martedì 23 agosto 2011

La cosa che più mi sgomenta, che fa montare il pianto nella gola, è che io so (so, nonostante le rassicurazioni) che là fuori non c'è e mai ci sarà qualcuno per me, qualcuno, per usare parole che ho già scritto, le cui infermità combacino intimamente con le mie, qualcuno che capisca senza che parli, che ricomponga il mio viso giorno dopo giorno, ora dopo ora, lottando contro le sue minacce di disfacimento. 
Una persona così non può essere, perché se esistesse sarebbe uguale a me e, giorno dopo giorno, ora dopo ora, dovremmo lottare insieme, l'uno per l'altra, e finiremmo per odiarci, consumati dal nostro egoismo. 
E quindi, ecco, lo so.

lunedì 22 agosto 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap.6

Numbers by ~tay-illustration
Mi costa ammettere che il diario di Irene fu profondamente deludente, almeno sotto certi punti di vista. Confesserò che nutrivo grandi aspettative in merito. Per secondi, per minuti e poi ore me lo passai incredulo da una mano all’altra, come per assicurarmi che ci fosse davvero, che non l’avessi inventato di proposito solo per soddisfare un mio cruccio. Non l’avevo inventato, tuttavia non avevo il coraggio di aprirlo. No, non lo aprivo, lo soppesavo, lo spiavo da strane angolature, lo poggiavo sui piani più disparati per osservarlo da tutti i punti di vista, un po’ come un contadino che avesse trovato un idolo di legno in un campo.
Finché non l’avessi aperto, tutte le ipotesi sarebbero state credibili. Mi vedevo davanti la mano di Irene, la penna, stretta senza troppa forza né convinzione. O forse proprio con forza e convinzione, proprio come aveva impugnato il coltello. Chissà cosa scriveva. Chissà se disegnava.
A vederla, si sarebbe detto che scrivesse, piuttosto che disegnare. Forse metteva per iscritto tutto quello che le sue labbra non dicevano. Tutte le smorfie, i silenzi, gli sguardi tesi trovavano su quelle pagine una giustificazione e uno sfogo. Forse ricopiava frasi di libri letti. Forse scriveva lei stessa, versi, aforismi, racconti. Certo, era un diario troppo piccolo perché potesse usarlo per scrivere “qualcosa di serio”, ma era pur sempre un punto di partenza. E poi, che ne sapevo io di cose serie?
Ma magari disegnava, magari mi ingannavo. Disegni sottili sottili, farfalle, volute o fiamme, ghirigori tracciati con la biro, la stilografica, gli acquarelli. O forse grottesche caricature, caricature di noi dell’agenzia, i nostri volti goffi e gonfi e mostruosi ai suoi occhi. Avrei scoperto il mio e provato raccapriccio. L’infinito delle possibilità mi incantava ed io mi divertivo a sguazzarci dentro.
Ma alla fine lo aprii. Decisi che glielo dovevo. Sedevo sul divano, composto, Ryanair che mi puntava gli occhi addosso dall’angolo della sala. C’era tensione nell’aria. Il diario giaceva sul tavolino a pochi centimetri dalle mie ginocchia, nero contro il vetro. Mi chinai, lo presi, tenni l’elastico tra le dita. E poi con un sospiro o un’esitazione, come quando si spoglia una donna e le si fa scivolare la bretella del reggiseno o l’orlo delle mutandine, spogliai quel diario dal nugolo infinito del suo poter essere. Accettai che fosse una cosa sola, per sempre.
Ecco, il diario mi deluse. La realtà delude sempre.
Giusto poche pagine scritte e neanche troppo fittamente. Sulla prima, nei campi predisposti, nome, indirizzo e numero di telefono. Avventata, la nostra Irene. O giudiziosa, fa lo stesso? Conoscevo la via in cui abitava e il numero di telefono era molto bello, con tanti otto e tanti tre, rotondo come lei non era. Quanto al nome era sempre quello, ma mi colpiva che all’improvviso le stesse così bene.
Seconda pagina, una lista della spesa. Salviette struccanti. Tonno. Latte. Gomme da masticare. Panna da cucina. Detersivo piatti. Mollette da bucato. Forse era stata scritta sotto la dettatura di una madre previdente o forse Irene viveva da sola e da sola cucinava, lavava piatti, stendeva panni. Forse non comprava quelle cose per sé, ma faceva spesa per un’anziana vecchietta che non poteva scendere le scale e che le allungava dieci euro più del dovuto. Come si poteva stabilirlo?
La grafia, altra nota stonata. Per niente aggraziata o obliqua o ricercata. Uno scarabocchio, piuttosto, senza curarsi di essere leggibile. Forse perché nessuno avrebbe dovuto leggere quella lista o forse perché lei stessa non si curava di essere leggibile per gli altri. Una persona che scrive per sé e non teme giudizi, perché non li cerca. Una persona sciatta. Una persona frettolosa, in ritardo. Come si poteva uscire da questo intrico senza sentirsene risucchiati?
Ma furono le pagine seguenti a sgomentarmi, gettandomi nel panico. Pagine e pagine di numeri. Non erano equazioni e neanche sequenze per passare il tempo, non erano i sudoku del Mishima. Erano prezzi, annotati con scrupolosità e ordine, uno sotto l’altro, e accanto la dicitura del prodotto cui corrispondevano.
Maglia da Benetton, 29.90.
Ombrello, 3.
Gomma da cancellare, 1.20.
Caffè, 0.80.
La campana di vetro, 9.
Pile, 5.75.
Crema viso, 7.50.
Fiori secchi, 10.
Sali da bagno, 6.40.
Era sorprendente che una persona potesse permettersi di essere tanto pignola e al tempo stesso non curarsi affatto della propria grafia. Allora nulla le importava davvero. Queste cifre erano soltanto per lei. Ma a cosa servivano e perché le annotava con un puntiglio da ragioniere? In fondo a ogni pagina tirava sempre una riga, e faceva la somma. Sembrava che la sua vita fosse tutta un accumulare oggetti e acquisti e cartellini e scontrini. Nient’altro. Quelle cifre, quelle somme erano per lei di vitale importanza. Non ne vedevo il motivo.
L’ultima pagina, l’ultima di quelle poche, mi tolse il sonno. In alto, al centro, campeggiava un cerchio, in cui era racchiusa la dicitura, “600 euro”. Al di sotto Irene sottraeva, invece di sommare.
-  Soluzione finale, 100.
-  Lezioni, 30 x 7 = 210.
-  Affitto, 150.
-  Spese generiche, 140.
Ed ecco che il seicento si svuotava di tutta la sua grazia e pienezza, crocefisso da quei meno, quei meno tracciati con forza, a bucare la pagina, cattivi. Quei meno che sembravano togliere qualcosa non soltanto al numero in alto, ma a Irene stessa, lentamente, lentamente, dei numeri vivi.

