sabato 28 gennaio 2012

L'agenzia dei suicidi. Cap.20

Henri de Toulouse-Lautrec

Dopo che le ebbi restituito la tazza vuota, Greta mi fissò ancora, brevemente, e ripeté se non preferivo restare.
« Sto meglio, davvero. E poi tu devi andare a lavorare. »
« Anche tu dovresti. »
« Certo. No, in realtà pensavo di non venire. »
« Vuoi che ci pensi io per te? »
« Lo faresti? »
« Ma certo, dico a Carlo che mi hai chiamato, che non stavi bene. »
« Ti ringrazio, davvero. Grazie di tutto. »
« Sei sicuro di andare? »
« Devo. Che ore sono? »
« Le otto e quaranta. »
« Ecco, Ryanair non avrà più niente da mangiare. »
Greta sorrise, un sorriso di denti che si affrettò a coprire con la mano. Era un gesto istintivo, un riflesso, che pure mi infastidì.
« Hai dei bei denti » dissi, e lo pensavo.
« Ma se sono orribili. »
« Hai dei denti, sei una bella persona e meriti di ridere sempre. »
Greta rise, si schermì di nuovo, abbassò la mano e di nuovo sorrise. Si alzò dal divano, recuperò le tazze che aveva poggiate sul pavimento e le depose nel lavello là in cucina. Mi alzai a mia volta, sottraendomi all’abbraccio appiccicoso del plaid, e mi spolverai la stoffa dei pantaloni. L’orlo era macchiato di giallo e diversi schizzi sulla coscia e sulle maniche della camicia mi ricordarono il pietoso spettacolo che ero.
Sapevo quale fosse il mio dovere. Sarei dovuto correre da Irene e chiedere perdono, chiedere perdono per quello che avevo detto, per quello che ero e per il modo in cui continuavo a mancarle di rispetto. Avrei dovuto fare tutto questo, ora che un barlume di comprensione mi aveva raggiunto, improvviso, ora che avevo visto un po’ di più. Era il mio dovere, e tuttavia ero stanco di dovere. Avevo bisogno di un po’ di tempo per me, bisogno di riposo, di acquietare la mente su un cuscino morbido, dopo che m’ero messo così d’impegno per stordirla.
Salutai Greta con due baci sulle guance e la guardai rimpicciolire nella fessura della porta, un sorriso sempre più piccolo e fievole. L’avevo mai guardata abbastanza? Avevo mai capito che in ogni donna c’è una piccola Irene pronta a mille impercettibili suicidi, per il solo fatto che non la si guarda abbastanza? Ma no, neanche allora avevo capito qualcosa, e pensavo ancora che Irene fosse solo Irene e Greta fosse solo Greta, e che le cose che imparavo di Irene non valessero anche per tutti gli altri. Non avevo capito che tra le persone non c’è confine e che se anche sono diverse negli occhi e nei modi e nei desideri sono sempre uguali nelle loro tristezze. E che noi siamo capaci di guarirle. Siamo capaci, certo, solo che non lo facciamo. Non lo facciamo perché non ci piacciono o perché abbiamo altro da fare, non lo facciamo perché pensiamo di non essere in grado, di non essere abbastanza, o perché pensiamo che qualcuno voglia farlo al posto nostro. Ma la verità è che potevamo farlo noi, eppure ci siamo tirati indietro.
Non avevo la macchina, quindi camminai. Greta si era offerta di riaccompagnarmi, ma non avevo accettato. Non volevo che facesse tardi al lavoro per colpa mia. No, non era vero. La verità è che volevo star solo.
Era una bella giornata. Greta abitava in una villetta poco fuori dal centro, una via tranquilla, alberata. E anche se tutte le foglie erano cadute e facevano tappeto sotto le suole delle mie scarpe, nondimeno era una giornata incantevole, l’aria pulita. Era come se non avessi più respirato da molto tempo. Inspirai a pieni polmoni l’odore macero delle foglie e pensai che dopotutto non era così brutto. Forse non c’era bisogno di morire per stare con Irene. Forse era Irene che poteva vivere per stare con me. Ma non volevo pensarci, non volevo pensarci. Pensavo solo alle suole che aderivano al terreno con un click clack umido, ciancicato. Mi concentrai sui passi e sul cielo sgombro e sul fatto che tornavo a casa e rivedevo Ryanair.
Ma Ryanair non fu contento di vedermi. Aveva grattato con le unghie la parte inferiore della porta. Non l’aveva più fatto, da quand’era piccino. Forse perché non l’avevo mai lasciato solo così a lungo. Miagolò, un miagolio lungo, irato, e non venne a strusciarsi contro le mie ginocchia. Io mi chinai per carezzarlo tra le orecchie e solo allora si arrese docile alle mie scuse. Gli versai del latte nella ciotola, mentre tagliavo una fetta di prosciutto a striscioline e gliele adagiavo morbide, una accanto all’altra, in un piatto di plastica. Povero Ryanair, quanta fame c’era nei suoi occhi gialli.
Andai in bagno, feci una doccia e infilai un maglione pulito, di lana, mezzo sformato. Mi stesi sul letto col proposito di dormire giusto un po’. E difatti dormii giusto un poco, perché poco dopo suonarono il citofono. Guardai la sveglia sul comodino, non era neanche mezzogiorno. Ryanair infilò la testa dietro la porta e ribadì con un suono di gola che dovevo alzarmi di lì.
Il citofono suonava come suonavano le donne, non un suono lungo, deciso, ma un suono breve e tremolante, ripetuto per due o tre volte a distanza di trenta secondi. Era l’indecisione a tradirle, ogni volta. Contemplai tutte le ipotesi e le mandai tutte in frantumi non appena la voce si produsse in un colpo di tosse introduttivo, poi disse:
« Ryan, sono Cassandra. Posso salire? »
Contemplai di nuovo un rapido inventario di ipotesi. Morte improvvisa, accidentale, causata da un cortocircuito del citofono all’atto di alzare la cornetta. Casa vuota, Ryan al lavoro, solo il gatto rimasto a percorrere le desolate stanze dell’appartamento. Fare l’offeso, per qualche imprecisato motivo. Simulare una malattia rara e contagiosa.
« Certo, vieni su. »
Abitavo al quarto piano e quando Cassandra raggiunse il pianerottolo, arrancando, perché l’ascensore non funzionava, non mi sembrò così felice di essere venuta. E, visto che io non ero felice di vederla, almeno i nostri umori si abbinavano.
« Entra pure. »
Cassandra entrò senza pensarci due volte. Pulì le scarpe, un paio di scarpe col tacco basso, grigie, sul tappetino all’ingresso, e cercò un gancio per appendere il cappotto. Capii che aveva intenzione di restare.
« Dai a me » dissi, togliendoglielo dalle mani. Lo appoggiai sul divano, stropicciato.
« Ho pensato che ti devo delle scuse » esordì, guardandomi negli occhi e senza cerimonie. Era ancora in piedi tra il corridoio d’ingresso e il salotto e io le facevo cenno di accomodarsi.
« Per cosa? »
« Per averti detto quelle cose, ieri sera. »
« Quali cose? »
« Di Irene. »
Era solo ieri sera? Mi sembrava trascorso così tanto tempo, tanti sentimenti fa. Avevo già dimenticato la parte di Cassandra in tutto questo. Non c’era proprio niente di cui dovesse scusarsi.
« Ho pensato che per scusarmi potevo invitarti a pranzo » aggiunse, mentre io tacevo.
Rimediare a un delitto con un altro delitto, era questo il candore di Cassandra. Le invidiai l’incapacità che aveva di sentirsi sgradita. Potevo sopportarlo? Ero così coraggioso? Qualche ora intera in compagnia di Cassandra. Non era più di quanto potessi soffrire?
« A essere sinceri non ho tanta fame. Sono stato male di stomaco » e non era neanche una grossa bugia.
« Ah. »
Sembrava sinceramente dispiaciuta. Una ruga le increspava la fronte, le sopracciglia erano crollate e lo sguardo si era abbassato, appuntandosi su una mattonella che doveva essere particolarmente simpatica. Era davvero incapace di nascondere qualsiasi emozione. Non farti commuovere, mi dissi. Non farti commuovere o dovrai sorbirtela per un’altra ora almeno. Sii ragionevole, non farti prendere la mano dall’umanità. Inventa una scusa migliore.
« Non ho voglia di uscire. Però posso prepararti qualcosa da mangiare, se ti va. »
Dieci punti sul tabellone della cortesia. Venticinque su quello dell’imbecillità.
Cassandra si illuminò tutta, scacciò le nubi che si erano addensate sugli zigomi e mi fissò ad occhi spalancati. Ero stato persino più gentile di quanto si aspettasse.
« Che mi prepari di buono? »
« Eh, fammi vedere che c’è in frigo. »
Non c’era niente, quasi niente, in frigo. Una mozzarella, residui di affettato, un rimasuglio di insalata che aveva visto giorni migliori, due uova.
« Che mi dici di un’insalatona? »
« Che la adoro! »
Fossero anche stati croccantini per gatti, sono certo che li avrebbe adorati lo stesso.

