sabato 28 gennaio 2012

L'agenzia dei suicidi. Cap.20

Henri de Toulouse-Lautrec

Dopo che le ebbi restituito la tazza vuota, Greta mi fissò ancora, brevemente, e ripeté se non preferivo restare.
« Sto meglio, davvero. E poi tu devi andare a lavorare. »
« Anche tu dovresti. »
« Certo. No, in realtà pensavo di non venire. »
« Vuoi che ci pensi io per te? »
« Lo faresti? »
« Ma certo, dico a Carlo che mi hai chiamato, che non stavi bene. »
« Ti ringrazio, davvero. Grazie di tutto. »
« Sei sicuro di andare? »
« Devo. Che ore sono? »
« Le otto e quaranta. »
« Ecco, Ryanair non avrà più niente da mangiare. »
Greta sorrise, un sorriso di denti che si affrettò a coprire con la mano. Era un gesto istintivo, un riflesso, che pure mi infastidì.
« Hai dei bei denti » dissi, e lo pensavo.
« Ma se sono orribili. »
« Hai dei denti, sei una bella persona e meriti di ridere sempre. »
Greta rise, si schermì di nuovo, abbassò la mano e di nuovo sorrise. Si alzò dal divano, recuperò le tazze che aveva poggiate sul pavimento e le depose nel lavello là in cucina. Mi alzai a mia volta, sottraendomi all’abbraccio appiccicoso del plaid, e mi spolverai la stoffa dei pantaloni. L’orlo era macchiato di giallo e diversi schizzi sulla coscia e sulle maniche della camicia mi ricordarono il pietoso spettacolo che ero.
Sapevo quale fosse il mio dovere. Sarei dovuto correre da Irene e chiedere perdono, chiedere perdono per quello che avevo detto, per quello che ero e per il modo in cui continuavo a mancarle di rispetto. Avrei dovuto fare tutto questo, ora che un barlume di comprensione mi aveva raggiunto, improvviso, ora che avevo visto un po’ di più. Era il mio dovere, e tuttavia ero stanco di dovere. Avevo bisogno di un po’ di tempo per me, bisogno di riposo, di acquietare la mente su un cuscino morbido, dopo che m’ero messo così d’impegno per stordirla.
Salutai Greta con due baci sulle guance e la guardai rimpicciolire nella fessura della porta, un sorriso sempre più piccolo e fievole. L’avevo mai guardata abbastanza? Avevo mai capito che in ogni donna c’è una piccola Irene pronta a mille impercettibili suicidi, per il solo fatto che non la si guarda abbastanza? Ma no, neanche allora avevo capito qualcosa, e pensavo ancora che Irene fosse solo Irene e Greta fosse solo Greta, e che le cose che imparavo di Irene non valessero anche per tutti gli altri. Non avevo capito che tra le persone non c’è confine e che se anche sono diverse negli occhi e nei modi e nei desideri sono sempre uguali nelle loro tristezze. E che noi siamo capaci di guarirle. Siamo capaci, certo, solo che non lo facciamo. Non lo facciamo perché non ci piacciono o perché abbiamo altro da fare, non lo facciamo perché pensiamo di non essere in grado, di non essere abbastanza, o perché pensiamo che qualcuno voglia farlo al posto nostro. Ma la verità è che potevamo farlo noi, eppure ci siamo tirati indietro.
Non avevo la macchina, quindi camminai. Greta si era offerta di riaccompagnarmi, ma non avevo accettato. Non volevo che facesse tardi al lavoro per colpa mia. No, non era vero. La verità è che volevo star solo.
Era una bella giornata. Greta abitava in una villetta poco fuori dal centro, una via tranquilla, alberata. E anche se tutte le foglie erano cadute e facevano tappeto sotto le suole delle mie scarpe, nondimeno era una giornata incantevole, l’aria pulita. Era come se non avessi più respirato da molto tempo. Inspirai a pieni polmoni l’odore macero delle foglie e pensai che dopotutto non era così brutto. Forse non c’era bisogno di morire per stare con Irene. Forse era Irene che poteva vivere per stare con me. Ma non volevo pensarci, non volevo pensarci. Pensavo solo alle suole che aderivano al terreno con un click clack umido, ciancicato. Mi concentrai sui passi e sul cielo sgombro e sul fatto che tornavo a casa e rivedevo Ryanair.