Nel dormiveglia capii cosa mi avesse tanto turbato. Avevo cercato parole e avevo trovato numeri. Avevo cercato una storia, qualcosa che raccontasse di lei, qualcosa che me la facesse conoscere, e avevo trovato freddi dati, oggettività. Avevo cercato Irene senza trovarla. Ma non era tanto questo.
Nella mia personalissima idea un diario serviva per appuntarci qualcosa, qualcosa di personale, un aneddoto, un fatto, una tristezza. Per anni Raffa aveva compilato il suo alla luce della lampada. Lo teneva sotto il cuscino, ci dormiva sopra perché le mie dita non potessero raggiungerlo. Avevo sempre voluto leggerlo, ma non c’ero mai riuscito. Ogni giorno inventava nuovi nascondigli: sopra l’armadio, sotto una pila di maglioni, nella credenza, confuso tra altri libri. Raffa mi aveva nascosto il suo diario perché aveva qualcosa da raccontare, qualcosa di segreto e suo che non voleva che sapessi. Ed io, che capivo perfettamente le sue necessità, ne ero tanto più incuriosito. Ma Irene non nascondeva il diario, Irene non aveva niente da raccontare. Una persona che non scrive è una persona che non spera.
Ryanair, nel buio, comprese che m’ero rattristato. I suoi occhi gialli lampeggiarono. Con un balzo mi fu accanto sul letto e si accoccolò contro il mio torace.