La guardai mangiare la sua insalata a grosse forchettate, le guance piene e i denti che sgranocchiavano senza far rumore. Aveva una bella mascella, una bella linea. Mangiava la sua insalata con lo stesso entusiasmo infantile con cui, poco dopo, doveva avventarsi sulla bustina del preservativo, cercando di scartarlo senza far rumore, e fallendo miseramente.
Nella luce del pomeriggio che filtrava dalle tapparelle semichiuse sembrava davvero una bambina inesperta, ginocchioni sulla fodera del letto, impegnata in una difficile operazione chirurgica. Era commovente e ridicola a un tempo.
« Dai a me. »
« No, voglio farlo io. »
Premeva e spremeva e sventolava il suo giocattolino, un po’ ridendo e un po’ sbuffando, con ancora addosso il reggiseno. Era così goffa da essere eccitante. Questa immagine dovevo conservare di lei, aggrappata coi denti alla bustina del preservativo, i denti piccoli e acuminati e bianchi nel buio. Era una donna meravigliosa. A essere onesti, lo è ancora.
L’ho rivista il mese scorso, ancora bella come ricordo. È sposata a un chirurgo plastico e, sebbene sembri ingrigita e fiacca e la pelle adesso le faccia le grinze sotto il mento, una gravidanza e un ciclo di chemio non l’hanno sfibrata al punto da renderla poco attraente. Ha conservato tutta la sua parlantina e io continuo a trovarla piuttosto antipatica. Tuttavia, quando ripenso a questa scena, mai che non mi si dipinga un sorriso e allora sono propenso a giudicarla più teneramente. Non abbiamo parlato di Irene. Sanno bene come evitare l’argomento e io non manco mai di ringraziarli.
Afferrai un ciocca dei suoi capelli e me la portai alla bocca. Avevano un sapore forte, un profumo di donna che sa di piacere. E Cassandra sapeva esattamente come piacere, quando scosse i capelli e si sdraiò sul mio petto dicendo:
« Ecco fatto. »
Sapevo cosa stavo facendo e allo stesso tempo non lo sapevo affatto. Non mi importava. Era una cosa da niente, una cosa volgare con una donna volgare, per passare un pomeriggio. Ma non m’ero mai sentito così in colpa, prima. Non m’ero mai sentito così in colpa come quando feci saltare il gancetto del reggiseno e le infilai una mano tra le gambe, ben sapendo che non era quel seno che volevo baciare e neanche quelle le gambe di cui volevo tastare il tenero angolo in ombra.
Chiusi gli occhi per immaginare di essere altrove e che non c’era lei. Mi figurai un seno bianco, piccolo, con i capezzoli come due bottoncini e una bocca ancor più piccola ed estremamente silenziosa, da cui veniva solo ogni tanto un ansito di sorpresa. E due occhi neri che si rompevano nel buio, il bianco sparato in tutte le direzioni nel momento in cui la facevo mia e mia per sempre. Solo una volta doveva capitarmi di tenerla così stretta in un abbraccio. La mia Irene, così bianca, così bagnata.

Di Chiara Pagliochini

mercoledì 25 gennaio 2012

La Terra Desolata, Thomas Stearns Eliot

Salvador Dalì


“Ho i nervi a pezzi stasera. Sì, a pezzi. Resta con me.
Parlami. Perché non parli mai? Parla.
A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa?
Non lo so mai a cosa stai pensando. Pensa.”

Penso che siamo nel vicolo dei topi
Dove i morti hanno perso le ossa.