Ma Ryanair non fu contento di vedermi. Aveva grattato con le unghie la parte inferiore della porta. Non l’aveva più fatto, da quand’era piccino. Forse perché non l’avevo mai lasciato solo così a lungo. Miagolò, un miagolio lungo, irato, e non venne a strusciarsi contro le mie ginocchia. Io mi chinai per carezzarlo tra le orecchie e solo allora si arrese docile alle mie scuse. Gli versai del latte nella ciotola, mentre tagliavo una fetta di prosciutto a striscioline e gliele adagiavo morbide, una accanto all’altra, in un piatto di plastica. Povero Ryanair, quanta fame c’era nei suoi occhi gialli.
Andai in bagno, feci una doccia e infilai un maglione pulito, di lana, mezzo sformato. Mi stesi sul letto col proposito di dormire giusto un po’. E difatti dormii giusto un poco, perché poco dopo suonarono il citofono. Guardai la sveglia sul comodino, non era neanche mezzogiorno. Ryanair infilò la testa dietro la porta e ribadì con un suono di gola che dovevo alzarmi di lì.
Il citofono suonava come suonavano le donne, non un suono lungo, deciso, ma un suono breve e tremolante, ripetuto per due o tre volte a distanza di trenta secondi. Era l’indecisione a tradirle, ogni volta. Contemplai tutte le ipotesi e le mandai tutte in frantumi non appena la voce si produsse in un colpo di tosse introduttivo, poi disse:
« Ryan, sono Cassandra. Posso salire? »
Contemplai di nuovo un rapido inventario di ipotesi. Morte improvvisa, accidentale, causata da un cortocircuito del citofono all’atto di alzare la cornetta. Casa vuota, Ryan al lavoro, solo il gatto rimasto a percorrere le desolate stanze dell’appartamento. Fare l’offeso, per qualche imprecisato motivo. Simulare una malattia rara e contagiosa.
« Certo, vieni su. »
Abitavo al quarto piano e quando Cassandra raggiunse il pianerottolo, arrancando, perché l’ascensore non funzionava, non mi sembrò così felice di essere venuta. E, visto che io non ero felice di vederla, almeno i nostri umori si abbinavano.
« Entra pure. »
Cassandra entrò senza pensarci due volte. Pulì le scarpe, un paio di scarpe col tacco basso, grigie, sul tappetino all’ingresso, e cercò un gancio per appendere il cappotto. Capii che aveva intenzione di restare.
« Dai a me » dissi, togliendoglielo dalle mani. Lo appoggiai sul divano, stropicciato.
« Ho pensato che ti devo delle scuse » esordì, guardandomi negli occhi e senza cerimonie. Era ancora in piedi tra il corridoio d’ingresso e il salotto e io le facevo cenno di accomodarsi.
« Per cosa? »
« Per averti detto quelle cose, ieri sera. »
« Quali cose? »
« Di Irene. »
Era solo ieri sera? Mi sembrava trascorso così tanto tempo, tanti sentimenti fa. Avevo già dimenticato la parte di Cassandra in tutto questo. Non c’era proprio niente di cui dovesse scusarsi.
« Ho pensato che per scusarmi potevo invitarti a pranzo » aggiunse, mentre io tacevo.
Rimediare a un delitto con un altro delitto, era questo il candore di Cassandra. Le invidiai l’incapacità che aveva di sentirsi sgradita. Potevo sopportarlo? Ero così coraggioso? Qualche ora intera in compagnia di Cassandra. Non era più di quanto potessi soffrire?
« A essere sinceri non ho tanta fame. Sono stato male di stomaco » e non era neanche una grossa bugia.
« Ah. »
Sembrava sinceramente dispiaciuta. Una ruga le increspava la fronte, le sopracciglia erano crollate e lo sguardo si era abbassato, appuntandosi su una mattonella che doveva essere particolarmente simpatica. Era davvero incapace di nascondere qualsiasi emozione. Non farti commuovere, mi dissi. Non farti commuovere o dovrai sorbirtela per un’altra ora almeno. Sii ragionevole, non farti prendere la mano dall’umanità. Inventa una scusa migliore.
« Non ho voglia di uscire. Però posso prepararti qualcosa da mangiare, se ti va. »
Dieci punti sul tabellone della cortesia. Venticinque su quello dell’imbecillità.
Cassandra si illuminò tutta, scacciò le nubi che si erano addensate sugli zigomi e mi fissò ad occhi spalancati. Ero stato persino più gentile di quanto si aspettasse.
« Che mi prepari di buono? »
« Eh, fammi vedere che c’è in frigo. »
Non c’era niente, quasi niente, in frigo. Una mozzarella, residui di affettato, un rimasuglio di insalata che aveva visto giorni migliori, due uova.
« Che mi dici di un’insalatona? »
« Che la adoro! »
Fossero anche stati croccantini per gatti, sono certo che li avrebbe adorati lo stesso.