Il giorno dopo mi convinsi a fare quel che andava fatto. Pranzai in un bar, in piedi accanto a Greta, un sandwich con tonno e pomodoro. Lei mi sorrideva nel solito modo rassicurante e ogni tanto si puliva le briciole dalla camicetta. Mi raccontava di un tizio che era andato ubriaco a urlarle sotto casa.
« Il tuo fidanzato? »
« Macché, non ho proprio idea di chi fosse. Secondo me aveva sbagliato palazzo. »
« E che hai fatto? »
« Niente, l’ho lasciato strillare. Dopo un po’ s’è stancato e se n’è andato. »
« Che paura. »
« No, paura no, solo un po’ di tristezza. »
« E perché? »
« Perché l’unico uomo che mi abbia mai urlato sotto casa non urlava per me. »
Si strinse nelle spalle. Io mi sentii imbarazzato. La tristezza mi imbarazzava.
Le spiegai che dovevo sbrigare una commissione e che sarei tornato in ufficio per tempo. Lei disse che sarebbe rientrata un po’ prima, doveva far sparire una serie di incartamenti dalla scrivania.
« Affari loschi. »
« Loschi, assolutamente » sorrise.
Con il diario che ballonzolava allegro nella tasca interna della giacca, mi incamminai verso Via dei Celesti. Lo sentivo scottare attraverso la stoffa, come se rifiutasse la mia presenza, fiutando quella del suo vero proprietario. I numeri, con le loro aste e picche, mi artigliavano come una falange di formiche. Ma dovevo resistere, dovevo arginare l’irritazione. Il diario voleva tornare da Irene: era giusto, pietoso, comprensibile.
Il numero 33 era una casa a due piani, con un balcone scrostato. Dava sulla strada e sulla strada guardavano tutte le finestre, sia quella lunga e stretta di una cucina, sia quelle delle camere al piano di sopra. Non c’era un giardino, non c’era un cancello. Solo un campanello di ottone bisunto accanto alla porta. Non leggevo Irene in nessun luogo.
Mi feci coraggio e suonai. Non sapevo chi aspettarmi dall’altra parte: un marmocchio, un genitore, un marito, Irene stessa. Nulla di tutto questo. Aprì una ragazza che non era Irene. Aveva gli occhi gonfi di sonno e i capelli legati, indossava un pigiama bianco con una grossa mucca stilizzata. Nel complesso mi dispiacque per lei che avesse aperto. Capii che non aspettava me, perché il suo sguardo si fece più duro e insieme più vergognoso. Mi costrinsi a non guardare le sue ciabatte, per non crearle ulteriori fastidi.
« Chi cerca? » domandò, vagamente seccata.
« Cercavo Irene. »
La ragazza si voltò verso l’interno. Il suo strillo riecheggiò attraverso la cucina.
« Potevi anche dirmelo che aspettavi qualcuno! »
Non risposero. O, se lo fecero, risposero a voce troppo bassa perché potessi capire.
« Un attimo » disse quella, e mi lasciò sulla porta senza salutare.
E quando vidi Irene camminare verso di me dalla stanza attigua mi parve tutto troppo strano per essere vero. Irene che camminava verso di me invece di fuggire. C’era da scriverci un libro.

Mi guardò senza vedermi, o mi vide senza guardarmi. Gli occhi erano i soliti, fuggitivi, serissimi. Non indossava un pigiama e non aveva i capelli legati, ma era chiaro che non fosse vestita per uscire. Indossava una tuta morbida, nera, e scarpe di tela. Era struccata, senza rossetto. Mi parve più umana.
« Cosa vuoi? » chiese, in una sola emissione di fiato, con tanta veemenza da farmi trasalire. Era evidente che la mia presenza la imbestialiva.
« Sono…Ryan, dell’agenzia » risposi scioccamente.
« Certo, lo so chi sei. »
« Sono venuto a…riportarti questo » dissi e infilai la mano nella tasca della giacca per prendere il diario. Esitai un istante, poi glielo porsi. Lei lo prese senza degnarlo di un’occhiata.
« Non dovevi scomodarti » ringhiò.
« Volevo solo…essere utile… »
« Potevi riportarmelo a lezione. »
« Certo, ma… »
« Non mi piace che si ficchi il naso nei miei affari. »
« Lo immagino, però… »
« L’hai aperto? » mi fissò, un lampo di indignazione « Certo che l’hai aperto. Ci hai trovato qualcosa di carino? Immagino che per voi sono una specie di puzzle, no? Sempre lì a parlare di me. Cassandra bocca larga. Simpatici. Molto. »
« Noi non… »
« Lo so cosa dite, non mi interessa. Non vi riguarda. Non sono lì per avere a che fare con voi. »
« Ma… »
« È bello che la gente mi riservi tanta attenzione proprio ora che non ne ho più bisogno. Comico. Strani scherzi del destino. »
« Volevo solo aiutarti » mi sforzai « Solo aiutarti. »
« Lo so. »
E all’improvviso fu come se qualcosa si rompesse. Una crepa lungo un vaso o una maschera che si riga, il gessetto che stride sulla lavagna. Si avvertì quel fischio per tutto il mondo e trasalimmo insieme. L’espressione di Irene si addolcì. Più triste, meno corrucciata.
« Ti ringrazio, comunque. Ne avevo bisogno » alzò il diario e finalmente lo guardò « Non posso stare senza. »
« Anch’io impazzirei senza la mia agenda di appuntamenti. »
Non avevo un’agenda di appuntamenti, ma a chi volete che importasse?
« Sì, certo. Se c’è qualcosa che posso fare per sdebitarmi… »
« No, no, non preoccuparti. È stato un piacere. »
Come una pugnalata, aggiunsi.
« Ci vediamo in giro, allora » disse, come se fosse una persona normale, vestita da persona normale, con la faccia di una persona normale. Ma era Irene, stava recitando, era chiaro. Stava sforzandosi di apparire civile, di fare quel che l’etichetta imponeva. Anni e anni di educazione dovevano esserle confluiti nel sangue tutti assieme.
« Certo, allora ciao. »
« Ciao, grazie ancora. »
Chiuse la porta. La accostò, anzi. Piano perché non sbattesse. Non mi rivolse altri sguardi. Il suo compito di donna qualunque era stato assolto, la rabbia era rientrata negli argini, la persona aveva prevalso sulla cosa. Eppure, per un momento, avevo preferito l’altra Irene, la furente, gli occhi accesi, l’animale in gabbia. “Immagino che per voi sono una specie di puzzle, no?”, lo era, lo era sicuramente, e ogni giorno quel puzzle appariva più caotico. Non un puzzle di immagini, non un tramonto, una Tour Eiffel, non un puzzle di parole. Un puzzle di numeri e somme e sottrazioni, di virgole e punti, di merci sconclusionate. Dov’era, Irene? Dov’era in fondo al mucchio?