Mi sento sola stasera. Le lacrime premono sulla punta degli occhi. E c’è un piccolo nodo di nausea là in fondo, che non si vuol sfogare in nessun modo. Forse è la stanchezza, è tutto il giorno che sto sui libri con questo piccolo entusiasmo frenetico. O forse è tristezza. Una tristezza piagnucolosa e indefinita, che viene da tanti pensieri sciocchi, inutili, astrattissimi.  
Eliot si è aggiunto a tutto questo come un sommario, una coroncina, un regalo premio coi punti dell’Agip. Non è colpa sua, o almeno non solo. Ma sono sicura che non se la prenderà se gli attribuisco un po’ della colpa.
Ho cominciato La terra desolata alle diciotto e trenta di questo pomeriggio. Alle dieci e trenta, ho alzato bandiera bianca. Non c’è dubbio, sono troppo piccola, troppo poco intelligente, ho studiato troppo poco per capirla. Eliot non è un poeta gentile, non vuole farsi capire, non ti presta le battute su un piatto d’argento perché tu possa farle tue e recitarle innanzi a un pubblico. Eliot sta lì, dice le sue battute, parla di antropologia, di cristologia, di tarocchi, di mitologia, e senza le sue note neanche il Padreterno nella sua onniscienza lo avrebbe probabilmente inteso. Ma non si tratta di questo. Ho fatto i miei sforzi, una corsa frenetica dai versi alle note, dalle note ai versi, dall’introduzione ai versi alle note, i commenti dell’antologia, la pagina su Wikipedia. Qualsiasi cosa fosse a mia disposizione per penetrare anche un poco in questo labirinto tascabile. Nulla da fare, la profondità mi rifiuta. Ho intaccato solo di poco la superficie e mi sento come uno che cerchi di pulire il Titanic dalle incrostazioni usando uno spazzolino da denti.
Ma vedete, non è neanche questo. Non è la frustrazione. È il sapore della frustrazione, è quel che rimane in bocca alla fine, quando hai detto “voglio capire” e hai concluso “non ho capito”. È angoscia, sgomento, ansia da prestazione, rammarico, contrizione. Vorresti far qualcosa, scrollare le pagine perché ne piova una polverina dorata di conoscenza. Niente da fare, non è così che si fa.
E allora, se hai percorso rigo per rigo cercando te stessa e non ti sei trovata, se hai scorso le sillabe perché si aprissero e loro hanno solo sbattuto le ciglia, cosa ti resta? Ecco, io penso che resti proprio quel che si promette. Una Terra Desolata, un nulla, un enigma, un vuoto, un intrico ineffabile, la tua miseria umana. “In una manciata di polvere vi mostrerò la paura”. Certo, Eliot, questo lo fai proprio bene.

“Sulle Sabbie di Margate.
Non posso connettere
Nulla con nulla.
Le unghie rotte di mani sporche.
La mia gente, gente modesta che non chiede
Nulla.”

[…]

“Dayadhvam: ho udito la chiave
Girare nella porta una volta e girare una volta soltanto
Noi pensiamo alla chiave, ognuno conferma una prigione
Solo al momento in cui la notte cade”

[…]

“Sedetti sulla riva
A pescare, con la pianura arida dietro di me
Riuscirò alla fine a porre ordine nelle mie terre?
Il London Bridge sta cadendo sta cadendo sta cadendo
[…]
Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine”

Io non voglio immaginare Eliot affacciato alla finestra. Non voglio sapere cosa vedeva. Questa terra apocalittica, arida, avida, atavica, allucinata io mi rifiuto di credere che fosse la sua. Ma era questo il suo sguardo? Era davvero questo il mondo? Il mondo dopo una guerra mondiale era così? Gli occhi che lo guardavano erano questi? O siamo di fronte al delirio di un pazzo, di un bislacco intellettuale, di uno scrittore egoista ed elitario che spende e spande citazioni a vanvera? Ed io che sono qui seduta al tavolo della cucina, che ascolto musica nelle cuffie a tutto volume per isolarmi dal volume della tv, che aspetto che la casa si svuoti e si acquieti solo per ritrovare una dimensione intima, spirituale, non corrotta, io ragazzina ignorante dell’anno duemiladodici, che si suppone vedrà la fine di questo mondo apocalittico, arido, avido, atavico, allucinato – io, che cosa ne so?
Niente. Io sono qui e posso solo essere triste. Sono triste perché non farò mai poesia. Non ho le palle per la poesia: il mondo non ha bisogno di altre scempiaggini sentimentaliste. Sono triste perché non vedo la cresta dell’onda, non faccio parte di qualcosa, sono una bollicina in isolamento, e non come questi scrittori modernisti che si conoscevano tutti, prendevano il tè insieme, scopavano insieme, si copiavano, si correggevano e cercavano di andare da qualche parte. Noi stiamo andando da qualche parte? Io sto andando da qualche parte? Stiamo fotografando il mondo? Stiamo costruendo qualcosa? Qualcuno potrà leggere le nostre terre desolate?
A volte penso semplicemente che ci sia troppo squallore. Che ci sentiamo ripugnati. Che non sappiamo guardare perché non vogliamo vedere. E per questo non lasceremo niente che valga la pena leggere. Ma forse sono troppo intransigente. D’altronde io parlo per me. Gli altri, in qualche parte del mondo, qualcosa di buono lo staranno pur facendo.
Ma poi penso che non è così importante. Mio padre, ad esempio, dice che non è importante. Certo, c’è la fame nel mondo a cui pensare e pure i conflitti in Cecenia e anche le liberalizzazioni, certo. Dobbiamo pensare a queste cose, dobbiamo prendere una laurea, dobbiamo trovarci un lavoro. Non possiamo perdere tempo a pensare alla letteratura in astratto. No, la letteratura non si mangia, non mette niente in pancia e neanche salva il mondo. Come diceva Oscar Wilde, tutta l’arte è sommamente inutile.
Certo, non ci dobbiamo pensare. Non pensiamoci. Non serve.
La Terra Desolata non mi serve e non serve capirla. No.
Ma allora perché la voglio capire? E perché non poter capirla mi fa venire così voglia di vomitare?

“Che farò ora? Che farò?
“Uscirò fuori così come sono; camminerò per la strada
“Coi miei capelli sciolti, così. Cosa faremo domani?

“Cosa faremo mai?”
L’acqua calda alle dieci.
E se piove, un’automobile chiusa alle quattro.
E giocheremo una partita a scacchi,
Premendoci gli occhi senza palpebre, in attesa che
Bussino alla porta.


