna con la fretta di chi ha troppo da fare anche solo per pensare di far altro. Pei colli e le greppie, pei campi, pei fossati, tutti i terreni hanno provato e scavalcato e sconfitto. Sono gambe di veterano.
In qualche punto della sua vita – in quale non lo so, perché non ero ancora nata – s’è maritata con un uomo più vecchio. È vivo anche lui, si chiama Vittorio. Che aspetto avessero quando si sposarono non me lo so figurare, io che li ho sempre conosciuti così. I vecchi sono eterni; se li conosci già vecchi, sembra che non invecchino un giorno di più. Questo per dire che la mia storia è tutta una lacuna e il lettore mi perdonerà se vengo subito al dunque. Un giorno – non so quando, non so come, non so perché – Vittorio si tirò un colpo di fucile nella gamba. Zoppica da allora, zoppica peggio ogni giorno che passa e oggi l’ho visto arrancare sul bastone con una spossatezza che non gli avevo visto mai. Ho sentito una grande pietà. Ho pensato, « non ce la farà ». È così, ne ho visti morire tanti da quando sono al mondo: al mio paesello ci abitano soltanto vecchi. Sei abituato a vederteli attorno fin da bambino e pensi che staranno lì per sempre, invece ti muoiono intorno a ciocche. Prima una casa si svuota, poi l’altra, poi l’altra, fino a che non ti circondano che case vuote e tocchi di bastone e il cicaleccio delle vedove giù nella piazzetta. Di vedove ce ne sono tante al mio paese e fanno la maglia e spettegolano sedute sul dondolo o sulle panche. Anche Anna sarà una vedova: l’ho visto oggi in Vittorio che arrancava. Ma ho visto anche altro. Ho visto tanto altro, e forse è solo questo che conta.
Immaginate di essere la donna più veloce del mondo. Coprite una distanza di un chilometro in due minuti. In cinque, siete andati e tornati dall’orto cinque volte. Trasportate secchi e sacchi, carriole, pale, picconi, fasci d’erba, ortaggi, galline. Siete precisi, puntuali, lesti e, soprattutto, veloci.
Immaginate, adesso, di essere sposati all’uomo più lento del mondo. Cinque minuti li ha impiegati per attraversare la piazza, da casa all’orto ce ne vogliono almeno dieci. Se gli crollasse il tetto in testa, non riuscirebbe mai a mettersi al sicuro. Un carico troppo pesante non lo può portare. Se gli urlano di correre per un’emergenza, non riuscirà comunque a camminare più veloce. È macilento, il suo passo è doloroso e sempre sbuffa e fiotta e si asciuga la fronte col fazzoletto.
Voi, che siete la donna più veloce del mondo. Lui, che è l’uomo più lento.
Immaginate come dev’essere vivere fianco a fianco, vivere così mal sincronizzati, così impastoiati. Lei che chiama e lui che non può venire. Lei che ordina e lui che non riesce a obbedire. Immaginate quale pazienza dev’essere quest’aspettarsi tutti i giorni, tutti i momenti, questo limitarsi per l’altro, l’un l’altro, questo vivere a velocità diverse. Immaginate l’amore che ci vuole.
È così. Amore è sacrificio per sincronizzarsi coi tempi e coi bisogni dell’altro. Non un sacrificio astratto, non tutte parole e niente fatti, ma un sacrificio di quelli che fanno perdere la pazienza e montare il veleno e ti viene da urlare e strepitare e scrollare perché l’altro non è abbastanza veloce, cavolo, non abbastanza veloce, e ti limita, imprigiona le tue possibilità. Se sei più avanti, lo devi aspettare. Se sei più indietro, devi umiliarti e rantolare che ti aspetti. L’amore è compromesso di velocità diverse. Quante volte si viene nello stesso momento? Ma quante, quante no? Quante volte amiamo e non siamo riamati, poi l’altro ci ama e noi non lo amiamo più? Quanti orologi sincronizzati male? Quante esigenze discordi?
Anna e Vittorio m’hanno insegnato questo, e me lo insegneranno anche quando non ci saranno più. Che quando si ama si è disposti a tutto, a prendersi tutti i disturbi, a soffrire tutti i fastidi, a rallentare il passo per stare al passo dell’altro e anche a spingere con più forza su quel bastone perché si vuole arrivare prima.
Vedendo oggi Vittorio passare così stanco – ogni tanto si fermava – e Anna che sulla soglia già lo chiamava, ho pensato che sarebbe stato bello raccontare questa storia. Ho pensato che presto Vittorio non ce la farà più, troppi anni a sforzare quella gamba maledetta, e che Anna camminerà da sola, alla sua velocità, coi suoi tempi, fino a che il tempo vorrà. Ma non sono sicura che non si volterà per vedere perché lui non viene. Non sono sicura che sarà felice di poter tornare a camminare veloce.

 
Chiara Pagliochini

mercoledì 6 giugno 2012

???