Di Chiara Pagliochini

domenica 21 agosto 2011

La cinghia intorno al cuore

Il bambino che una volta...Non te l'ho raccontato, vieni, mettiti comoda. Il bambino che a otto anni cercò di uccidersi in cantina - suicidarsi, lo chiamano - con la cinghia sottile e "multiuso" di suo padre. Siccome nessuno gli aveva spiegato come si fa a morire, si strinse la cinghia con forza intorno al cuore, ah, ah, si stese sul pavimento e attese la morte, in silenzio. Tutto questo perché aveva visto un vicino, un certo Surkis, che in canottiera, con la schiena pelosa e una sigaretta in bocca, affogava due gattini in un secchio di latta. Così, tanto per fare. E mentre parlava con il padre del bambino, le bolle salivano. Dopo essere rimasto a lungo sdraiato sul pavimento della cantina, un tempo infinito come non gli era mai successo, vedendo che non era morto, il bambino si alzò e fece ritorno a casa. Si sedette in silenzio, stremato, a cenare con sua sorella e i genitori. Li sentì conversare, fece tutti i gesti di un bambino di otto anni e capì - vagamente, ma capì - che, anche se fosse morto, loro non l'avrebbero mai scoperto. E' lo stesso bambino che a dieci anni lesse Zorba il greco perché un'insegnante che amava aveva parlato del libro con entusiasmo e con le lacrime agli occhi. Lui non aveva mai visto lacrime come quelle, né in un bambino né, tantomeno, in un adulto. Erano lacrime di struggimento, una parola che non conosceva e che non avrebbe mai osato scrivere se non l'avessi scritta prima tu. A casa sua non c'erano libri. I libri sono un ricettacolo di polvere, sono sporcizia. Il loro posto è nella biblioteca della scuola. Allora rubò dei soldi dal portafoglio di suo padre, il portafoglio sacro, e per la prima volta in vita sua andò a comprarsi un libro. Lo lesse e non capì molto. Non capì nulla, a dire il vero, se non che era più bello di quello che conteneva, perché ruggiva di vita e lo chiamava per nome. Nel suo grande entusiasmo lo divorò per intero. Ci mise quasi un anno, lo terminò esattamente il giorno del suo undicesimo compleanno, come segreto regalo a se stesso. 
Non è piacevole, sai. Di nascosto, a prezzo di tremendi mal di pancia che nessuna medicina poteva sconfiggere, finiva una pagina e la tagliava in pezzi piccoli e uguali, che masticava con pazienza e poi ingoiava. Una pagina al giorno, con intervalli di tre ore tra un pezzo e l'altro. Un rito preciso e meticoloso. [...] Trecento e più pagine si masticò, per soddisfare il suo bisogno carnale di parole. 