Di Chiara Pagliochini

domenica 22 gennaio 2012

L'agenzia dei suicidi. Cap.19


Un Chien Andalou (1929) - Luis Buñuel

Quando mi svegliai, c’era puzza di polvere. Restai qualche secondo ad occhi chiusi, sforzandomi di pensare. Il primo pensiero che mi veniva era Irene, per cui lo mandai via e sollevai le palpebre. Intorno, una stanza che non riconoscevo.
Ero sdraiato su un divano molto rigido, la testa premuta su un cuscino. Fino alla bocca mi copriva un plaid con una fantasia scozzese, rosso, bianco e blu. Era quello a puzzare. Mi drizzai a sedere e feci scivolare via il plaid. Fissai le pareti gialline, un quadro con una violetta secca. Davanti al divano, un televisore al plasma; sotto, un tappeto con un brutto disegno. Da una stanza alla mia destra proveniva un fiotto di luce, che staccava nettamente i bordi dell’ingresso.
Dopo l’odore della polvere, quello del caffè. Ma il mio stomaco, disgustato da entrambi, si serrava in una morsa dolorosa e qualcosa di indefinito e molto acre tornava su dalla gola. Trattenni il conato, chiusi di nuovo gli occhi, riappoggiai la testa sul cuscino.
Avevo bevuto troppo, questo lo ricordavo. Forse ero a casa di Greta. Questo non lo sapevo, ricordavo soltanto la sua faccia, staccata di netto come la luce staccava la soglia. Una faccia salvifica e bianca. Ma potevo anche essere a casa di Ascanio, per quanto ne sapevo. Questione di minuti e l’avrei scoperto, non c’era bisogno di dannarsi.
Nel mio buio silenzioso si affacciò uno scalpiccio di ciabatte. Aprii gli occhi, senza alzare la testa né tentare di sollevarmi. Greta era a pochi passi dal divano, i capelli legati, gli occhi tondi evidenziati da occhiaie e una felpa arancione. Non portava gli occhiali e non era truccata. In mano aveva una tazza di coccio da cui si levava un refolo di fumo.
« Buongiorno » disse, in un tono che voleva trasmettere insieme buon umore e pacatezza.
Lentamente raccolsi le gambe e mi rizzai contro lo schienale, per farle spazio sul divano. Greta sedette con uno sbadiglio.
« Dormito bene? »
« Un po’ duretto. Ma bene, grazie. Anzi, grazie. »
« Figurati » Greta si strinse nelle spalle e mi fissò coi grossi occhi circolari. Se li avessi guardati abbastanza a lungo e con sufficiente intensità, quegli occhi avrebbero detto da soli tutto quello che dovevano dire. Certe volte pensavo che, se mi fossi soffermato ad osservarli, una spirale dal fondo dell’iride mi avrebbe risucchiato. Non perché fossero begli occhi, questo no. Ma erano così rotondi che ci si potevano immaginare dentro le cose, così rotondi che era come spiare da una serratura dentro un vuoto ipnotico e vorticante. Sapevano leggere. E io non volevo trovarci me stesso interpretato. Perciò distolsi lo sguardo.
« Mi dispiace » aggiunsi. Ma sapevo di non essere convincente e dubitavo di dovermi realmente scusare.
« Non è un problema. Mi fa piacere che servo a qualcosa. Io non so se posso considerarmi un’amica, ma penso che è a questo che servono gli amici. Uno li chiama nel momento del bisogno. E se posso essere di aiuto, io sono contenta. E poi quell’Ascanio mi è sembrato un tipo a posto, un ragazzo simpatico. »
« Lo è. È un bravo ragazzo. »
« È buffo. Era convinto che ti chiamassi Ryan. All’inizio non capivo bene di chi parlasse. Ma poi il numero, il fatto che sembrava preoccupato… so riconoscere le persone dalle voci e la sua non era una voce da maniaco. Nossignori, un bravo ragazzo. »
« Buffo? »
« Molto buffo. Che nome orribile hai scelto. Eri davvero molto ubriaco. »
Come la spieghi a chi ti conosce, a un’amica, tutta la piega che la tua vita ha preso da mesi a questa parte, senza che lei abbia avuto il minimo sospetto? Come glielo spieghi che Ryan non è una cosa che ti sei inventato lì per lì, ma è un gioco improvvisamente diventato serio, un personaggio diventato persona, una maschera diventata pelle? Come glielo spieghi che non conosci altro nome che Ryan, perché Ryan è come ti chiamano le persone che ami? Non sei mai stato un altro. Sei sempre stato quest’uomo dal nome buffo e orribile, un uomo senza passato e senza futuro, che vive le vite di altri per avere un presente.
« Veramente orribile. »
« Vuoi del caffè? »
Guardai la sua tazza fumare, sfumare in una lieve inconsistenza vaporosa. Anche i connotati del suo viso sembravano disciolti, allentati. C’era qualcosa nella mia testa che ancora non funzionava per il verso giusto.
« No, grazie. Forse più tardi. »
« Bene. Un’altra coperta? Qualcosa da mangiare? »
« No, grazie. »
Greta separò le labbra per parlare. Mi gettò un altro sguardo, temerario. Riabbassò gli occhi e posò le mani in grembo con un’aria di sconsolatezza. Sembrava irrigidita.
« C’è qualcosa di cui vuoi parlarmi? » domandò, senza guardarmi.
C’era qualcosa di cui volevo parlarle? C’era qualcosa di cui volessi parlare? Tante, troppe cose, nessuna comprensibile, così poco chiare anche a me stesso, fasci di sensazioni nervose e spirituali e un’atmosfera, un sapore di decadenza, di marcio, di cui non si poteva dire niente.
« Io non… saprei da dove cominciare. »
« Non devi farlo per forza. »
« Ma posso dirtelo lo stesso? »
« Ti ascolto. »
E mi ascoltò davvero. Ascoltò parola per parola con gli occhi spalancati come bottiglie stappate, proprio come se vedesse quel che dicevo, proprio come se i suoi occhi servissero ad ascoltare.
Parlai di Ascanio, di che bravo ragazzo fosse. Le parlai di Jane, che era quasi la sua fidanzata, e sono sicuro fosse una ragazza altrettanto brava. Le raccontai di quando l’avevo visto per la prima volta coi capelli corti e non l’avevo riconosciuto, di come gli amici lo avessero piantato in asso e di come si cambia da un giorno all’altro solo perché sei rimasto solo. Le raccontai delle scorticature che aveva sulle braccia:
« Dal polso lungo tutto l’avambraccio, saranno una decina. »
Le raccontai delle cicatrici nascoste dall’arco sopraccigliare e dei lobi delle orecchie, che se li guardavi erano ancora tutti flosci.
« Ma è un ragazzo molto gentile. E anche molto intelligente. »
Poi Greta mi chiese come lo avevo conosciuto e fu a questo punto che qualcosa cominciò a declinare. L’avvertii dapprima come una stortura, poi più nettamente come uno screpolarsi, il grattare via una crosticina con l’unghia. Fu allora, per la prima volta, che nominai l’agenzia. Non ne avevo mai parlato con qualcuno che non fossero i miei compagni e Ryanair ed era sorprendente quanto fossero inadeguate le parole che conoscevo.
« Una specie di agenzia per… suicidi. »
A questo punto Greta si volse bruscamente e mi degnò di un’occhiata davvero raggelante.
« Suicidi » ripeté, come se non avesse capito.
« Aspiranti suicidi » mi corressi.
Raccontai di quando avevo visto l’annuncio per la prima volta. Ero stanco, abbattuto, avevo avuto una giornata storta. Mi sentivo vecchio, solo, inutile, una cosa su un divano che aspetta la morte. Allora avevo preso la cornetta pensando di trovare all’altro capo una voce amica, ma era stato tutto un po’ diverso. Avevo pensato che potessero curarmi dalla depressione, invece l’avevano scambiata per un’altra cosa.
« È stato tutto un equivoco. »
