mercoledì 25 gennaio 2012

La Terra Desolata, Thomas Stearns Eliot

Salvador Dalì


“Ho i nervi a pezzi stasera. Sì, a pezzi. Resta con me.
Parlami. Perché non parli mai? Parla.
A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa?
Non lo so mai a cosa stai pensando. Pensa.”

Penso che siamo nel vicolo dei topi
Dove i morti hanno perso le ossa.

Mi sento sola stasera. Le lacrime premono sulla punta degli occhi. E c’è un piccolo nodo di nausea là in fondo, che non si vuol sfogare in nessun modo. Forse è la stanchezza, è tutto il giorno che sto sui libri con questo piccolo entusiasmo frenetico. O forse è tristezza. Una tristezza piagnucolosa e indefinita, che viene da tanti pensieri sciocchi, inutili, astrattissimi.  
Eliot si è aggiunto a tutto questo come un sommario, una coroncina, un regalo premio coi punti dell’Agip. Non è colpa sua, o almeno non solo. Ma sono sicura che non se la prenderà se gli attribuisco un po’ della colpa.
Ho cominciato La terra desolata alle diciotto e trenta di questo pomeriggio. Alle dieci e trenta, ho alzato bandiera bianca. Non c’è dubbio, sono troppo piccola, troppo poco intelligente, ho studiato troppo poco per capirla. Eliot non è un poeta gentile, non vuole farsi capire, non ti presta le battute su un piatto d’argento perché tu possa farle tue e recitarle innanzi a un pubblico. Eliot sta lì, dice le sue battute, parla di antropologia, di cristologia, di tarocchi, di mitologia, e senza le sue note neanche il Padreterno nella sua onniscienza lo avrebbe probabilmente inteso. Ma non si tratta di questo. Ho fatto i miei sforzi, una corsa frenetica dai versi alle note, dalle note ai versi, dall’introduzione ai versi alle note, i commenti dell’antologia, la pagina su Wikipedia. Qualsiasi cosa fosse a mia disposizione per penetrare anche un poco in questo labirinto tascabile. Nulla da fare, la profondità mi rifiuta. Ho intaccato solo di poco la superficie e mi sento come uno che cerchi di pulire il Titanic dalle incrostazioni usando uno spazzolino da denti.
Ma vedete, non è neanche questo. Non è la frustrazione. È il sapore della frustrazione, è quel che rimane in bocca alla fine, quando hai detto “voglio capire” e hai concluso “non ho capito”. È angoscia, sgomento, ansia da prestazione, rammarico, contrizione. Vorresti far qualcosa, scrollare le pagine perché ne piova una polverina dorata di conoscenza. Niente da fare, non è così che si fa.
E allora, se hai percorso rigo per rigo cercando te stessa e non ti sei trovata, se hai scorso le sillabe perché si aprissero e loro hanno solo sbattuto le ciglia, cosa ti resta? Ecco, io penso che resti proprio quel che si promette. Una Terra Desolata, un nulla, un enigma, un vuoto, un intrico ineffabile, la tua miseria umana. “In una manciata di polvere vi mostrerò la paura”. Certo, Eliot, questo lo fai proprio bene.

“Sulle Sabbie di Margate.
Non posso connettere
Nulla con nulla.
Le unghie rotte di mani sporche.
La mia gente, gente modesta che non chiede
Nulla.”

[…]

“Dayadhvam: ho udito la chiave
Girare nella porta una volta e girare una volta soltanto
Noi pensiamo alla chiave, ognuno conferma una prigione
Solo al momento in cui la notte cade”

[…]

“Sedetti sulla riva
A pescare, con la pianura arida dietro di me
Riuscirò alla fine a porre ordine nelle mie terre?
Il London Bridge sta cadendo sta cadendo sta cadendo
[…]
Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine”

Io non voglio immaginare Eliot affacciato alla finestra. Non voglio sapere cosa vedeva. Questa terra apocalittica, arida, avida, atavica, allucinata io mi rifiuto di credere che fosse la sua. Ma era questo il suo sguardo? Era davvero questo il mondo? Il mondo dopo una guerra mondiale era così? Gli occhi che lo guardavano erano questi? O siamo di fronte al delirio di un pazzo, di un bislacco intellettuale, di uno scrittore egoista ed elitario che spende e spande citazioni a vanvera? Ed io che sono qui seduta al tavolo della cucina, che ascolto musica nelle cuffie a tutto volume per isolarmi dal volume della tv, che aspetto che la casa si svuoti e si acquieti solo per ritrovare una dimensione intima, spirituale, non corrotta, io ragazzina ignorante dell’anno duemiladodici, che si suppone vedrà la fine di questo mondo apocalittico, arido, avido, atavico, allucinato – io, che cosa ne so?
Niente. Io sono qui e posso solo essere triste. Sono triste perché non farò mai poesia. Non ho le palle per la poesia: il mondo non ha bisogno di altre scempiaggini sentimentaliste. Sono triste perché non vedo la cresta dell’onda, non faccio parte di qualcosa, sono una bollicina in isolamento, e non come questi scrittori modernisti che si conoscevano tutti, prendevano il tè insieme, scopavano insieme, si copiavano, si correggevano e cercavano di andare da qualche parte. Noi stiamo andando da qualche parte? Io sto andando da qualche parte? Stiamo fotografando il mondo? Stiamo costruendo qualcosa? Qualcuno potrà leggere le nostre terre desolate?
A volte penso semplicemente che ci sia troppo squallore. Che ci sentiamo ripugnati. Che non sappiamo guardare perché non vogliamo vedere. E per questo non lasceremo niente che valga la pena leggere. Ma forse sono troppo intransigente. D’altronde io parlo per me. Gli altri, in qualche parte del mondo, qualcosa di buono lo staranno pur facendo.
Ma poi penso che non è così importante. Mio padre, ad esempio, dice che non è importante. Certo, c’è la fame nel mondo a cui pensare e pure i conflitti in Cecenia e anche le liberalizzazioni, certo. Dobbiamo pensare a queste cose, dobbiamo prendere una laurea, dobbiamo trovarci un lavoro. Non possiamo perdere tempo a pensare alla letteratura in astratto. No, la letteratura non si mangia, non mette niente in pancia e neanche salva il mondo. Come diceva Oscar Wilde, tutta l’arte è sommamente inutile.
Certo, non ci dobbiamo pensare. Non pensiamoci. Non serve.
La Terra Desolata non mi serve e non serve capirla. No.
Ma allora perché la voglio capire? E perché non poter capirla mi fa venire così voglia di vomitare?

“Che farò ora? Che farò?
“Uscirò fuori così come sono; camminerò per la strada
“Coi miei capelli sciolti, così. Cosa faremo domani?

“Cosa faremo mai?”
L’acqua calda alle dieci.
E se piove, un’automobile chiusa alle quattro.
E giocheremo una partita a scacchi,
Premendoci gli occhi senza palpebre, in attesa che
Bussino alla porta.


Di Chiara Pagliochini

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