Che tu sia per me il coltello,
David Grossman


sabato 20 agosto 2011

Un viaggio verso nord

C. Monet, La stazione di St. Lazare, studi 1876-1877

Signorina,
detto fatto: ho preso un treno verso nord. Gliel’avevo detto, si ricorda?
Sono arrivato presto alla stazione. Erano le cinque, non c’era ancora nessuno. Il capostazione sonnecchiava su una panchina, il berretto contro il petto, il fischietto che penzolava dal taschino. I binari erano vuoti, silenziosi e lunghissimi.
Mi sono detto che ci potevo riuscire. Ho chiuso le mani a pugno, ho chiuso gli occhi e mi sono urlato dentro: urlare fuori non potevo, non volevo svegliare il capostazione.
La signorina dei biglietti mi ha guardato con l’occhio lucido, forse chiedendosi dov’è che stessi andando, una valigia appena. Gliel’ho detto e lei ha sorriso. Le ho teso la banconota un po’ irrigidito. Non sono abituato ai sorrisi.
Sono rimasto ritto sulla banchina, la valigia posata per terra, il biglietto congestionato tra le dita. Pensavo che stavo per raggiungerla, pensavo a lei, signorina. E lei, stava pensando a me?
Non credevo che l’avrei fatto davvero. Solo ieri pomeriggio, se qualcuno me l’avesse detto, gli avrei riso in faccia. Ma i panni sono entrati nella valigia da soli, il gancetto è scattato, il colletto della camicia s’è inamidato di sua volontà. Percorrevo la camera a grandi falcate, pensando a lei, a lei che si è impadronita di me, che ha piegato il mio spirito irriducibile. I miei erano i passi di un’anima in pena. Quei passi li ho ripetuti stamattina, sulla banchina, col vuoto dei binari davanti, dritti dritti che non finiscono mai. Così le ho scritto questa lettera, signorina, che imbucherò al prossimo cambio. Se sono fortunato, sarà lì domattina, prima ancora che ci sia io. L’avvertirà della mia venuta.
Cosa non darei per essere con lei nel momento in cui dispiegherà la carta, per essere le sue dita, le sue falangi, le sue unghie, per essere le sue labbra che si piegano a una smorfia. Ecco, signora, se potessi essere le sue labbra allora saprei, saprei che cosa pensa di questo viaggio verso nord, saprei se il sorriso che m’accoglierà sarà studiato e bizzoso oppure un autentico moto di gioia. Vorrei, quanto vorrei che lo fosse, ma non posso imporglielo, come non posso imporle la mia venuta. Tutto ciò che posso fare è metterla in guardia. Da cosa? Da me, dal mio viaggio verso nord, dalla mia infelicità che cammina.
Il treno è arrivato con un fischio lungo, che è risuonato tra i binari, nell’androne della stazione, svegliando l’uomo sulla panchina, spandendo intorno un profumo. Somigliava al suo profumo, signorina, lo stesso di cui cosparge la carta da lettere, lo stesso che impregna le mie tende e riverbera dalle pareti della cucina. Mi sono sentito dentro una gran forza.
Con un piede ancora sul predellino, mi sono voltato indietro, per capire che cosa lasciavo. Non lasciavo niente, signorina. Ho le sue lettere e tutti i miei vestiti nella valigia. Sono partito.
Il primo vagone era deserto, mi sono seduto accanto al finestrino. Ho sistemato il bagaglio sulla rastrelliera. Non fumo, eppure ho fumato. Ero un altro stamattina, ero l’uomo che veniva da lei. Le piacciono gli uomini che fumano? Non sapevo come tenere la sigaretta: mi sentivo goffo, disperatamente buffo. Per fortuna che nessuno mi guardava. Non c’era nessuno.
Lo sa com’è quando si è soli? Deve saperlo, ne abbiamo parlato tante volte. Quando si è soli, si è come me accanto al finestrino che fumo. Si prova a ingannare se stessi che si è coraggiosi, che non si teme quel paesaggio che scorre, che non si ha paura di lei, signorina, e del suo sorriso al mio arrivo. Si è soli e bugiardi, si è umani. E se anche non c’è nessuno che ci guarda su quel treno, tuttavia ci siamo sempre noi e noi ci guardiamo, e noi sappiamo di mentire. Noi sappiamo che non siamo noi quelli che fumano nel vagone: è il simulacro di chi vorremmo che fossimo.