Io, però, non avevo pensato di chiarirlo e anzi m’ero detto che tanto valeva saltare in quella pozzanghera, visto che ormai c’ero finito dentro. Era stato un caso, ma io non credo nel caso e neanche credevo che ci fosse qualcosa di male nell’essere parte di un disegno. Mi ero ritagliato un ruolo a forza di piccole bugie, senza mai rinnegare me stesso:
« Perché non sono capace di mentire. E mi sono comportato come sempre, anche se di suicidarmi non mi importa niente. »
Sulle prime, mi erano sembrati un branco di cretini patentati, di splendidi fantocci, Iris e Eugenio e Cassandra e persino il piccolo Ascanio, così pieni di tic e di stereotipi e così finti nel loro dichiarato desiderio di morte. Tutta gente che era troppo codarda per vivere e che non aveva altro posto dove andare.
Ma poi avevo incontrato lei:
« Irene. »
E allora qualche cosa era cambiato.
Ero cambiato io, ma lentamente. All’inizio stentavo a riconoscerlo e attribuivo il tutto ad una curiosità insana e malcelata. Irene era una specie di rebus da decifrare, con un suo sistema crittografico, ed era così difficile e così restia all’interpretazione che chiunque sarebbe uscito di testa.
« Volevo capirla perché non potevo capirla. Capisci? »
Ma in realtà Irene non era un rebus neanche un po’. Era una persona e le persone non sono mai chiare e decifrabili in modo univoco. Irene ci aveva provato a spiegarsi e io avevo provato ad ascoltarla, ma non ci eravamo capiti, perché parlavamo due lingue diverse. Lei era più intelligente di me, aveva più cultura ed era giovane, tutte cose che me la rendevano molto lontana. Io avevo dalla mia una limitata esperienza del mondo, la conoscenza dei meccanismi biologici e delle sensazioni più elementari, ma la parte che aveva lei – la filosofia – non l’avevo avuta mai. E così lei parlava di solitudine, e io vedevo una persona sola. Lei parlava di amore, e io pensavo di andare a letto insieme. Lei parlava di ammazzarsi, e io vedevo una ragazzina depressa cui mai nessuno aveva detto che era bella. Non lo era, non era bella, ma questo non era un buon motivo per non dirglielo. Irene parlava sempre per astrazione e io rispondevo sempre concretamente, perché abitavamo su due sponde opposte e avevamo conoscenze diverse. E invece di integrare le nostre conoscenze, queste non facevano che dividerci e farci arrabbiare.
« Lei vuole affogarsi. Quindi abbiamo litigato. »
Io non volevo che morisse. Non avevo nulla in contrario all’idea di lei che si uccideva: era una creatura inadatta alla vita e ogni cosa che faceva e che diceva non poteva che confermare la sua teoria. Non avevo nulla in contrario all’idea di lei che si uccideva, solo non volevo che morisse. E questa era una delle contraddizioni più buffe e orribili a cui avessi mai pensato. Avrebbe potuto uccidersi, se avesse potuto non morire. Ma non era possibile, ed era questo il dramma. Io volevo la mia Irene viva, la parte che mi piaceva, la parte in cui era una ragazza sola con un macabro senso dell’umorismo, quei modi scontrosi, gli occhi espressivi, l’Irene che premeva i croccantini nella pattumiera, l’Irene che correva brilla attraverso la piazza, l’Irene che mi faceva distendere sul letto mentre lei parlava. E se solo avesse potuto uccidersi ma anche rimanere insieme a me, io avrei fatto di tutto per accontentarla. Volevo che fosse felice. Volevo essere felice anch’io. Le due cose non andavano d’accordo in alcun modo.
« Ma poi non è vero. C’è un modo. »
C’era un modo, c’era un mondo in cui le due cose sarebbero andate d’accordo, ma certe volte pensavo che fosse al di là della mia portata. Se solo avessi voluto uccidermi anch’io, ecco che saremmo stati insieme. Se lei voleva uccidersi, forse in quell’idea c’era una componente di splendore che io non potevo vedere né capire. Ma Irene era più intelligente di me: se quella parte di bellezza c’era, lei l’aveva vista. Quindi la morte era una cosa bella. Se Irene amava la morte, ecco che per amare Irene dovevo amarla anch’io. Una volta mi ero detto che per capire Irene dovevo interessarmi di quel che lei si interessava. Ed ecco la risposta, dunque:
« La morte. Morire. »
Tutto era diventato più chiaro. Tutto era leggibile. Tutto era cambiato. Quella gente non era più una cricca di matti destinati a soccombere agli insulti della vita, bensì un gruppo di rivoluzionari, di illuminati, gente che rifiutava tutti i soliti orpelli, che costruiva nuovi criteri e nuovi strumenti, un modo d’essere altro. Così non dovevo avere più paura. Non dovevo avere paura ogni volta che aprivo il cassetto, al mattino, e restavo a guardare la luce riflessa sulla lama di un lungo coltello. Non c’era niente di sconveniente e di sadico. Niente di quel che mi avevano insegnato era vero. La vita? Cos’era rispetto al brillio di quel coltello? E nell’idea di una morte pirotecnica, simbolica, non c’era forse molta più grazia di quanta ce ne fosse in cinquant’anni di vita? Era una soluzione di garbo. Era una soluzione pulita. La Chiesa e i dottori e i parenti se ne potevano andare affanculo. Le loro piccole moralità sulla cura e l’essere felici, le porcate del sabato sera, le vaccate degli analisti. Si poteva fare un fascio di tutto e dare fuoco alla pira per accendersi la vita, per brillare in un attimo di tutta la brillantezza che la vita stessa ci negava.
Ecco, ecco, io avevo capito.
« Ho capito! »
« Cosa? »
Lo sguardo di Greta era languido e spossato. Forse non credeva a una sola parola. Forse si stava pentendo di avermi raccolto dalla strada.
Ma non mi importava più cosa pensava Greta, perché non stavo pensando a lei. No, non pensavo a lei e neanche a Irene, ma pensavo ad Iris, e in quel momento la sua treccia girata da una parte sulla spalla era un appiglio a cui potevo aggrapparmi per salire. Iris coi suoi occhi di ghiaccio. Iris che era il punto dal quale partiva tutto, dal quale partivamo noi, Iris enigmatica, sicura, Iris di granito. Tutto riportava a Iris per vie traverse che non avevo mai percorso, perché erano sempre state così buie. Iris che mi portava via Irene e portava via me stesso, e in un certo senso ci ricomponeva insieme da un’altra parte. Nella morte? Era un pensiero così buffo, così ridicolo da formulare sul divano di Greta, col suo caffè che si era freddato e le guance sempre più livide.
« Devi smettere di frequentare questa gente » disse all’improvviso, come riscuotendosi da un torpore.
Io scossi la testa. Il suono della sua voce mi aveva distratto e mi aveva riportato accanto a lei, in quella stanza, dove era tutto così solido.
« Sei molto strano. Ho paura che ti succeda qualcosa di male. Non voglio. Sei una brava persona. Non permettere che ti facciano del male. »
« Stai tranquilla. Non fare caso a quello che dico. »
« Vuoi un caffè? »
Mi offriva di nuovo un caffè, come se non sapesse opporre altra resistenza a tutto quello che le avevo rovesciato addosso. E d’altronde che resistenza si può offrire se non questa – la resistenza di un oggetto inerte, di una parola concreta, di una persona imbecille – quando cose più grosse di te fanno irruzione nel tessuto della vita? Oh, ma com’ero diventato poetico. Oh, che paroloni, che intelligenza sopraffina. Stavo proprio diventando un suicida provetto.