Stamattina mi sono reso conto che, se invece di traversar la strada sulle strisce, io la tagliassi di traverso alla rinfusa, allora farei come quel corvo o quel merlo le cui penne scoppiarono nello specchietto retrovisore. Mi immagino di camminare sul marciapiede, bello tranquillo, dritto verso casa, e d’un tratto mi prende lo sghiribizzo e mi volto e precipito in mezzo alla carreggiata. Una macchina inchioda, due macchine inchiodano, la terza macchina alza il muso e non fa in tempo ad arrestarsi, e io sono come quel corvo o quel merlo, con la differenza che non ho penne da scoppiare e al limite rantolo un tantino, giusto per far scena, coi tessuti che mi cascano di dosso in poltiglia. Un occhio pende dal bulbo cavo, così, un po’ per scherzo, ancora attaccato a un nervo geloso. La gamba è rovesciata in una posa buffa da marionetta. L’automobilista spalanca lo sportello, mi guarda e va ripetendo con le dita fra i capelli:
« Non ho potuto fare niente per salvarlo. »
Ecco cosa pensavo stamattina, quando tornavo con le buste della spesa.
Quando sono rientrato, Greta mi ha detto dove dovevo poggiarle e io sono stato contento, perché non avrei saputo scegliere un posto migliore. Ha detto « Il pranzo è pronto fra cinque minuti » e sono stato ancora più contento, contento che mi venisse detto e di non doverlo chiedere, contento che lei sapesse a che ora era il pranzo e che si doveva pranzare, perché Greta sa sempre tutto, mentre io non so più niente e, se fosse per me, in questa casa non mangeremmo e nemmeno faremmo la spesa. Greta sa le cose che si devono fare e quelle che non vanno fatte e io mi fido di lei, perché fa le veci anche di me. Greta fa tutto lei, il marito e la moglie, e di questo le sono molto riconoscente.
Mentre aspettavo che il pranzo fosse pronto, mi sono seduto sul divano e ho impugnato il telecomando, che non è l’unica arma che ho per farmi del male, però una delle più efficaci. Ho messo sul telegiornale e ho contato le vittime del sabato sera, quanti anni avevano, ho fatto le somme, le sottrazioni, ho moltiplicato per i feriti e i contusi e, alla fine del telegiornale, il bilancio era di trentatre decessi o forse trecentotrentatre, tra gli assassinati, i morti per caso e le vittime del genocidio in Uganda. Mi dispiaceva per tutti quanti loro, mi dispiaceva sinceramente, e in particolare per l’inondazione a Sumatra, coi corpi che dovevano ancora ripescare. Volevo piangere un poco sul divano, ritto contro la fodera a quadretti, ma Ryanair è venuto e mi si è strusciato alle caviglie, così ho perso tempo a fargli i grattini. Dalla cucina, Greta ha detto che erano pronti gli spaghetti. E, se lei diceva che erano pronti, erano pronti davvero.
Dopo pranzo ho ritrovato il filo dei miei pensieri, l’ho sbrogliato dagli spaghetti e mi sono messo ad inseguirlo per tutta casa. Greta mi guardava e non diceva niente. Ho scoperchiato la scatola dove tengo la sua roba, la cartelletta con l’elastico, e ho riletto un mezzo verso. Frantumate sulla bocca, le parole litigavano l’una con l’altra e ne venivano fuori bocconi di sillabe che non avevano senso alcuno, ma a cui mi sforzavo di trovare un senso. Mi sono seduto alla scrivania, ho provato di nuovo a cominciare e ho scritto la prima riga, che è già qualcosa. Ho scritto la seconda, la terza e poi giù via la quarta e la quinta, che dopo le prime tre venivano quasi da sole. Allora ho pensato che magari stavolta c’ero riuscito e ho continuato per tutto il pomeriggio.
Quando sono rientrato in salotto, Greta era seduta sul divano e Ryanair acciambellato in grembo. Mi sono seduto anch’io e ho preso possesso del telecomando. Greta mi ha fermato il polso con la mano e la sua stretta mi ha riportato quaggiù, proprio accanto a lei. Allora l’ho guardata negli occhi cercando di essere il più sincero possibile.
« Stai di nuovo pensando a lei » ha detto, e la frase le è tremata sulle labbra prima di staccarsi.
« No » ho risposto, però mi sentivo uno schifo.
« Stai di nuovo pensando a lei » ha insistito.
Certo che ci stavo pensando. Certo che ci penso. Se non ci pensassi, non penserei affatto, perché lei è la forma attraverso la quale penso le cose e ogni cosa pensata è pensata in rapporto a lei. È la pietra di paragone e la sorgente, il tramite e il punto a cui tutto tende, l’inizio, il mezzo, la fine, il motivo del viaggio. Se queste parole le scrivo, le scrivo per lei e insieme a lei, pensando a come vorrebbe che fossero scritte e a dove sbaglio. Non sono sicuro che le parole aiutino, non so se siano pillole o picconi e comunque non mi interessa, ora che ho cominciato. Il sollievo mi viene dallo sbrogliare i pensieri, dal disporli in linea retta verso una direzione precisa, che poi è lei. Queste parole vengono da lei e a lei ritornano, e che cosa sono io… non ho mai saputo che cosa sono e meno che mai lo so adesso. Forse sono solo uno strumento meccanico, uno strumento utile ma umile, o forse nemmeno questo è necessario. Ma che importa, che importa, che importa. Niente più importa, la vita come la morte, niente è più sacro, perché tutto faceva sacro lei.
 
 
Chiara Pagliochini