A ogni stazione saliva qualcuno, prima due o tre, grigi pendolari mattutini, coi baffi lustri e la cravatta ben allacciata; poi studenti, turisti, ufficiali, persino un dottore. Ho pensato che fosse un dottore: aveva mani da chirurgo. Si sedevano cercando tutti il finestrino, il loro posto al sole, una salvezza. Lo sa perché si cerca il finestrino? Per fingere, signorina, fingono tutti. Pur di non guardare chi abbiamo di fronte, preferiamo confonderci col paesaggio tutto uguale, col mondo che va veloce, troppo veloce perché lo si possa fermare ed amare. Non ci si vuole fermare, non vogliamo amare chi abbiamo di fronte. Sarebbe troppo difficile ammettere che siamo soli e riconoscere nell’altro la nostra stessa solitudine. Sarebbe troppo difficile abbracciarci. Ma lei, signorina, io l’abbraccerei volentieri se me lo permettesse. Non solo l’abbraccerei, ma prenderei il suo mento tra le mani e la bacerei, bacerei il suo sorriso forzato pur di mettermi a tacere la coscienza.
Ora che sa, si prepari. La bacerò, signorina, la bacerò avventato quanto una donna e forse con più passione. Farò tutto quello che ho sempre voluto e non ho mai potuto fare. E se non lo accetta, se non si abbandona al mio progetto, sarà meglio che non venga alla stazione. Soffrirei di meno che a vedermi rifiutare la sua bocca. Di lei non m’importa, che il suo sorriso sia vero o finto, che lei voglia o meno il mio bacio, la bacerò lo stesso. Non si nega a nessuno un ultimo desiderio.
Sono pazzo? Lo credo. Io faccio tutto da solo e voglio farci entrare lei, voglio metterla al corrente e turbarla. Che conta? Non sono io che lo faccio, è il mio simulacro in viaggio verso nord.
Il controllore ha strizzato gli occhi per leggere la data sul mio biglietto. Lo ha ferito con l’obliteratrice. Quello faceva sangue. Quel forellino, signorina, era proprio il segno che stavo venendo da lei. Sciocco e disperato, sto venendo da lei.
Ho nascosto il biglietto per non doverlo più vedere, cacciandolo in fondo al portafogli. Mi faceva pensare a cose bellissime e terribili. Bellissime, perché finalmente io la vedrò e le mie dita potranno sfiorarla come le parole hanno fatto finora. Terribili, perché le dita sono terribili, più sincere e più definitive delle parole: non le si può mai ritrattare. E, anche se le si ritrae, resta l’orma della carezza sulla guancia. Una carezza non voluta scotta. Bellissimo e terribile è questo mio viaggio verso nord. E non posso figurarmi cosa accadrà davvero. Non posso sapere cos’accadrà dopo che le mie mani avranno ripiegato la lettera e l’avranno sospinta nella fessura della cassetta. Ma dovevo scriverle, capisce? Volevo che lei capisse che razza di persona sono. Uno che s’inganna, ecco, uno che confonde i sogni con il vero. Questo treno potrebbe anche portarmi a sud, per quanto poco ne so del mondo, del paesaggio là fuori, di lei, signorina. Cosa in fondo so di lei? Ma quando so che voglio abbracciarla e baciarla, conta davvero tutto il resto? Conta quello che vuole lei? No, signorina, sono abbastanza egoista da decidere per entrambi.
Ecco, il controllore annuncia che la prossima fermata è la mia. Dovrò cambiare treno, binario e posto nel vagone. Dovrò imbustare questa lettera e spedirla. Nell’angoscia, ho immaginato la cosa che più di tutte mi spaventa. Immagino di scendere, domattina, e di vederla. Lei sarà ritta sulla banchina, la valigia posata per terra. Sarà rigida, coi capelli spartiti in mezzo, e ben rasata. Avrà i miei occhi, signorina.
Dovunque andrò, non posso sfuggire a me stesso. E questo viaggio non è che l’ennesima farsa, una bambinata, un capriccio. Per quanto a nord io vada, non farò mai un passo tanto lungo da raggiungerla, signorina. Dovunque andrò lei avrà sempre il mio volto e io vorrò fuggire e ingannarmi di nuovo, raccontandomi che lei è più avanti, che mi precede in questo viaggio verso nord. Mi racconterò che mi ama, ma sono io che non la amo, Vita mia.  