Di Chiara Pagliochini

sabato 14 gennaio 2012

Arlecchino servitore di due padroni, Carlo Goldoni


“Oh bella! Ghe n’è tanti che cerca un padron, e mi ghe n’ho trovà do. Come diavol oia da far? Tutti do no li posso servir. No? E perché no? No la saria una bella cossa servirli tutti do, e guadagnar do salari, e magnar el doppio?”
Mi viene il dubbio che io sia francamente impazzita. Tre giorni fa non mi sarebbe mai passato per la testa che potessi leggere Goldoni con tanta serenità, disponibilità, persino allegria. Tre giorni fa, quando l’ho messo nella valigia, pensavo soltanto, Cristo, sarà ora di sbarazzarsi di questa roba oscena, così do l’esame al più presto e chi s’è visto s’è visto. Tre giorni fa non avrei neanche pensato che in questo breve lasso di tempo fosse possibile rivalutare la mia posizione nei confronti del teatro, dopo averlo denigrato per mesi con così vivo accanimento. Eppure, eccomi qui ad ammettere i miei errori di valutazione e la mia ignoranza. Ora, io non dico che leggere l’Arlecchino sia l’esperienza artistica più preziosa da darsi nel corso della vita. Anzi. Però è meno terribile di come uno se lo immagina.

È Goldoni a dare il via a una riforma del teatro su vasta scala, riforma che lo porterà ad assumere la forma che noi conosciamo. E l’Arlecchino si inserisce in questo progetto come il primo passo avanti, il primo compromesso con un pubblico abituato ad altre salse. Nel Sei-Settecento il teatro, almeno di un certo tipo, era stato teatro di piazza e di strada, il dominio della Commedia dell’Arte. Gli attori, coi loro abiti sbrindellati, i carrozzoni, i sipari scoloriti, i tendoni allestiti alla buona, viaggiavano coi loro canovacci di città in città, rappresentando spettacoli che molto dovevano all’improvvisazione e che si fondavano sul sistema delle maschere. Arlecchino (o Truffaldino), Pantalone, Brighella, Smeraldina, così nascono quei personaggi fissi che io tendo ad associare al Carnevale – forse perché per Carnevale, quando ero all’asilo, ci davano da ricopiare ogni anno i disegni di queste maschere tradizionali (se cerco bene, negli vecchi album, avrò almeno quattro Colombine).
Goldoni arriva col suo progetto di riforma, prende quel che può, inizia a fare altro. Perché nel suo Arlecchino, a differenza di quanto avvenuto finora, gran parte del testo è scritto e solo un poco è lasciato all’improvvisazione; perché le maschere ci sono, ma non sono più quelle di una volta: Pantalone abbandona la sua consueta avarizia per diventare un padre affezionato, Brighella passa da servitore a proprietario di locanda, Arlecchino assume una personalità, uno stampo caratteriale sconosciuto alla tipicità della maschera.
È proprio Arlecchino il centro pulsante della vicenda, l’elemento unificante, l’orditore di intrighi, il catalizzatore dell’attenzione del pubblico, col suo colorito accento misto di veneziano e bergamasco, i suoi salti, il suo appetito insaziabile. Ed è Arlecchino che seguiamo con trepidazione nel suo tentativo di servire contemporaneamente due padroni, senza che nessuno sappia dell’altro, così da non esser bastonato e mangiar per due. E alla fine di una sola giornata sarà sì stato promotore di due tentativi di suicidio e di innumerevoli frottole, ma sarà anche suo il merito di due riconciliazioni e ben tre matrimoni. Animato allo stesso tempo da furbizia e ingenuità, Arlecchino si destreggia con una briosità che a teatro farebbe (e ha fatto e fa ancora) piovere minuti di applausi.