La guardai mangiare la sua insalata a grosse forchettate, le guance piene e i denti che sgranocchiavano senza far rumore. Aveva una bella mascella, una bella linea. Mangiava la sua insalata con lo stesso entusiasmo infantile con cui, poco dopo, doveva avventarsi sulla bustina del preservativo, cercando di scartarlo senza far rumore, e fallendo miseramente.
Nella luce del pomeriggio che filtrava dalle tapparelle semichiuse sembrava davvero una bambina inesperta, ginocchioni sulla fodera del letto, impegnata in una difficile operazione chirurgica. Era commovente e ridicola a un tempo.
« Dai a me. »
« No, voglio farlo io. »
Premeva e spremeva e sventolava il suo giocattolino, un po’ ridendo e un po’ sbuffando, con ancora addosso il reggiseno. Era così goffa da essere eccitante. Questa immagine dovevo conservare di lei, aggrappata coi denti alla bustina del preservativo, i denti piccoli e acuminati e bianchi nel buio. Era una donna meravigliosa. A essere onesti, lo è ancora.
L’ho rivista il mese scorso, ancora bella come ricordo. È sposata a un chirurgo plastico e, sebbene sembri ingrigita e fiacca e la pelle adesso le faccia le grinze sotto il mento, una gravidanza e un ciclo di chemio non l’hanno sfibrata al punto da renderla poco attraente. Ha conservato tutta la sua parlantina e io continuo a trovarla piuttosto antipatica. Tuttavia, quando ripenso a questa scena, mai che non mi si dipinga un sorriso e allora sono propenso a giudicarla più teneramente. Non abbiamo parlato di Irene. Sanno bene come evitare l’argomento e io non manco mai di ringraziarli.
Afferrai un ciocca dei suoi capelli e me la portai alla bocca. Avevano un sapore forte, un profumo di donna che sa di piacere. E Cassandra sapeva esattamente come piacere, quando scosse i capelli e si sdraiò sul mio petto dicendo:
« Ecco fatto. »
Sapevo cosa stavo facendo e allo stesso tempo non lo sapevo affatto. Non mi importava. Era una cosa da niente, una cosa volgare con una donna volgare, per passare un pomeriggio. Ma non m’ero mai sentito così in colpa, prima. Non m’ero mai sentito così in colpa come quando feci saltare il gancetto del reggiseno e le infilai una mano tra le gambe, ben sapendo che non era quel seno che volevo baciare e neanche quelle le gambe di cui volevo tastare il tenero angolo in ombra.
Chiusi gli occhi per immaginare di essere altrove e che non c’era lei. Mi figurai un seno bianco, piccolo, con i capezzoli come due bottoncini e una bocca ancor più piccola ed estremamente silenziosa, da cui veniva solo ogni tanto un ansito di sorpresa. E due occhi neri che si rompevano nel buio, il bianco sparato in tutte le direzioni nel momento in cui la facevo mia e mia per sempre. Solo una volta doveva capitarmi di tenerla così stretta in un abbraccio. La mia Irene, così bianca, così bagnata.

Di Chiara Pagliochini

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