Di Chiara Pagliochini

venerdì 12 agosto 2011

- Ma è vero che hai letto tantissimi libri?
- No, è una leggenda.
- E' vero che scrivi?
- Mh, ci provo.

L'aspirante scrittore più scoraggiante del mondo. 




giovedì 11 agosto 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap. 5

Good Evening Barn Swallow by ~Kaleioki

Non ci volle molto per prendere confidenza con la gente, all’agenzia. Certo, c’era chi andava e chi veniva, così non era mai facile abituarsi alle facce. Un solo incontro poteva fare la differenza tra una faccia nota e una che avresti scordato.
Si poteva pensare che fossimo tutti persone scorbutiche, restie ad allacciare rapporti, tanto più in un ambiente e in un momento simili. In realtà, era l’opposto. Quando non si ha niente da perdere, si è più che ben disposti a parlare di sé.
Lo sapeva Cassandra, che conobbi un giorno davanti a un cappuccino, in una tregua dalla lezione sulle teorie ultramondane.
« È quasi peggio della lezione di harakiri » bisbigliò, per non farsi sentire dagli altri « C’era anche lei? È stato orribile. E quando ci ha costretti a sgozzarci! »
Le ricordai che eravamo nella stessa fila. Lei sorrise e disse che aveva troppa paura per notarlo.
« In ogni caso, sgozzarmi è l’ultimo dei miei pensieri. È antiestetico, non trova anche lei? E non avrei la mano ferma, finirei per macellarmi. »
Parlava alzando le spalle. Lo faceva di continuo. Alzava le spalle come se fosse tutto troppo difficile da capire.
Io avrei preferito intingere il naso nel cappuccino piuttosto che ascoltare le sue lagne, ma Cassandra non sembrava in vena di demordere. Né la mia mancanza di entusiasmo la sfiorava. Avrebbe seguitato a parlare per ore, di qualsiasi argomento, se solo la pausa fosse durata più a lungo. E anche quando le indicai l’orologio e dissi che la lezione ricominciava, non seppe trattenersi dal cianciare qualcosa sulle sue personali idee di aldilà. Ma credo che fosse abituata a non essere ascoltata o creduta, visto che non badava minimamente a me. Era come se ripetesse dei discorsi già fatti o premeditati o universali, qualcosa di cui tutti potessero constatare l’evidenza o che riguardassero anche te, solo che spesso riguardavano lei sola.
« …e poi mia sorella ha avuto un tumore al seno. Proprio l’anno scorso, sa? Le hanno asportato la mammella destra. Ho cercato di convincerla a farsi asportare anche l’altra, ma non vuole darmi retta. Dice che i medici sono fiduciosi… Come se ci si potesse fidare di loro. Anche mia madre ha avuto il cancro, e è morta. E io ho buone probabilità di svilupparne uno. Ma lei crede che questo importi ai medici? Che ne sanno loro cos’è la paura? Ho fatto tutti gli accertamenti del caso, ovvio, e loro dicono che non c’è motivo di allarmarsi, che sto bene, è tutto a posto. Sono andata dritta da uno e gli ho detto, voglio fare la mastectomia preventiva! Crede che mi abbia presa sul serio? Oh no, per niente, ha letto la cartella e visto le ecografie e il resto, ma niente. Niente, le dico. Da non credere. Tu stai per morire e loro dicono che sei l’uccello del malaugurio. L’uccello del malaugurio, come se fossi una pazza paranoica, guarda te! »
E parlando alzava le spalle e intanto si fregava le mani. Che la gente non le desse retta era il suo chiodo fisso, dopo la fobia di essere malata. Quando mi consigliava di prendere un decaffeinato ed io prendevo un espresso, lei diceva:
« Tanto nessuno mi dà retta. »
E così quando contestava la scelta del sapone per il bagno
« Ma non c’è scritto Clinicamente Testato! »
o stentava a infilare la testa in una corda
« Chi ha dato la cera al pavimento? Bella cosa, c’è da scivolare e rimanerci appesi! »
Tanto nessuno mi dà retta, diceva sempre, di qualunque cosa e con chiunque parlasse. E finiva che nessuno le dava retta davvero.
Altra faccia nota era Eugenio, nelle immancabili giacca e cravatta. Solo dopo due o tre volte facevi caso che giacca e cravatta erano sempre le stesse, e per giunta sempre più lise.
« Lo conosco di fama, quello là » sussurrava Cassandra, malignetta « Aveva una casa con piscina e campo da golf e guardalo adesso. È nato con la camicia, ma gli è rimasta quella sola. Il resto se l’è giocato al videopoker. »
Eugenio parlava poco e a monosillabi. Aveva la faccia grigia e un’espressione tirata, concentrata, come se cercasse sempre una via di fuga. Solo quando, alla lezione di impiccagione, lo avevo visto ficcare il collo dentro un capestro m’era parso un po’ sollevato.
« Mia moglie non sa niente » mi disse una volta, guardingo « Non sa niente e non saprà niente, fino a quando è tutto sistemato. »