Ma quel che più mi ha colpito di questa esperienza con l’Arlecchino non è stato il testo in sé quanto tutti i documenti contenuti nella mia edizione BUR. E adesso lasciate che io esprima amore incondizionato per queste edizioni: introduzioni curatissime, note di regia, tutti gli strumenti necessari per apprezzare un testo non soltanto nella sua singolarità, ma come elemento di un tessuto più ampio e più complesso che è la messa in scena di quel testo. Questa edizione dell’Arlecchino, in particolare, riporta il diario di un attore in occasione di un tour europeo dello spettacolo (1957, per la regia di Giorgio Strehler) e il ricordo che Strehler fa di Marcello Moretti, storico interprete di Arlecchino. Testimonianze a loro modo entrambe istruttive e toccanti che mi hanno fatto capire che il teatro non è soltanto quella porcheria che ho guardato per settimane in videocassetta, ma soprattutto è umanità, dedizione e quasi una forma altra di intendere la vita.

Di Chiara Pagliochini

giovedì 12 gennaio 2012

Speranze per l'avvenire:
che parecchie persone recuperino la dimensione esatta della loro intelligenza, scendano da quel piedistallo di boria su cui sono montate e si facciano una sana pippa ogni tanto.
Amen.

Il giardino dei ciliegi, Anton Čechov


“Perché io sono nata qui, qui sono vissuti mio padre e mia madre, mio nonno, io amo questa casa, senza il giardino dei ciliegi io non capisco più niente della mia vita, e se è proprio necessario venderlo, allora vendete anche me insieme al giardino.”
Credo che questa – anzi, ne sono certa – sia la prima opera per il teatro che leggo in vita mia. L’approccio, lo debbo dire, è stato dei più foschi e ammantati di pregiudizio. Ho sempre pensato – e ancora non sono del tutto immune dal pensiero – che i testi teatrali siano una sorta di scheletro che a leggerlo si ricava la metà del loro valore. Se questo è vero, è vero anche che la metà di un grande valore è pur sempre un grande valore. E questo testo di Čechov (peraltro in una edizione splendida ed esaustiva) è magnifico.
Scrive Giorgio Strehler, che lo rappresentò a teatro nel ’74, che Il giardino è come un gioco di scatole cinesi. Ci sono tre scatole e ognuna contiene l’altra. La scatola più piccola, quella che è contenuta, è la scatola della vita quotidiana, dei personaggi in scena con le loro battute tipiche, i loro tic, i loro piccoli drammi esistenziali. La seconda scatola è quella della Storia, che interpreta il testo in termini di passaggio di proprietà, della decadenza della vecchia classe aristocratica e dell’emergere di nuove forze politiche, una sorta di anticipazione della Rivoluzione d’Ottobre. La terza scatola, la più grande, è quella dell’Umanità, con i suoi temi eterni: la morte, il dolore, l’infanzia perduta, l’inesorabilità del tempo, la vita mancata. Il giardino dei ciliegi è tutte e tre le scatole, ed è questo che ne fa un’opera di grande valore.
La vicenda ruota intorno a una vecchia casa che sta per andare all’asta. La proprietaria, Liubov, donna molto elegante, spendacciona, ma anche generosa e capace di grandi slanci, vi fa ritorno dopo cinque anni di assenza e ritrova tante cose che appartengono al suo passato, alla sua vita di madre e di donna sposata. Ritrova la “stanza dei bambini”, il grande armadio di cent’anni, le persone che conosceva e son cresciute e soprattutto il giardino dei ciliegi, che sembra esistere da sempre e fiorire in ogni stagione. Il giardino è simbolo di tutto ciò che c’è di caro al mondo, di quel che è radicato in noi, del posto da cui veniamo e che prima o poi, strappati dal caso o dalla violenza oppure di nostra volontà, dobbiamo abbandonare. Intorno a Liubov ruotano tanti personaggi incantevoli e fragili: le figlie Ania e Varia, la prima così proiettata verso il futuro, l’altra così incerta su quello stesso futuro; il fratello Gaiev, che parla sempre a sproposito; il servitore Firs, che è vecchio quanto il giardino; Duniascia, la cameriera innamorata che si incipria sempre il naso; Iascia, lo sprezzante valletto che all’estero s’è abituato alla bella vita; il contabile Iepichodov, che tiene sempre un revolver in tasca; la governante Charlotta, che non sa da dove viene ma conosce incredibili giochi di prestigio; l’eterno studente Trofimov, che contempla sempre la felicità ma non sembra che a parole ci si avvicini poi molto; il rampante Lopachin, contadino arricchito che rileverà la proprietà dei suoi stessi ex padroni e che farà calare l’ascia proprio sul tronco di quei ciliegi.
Chi vorrà restare? Chi troverà il coraggio di andare avanti? Chi accetterà che la ruota del progresso si muove e non si incaglia mai? Impossibile stabilire cosa pensasse Čechov di quei ciliegi, se in lui ci sia più nostalgia per quei colpi di scure o più speranza per un mondo che viene. I fatti parlano da sé e così dev’essere, e sta allo spettatore o al lettore decidere se piangere o ridere di quel che vede in scena.
Čechov fu certo uno scrittore sorprendente e lui stesso, di sorprese, dovette vederne un bel po’. I suoi testi, che si supponevano umoristici, finivano per far piangere gli attori alla prima lettura. E anche il pubblico, alla fine delle rappresentazioni, era tutto una lacrima. “Voi vi lamentate che i miei personaggi siano tristi e cupi! Ahimè, non è colpa mia! Questo avviene contro la mia volontà; quando scrivo, a me non pare di scrivere cose tristi, e comunque, quando lavoro, sono sempre di ottimo umore. Ma provate a osservare, e vedrete che gli uomini malinconici scrivono sempre cose allegre, e quelli che sono allegri nella vita fanno venire invece la malinconia!” Ecco, non è un uomo da sposare? E non è uno scrittore da ammirare e prendere a esempio uno il cui maggiore fine artistico è voler combinare in una stessa opera commedia e tragedia? Perché la vita non è solo una tragedia, come non è soltanto una commedia. La vita è una commistione in parti casuali di elementi tragici e comici e, se un buon libro deve rassomigliare alla vita, allora è giusto principio che ci entrino entrambi.

Di Chiara Pagliochini

mercoledì 11 gennaio 2012

Pan, Francesco Dimitri


“Tu ricordi l'Isolachenonc'è. Vive nei tuoi turbamenti, vive negli odori fantasma, vive ogni volta che hai nostalgia di qualcosa che non sai di conoscere.”

In un mondo come quello evocato da Dimitri, mi sono spesso soffermata a chiedermi, e io da che parte starei? Per la verità, non credo che nessuna delle due parti mi piaccia. L’ipotesi più probabile è che guardi il Corteo passare senza alzare manco il naso o seppellisca i miei libri preferiti sotto un mattone per sottrarli al “ciclo della repressione”. O, al massimo, mi infiltrerei in un Forte Fatato tra disinvolti androgini che una volta, nei film della Disney, si chiamavano Campanellino Trilli. Detto così, è tutto molto triste, ma la verità è che il baccano non m’è mai piaciuto, come d’altronde non mi piace lo squallore. Non sono né reazionaria né rivoluzionaria. Sono una che tira acqua al suo mulino, e in questo senso somiglio più a Michele-lo-sciamano-urbano e a Dagon-il punk. Io sono come la Svizzera e una battuta si può eleggere a simbolo del mio non-allineamento:

“Tu osi colpire un dio?” ruggisce Uncino.
Il punk gli dà una testata sul naso. “Sono ateo, coglione.”

Ecco, questa sarebbe a grandi linee la mia reazione se un dio qualsiasi mi chiedesse di stare dalla sua parte. Niente testate, certo. Al massimo un, no grazie, e alzata di spalle.

Sul palcoscenico di una Roma inquietante e magnifica (perché Roma è sempre inquietante e magnifica, e le 5-6 volte che ci son stata sempre confermano la mia prima impressione, e cioè che puoi rimanere schiacciato dalla puzza di sudore su un tram e poi sbavare di fronte alla Fontana di Trevi, alternando fasi assassine a fasi di contemplazione estetica senza soluzione di continuità) – sul palcoscenico di una Roma inquietante e magnifica si danno battaglia due divinità millenarie, due potenze ataviche il cui terreno di scontro è la totalità del mondo (nei suoi tre Aspetti di Carne, Incanto e Sogno), ma la cui vera guerra si combatte nel singolo individuo, nel suo essere sballottato tra forze opposte, contraddittorie, laceranti. Da una parte c’è Pan-Peter Pan-Peter-Fauno, il dio delle emozioni forti, del sesso estremo, della violenza, della paura, della liberazione da ogni schema. Dall’altra parte c’è Capitan Uncino-Augusto Dal Mare-Greyface, tutto quel che rimane nel mondo quando le emozioni forti non sono più: “giornate di noia e vite ripetitive”, “cartellini timbrati”, “storie raccontate come formule”, censura, bigottismo.

Nel mezzo c’è tutta una schiera di anime da convertire a una causa o all’altra. Pirati da assoldare. Ragazze che devono imparare a volare. Studiosi che vogliono laurearsi con una tesi sull’Isolachenonc’è. Scrittori che con la forza di una penna, parole ed ironia sminuiscono, ridicolizzano ed imprigionano gli dei. Satiri che sono tuoi parenti. Fate che ti illuminano sulla tua natura sessuale. In questo carnevale itinerante ci sei anche tu e ti verrà richiesto di prendere una posizione. Valuta i pro e i contro degli schieramenti e decidi. Una decisione non è per sempre, il tradimento è sempre ammesso e, finché ti conviene, puoi anche fare il furbo. Solo, attento a non farti beccare.

Ma, siccome io sono una personcina non allineata e per questo osservo tutto con occhio un po’ dubbioso, qualche sassolino dalla scarpa me lo devo pur togliere. Vorrei quindi spiegare i motivi per cui quella stelletta è sfuggita al contatore (a proposito, “seconda stella a destra e poi dritti fino al mattino” è una buffonata: tra i metodi più efficaci per dirigere i piedi sull’Isola c’è fare violenza o subirla). Ecco, capite, persino la Svizzera, dopo un po’ che i delegati stranieri arrivano a Berna e cominciano ad attaccare volantini di propaganda, si irriterebbe e le montagne si solleverebbero e scrollerebbero le gobbe per scuoterli via. In sostanza, Dimitri è troppo-poco-svizzero per non imbastire un po’ di propaganda. E quindi l’umanità-ha-perso-l’Incanto, tutti-i-cristiani-sono-capre-stupide, facciamo-le-orge-fuck-yeah, viva-il-neopaganesimo, viva-i-giochi-di-ruolo, mettiamo-i-roghi-di-libri-perché-fa-figo-e-funziona-sempre-in-narrativa. Ecco, io tutte queste prese di posizione le potrei condividere una ad una, se fossero espresse con meno pedanteria. Non venitemi a dire che sono apologia velata. È indottrinamento bello e buono, solo di un’altra salsa. Non sono contraria ai contenuti dell’indottrinamento, quanto ai modi in cui si esprime. Me lo fa apparire scontato e palloso. E mi ritraggo come la Svizzera che ritira gli artigli.

Questo era il sassolino nella scarpa. Veniamo ora alla manciata di caramelle. Dimitri scrive bene e, quando non fa propaganda, scrive meravigliosamente bene. Le parti stilisticamente più intriganti e davvero ben riuscite del romanzo sono i momenti in cui i vari Aspetti si fondono l’uno nell’altro e allora la sperimentazione linguistica e il repertorio di immagini è potente. Ho davvero apprezzato, ad esempio, l’iniziazione di Michele. Quella sì che è stata un’orgia, per la ricchezza verbale, i colori, le trovate, (probabilmente le canne).

Ho apprezzato i dialoghi, apprezzato i personaggi, apprezzata la scena lesbo davvero. Dopo aver letto tutte quelle oscene fanfiction non credevo che qualcosa fosse ancora in grado di farmi palpitare-palpare. Ok, cambiamo argomento, che è meglio.

Se questo è il tipo di fantasy che stanno facendo ovunque tranne qui, se Dimitri può riscattare la nostra letteratura fantastica da quella manfrina di elfi con gli archi, ben venga. C’è ancora un pochino di ruggine, ma basta dare una sciacquata con l’acqua santa. “Il mondo lo cambi raccontando storie, mica altro”. Ecco, se questo significa dare una scrollata, una testata, un pugno sul naso a chi legge, bene, Dimitri lo sta facendo per il verso giusto. 

Di Chiara Pagliochini