E dopo?, pensavo io, immaginandomi sul collo quella montagna di debiti. Era per questo, credo, che Eugenio il collo se lo voleva tirare. Ma quando parlavo con lui o lo guardavo o ne sentivo parlare, non potevo fare a meno di disprezzarlo, per quel suo capriccio di volersi ammazzare e scaricare così la coscienza. Non sapevo, allora, quanto caramente egli amasse la sua Francesca e quanto poco fondato fosse il pettegolezzo di Cassandra. All’epoca non vedevo che lo squallido uomo col vizio dell’azzardo, e mi faceva orrore. È solo da poco che ho scoperto della fabbrica di sapone, del fallimento, degli operai mezzi licenziati e mezzi in cassa integrazione. Tutta una questione aziendale di sovrapproduzione e scarsa domanda, costi troppo alti e investimenti sbagliati. Il videopoker non c’entrava e Eugenio non sarebbe stato il primo né l’ultimo che si appendeva a una corda dacché c’era la crisi. Li vedevi al telegiornale un giorno sì e l’altro pure, e c’era sempre quella strana parola astratta – la crisi – che per te significava solo l’aumento della benzina e per loro, invece, tutto un mondo.
Ma all’epoca, ecco, non sapevo niente di tutto ciò e nemmeno avevo un minimo di consapevolezza. Mi rappresentavo la scena in una successione di inquadrature grottesche da cui traevo la massima soddisfazione. Immaginavo sua moglie, povera donna ricca, entusiasta ed ignara, regina della carta di credito. Un bel dì il commesso di Gucci gliel’avrebbe restituita con aria mortificata e la signora, tutta spaventata, avrebbe infine domandato a se stessa:
« Ma quanto cazzo costano queste scarpe? »
E il signor Eugenio, la coscienza pulita, il collo tirato, sarebbe penzolato come un prosciutto nel suo completo di giacca e cravatta, ridicolo, abominevole.
« Ma Ryan, lei è troppo severo! » diceva talvolta Cassandra, scrutandomi con aria truce « Chi è lei per giudicare se uno vuole ammazzarsi? »
Giusto, non ero nessuno, neanche uno che volesse ammazzarsi. E Cassandra poi, con quella inclinazione al patetismo, con la paura dei germi o di cadere o di slogarsi un polso, cosa ci faceva Cassandra all’agenzia?
« Se devo morire di qualcosa, voglio scegliere io di che cosa. »
Sicuro, ma non era abbastanza: nessuna di quelle motivazioni mi convinceva fino in fondo, nessuna l’avrei trovata sufficiente o dignitosa, e mi dispiaceva, perché ero entrato all’agenzia con così tante speranze.
Nemmeno da Sca mi veniva qualche soddisfazione. Sca era l’ultimo dei ragazzi emo, l’unico rimasto. Aveva sedici anni, sette piercing e un’espressione frequentemente gioviale, come di uno costretto a mangiar ranocchie. Anche lui parlava poco, ma aveva le idee chiare: coltelli, daghe, spade, asce erano il suo elemento, le scorticature come delle carezze. Ogni tanto venivano fuori cose intelligenti, ma più spesso si finiva per discutere della scarsa affilatura dei coltellini svizzeri o del sopracciglio che si gonfiava di pus. Io stavo a sentire, ammirato: quel ragazzo mi apriva sempre un mondo.
Con Irene, invece, non parlavo. Era lei che non parlava con nessuno. Nemmeno Cassandra era riuscita ad estorcerle più che un parco sì affermativo. Non solo non parlava, ma era come se non ci vedesse. Se entrava nella stanza dov’eravamo tutti, non salutava. Se c’era una sedia libera, prendeva posto senza chiedere se qualcuno l’avesse occupata prima. Se c’era una coda al bagno, mai che domandasse se qualcuno era prima di lei.
« Mai vista una più maleducata » diceva Cassandra. E su questo non si poteva darle torto.
Solo con Iris la si vedeva scambiare qualche parola. Parlavano in un angolo, a bassa voce, come se stessero confidandosi segreti. Quell’Irene io non la capivo, come non la capiva nessuno. Eppure non potevo fare a meno di essere curioso: c’era qualcosa in lei che mi faceva preoccupare. Mi preoccupava, sì. Io mi preoccupavo per lei. E questo era assurdo, considerando che non le avevo mai rivolto la parola.
« Ryan, si dia un contegno, la sta fissando di nuovo! »
È vero, la fissavo. Cassandra aveva ragione. La fissavo senza accorgermene, soprappensiero, per un gesto che faceva o un’espressione del viso. Mi sorprendevo a domandarmi cosa avesse e cosa pensasse e perché ora fosse triste e ora felice, ora alzasse gli occhi, ora li riabbassasse.
« E poi potrebbe essere suo padre! »
Ma su questo Cassandra si sbagliava. Io non guardavo Irene perché mi piacesse. Non c’era niente in lei che potesse piacere a qualcuno. Cassandra sì che era una donna attraente, bionda e formosa, cinquant’anni ben portati. E lei, che lo sapeva bene, si divertiva a stuzzicarmi: sperava che un giorno o l’altro mi decidessi ad invitarla a cena. Piuttosto Greta, pensavo io segretamente, terrorizzato dalla sua parlantina.


Successe poi quella sera, alla fine della lezione di un venerdì. Per poco non m’ero appisolato su un gomito, mentre Iris diceva qualcosa a proposito dell’Inferno di Dante. Aveva menzionato dei cespugli, cespugli che fanno sangue, ed io l’avevo trovato molto divertente, e avevo smesso di seguire. Ricordavo io e Raffa, le mattine di tarda primavera, quando raccoglievamo ciliegie sul colle e io per farle paura mi impiastravo la faccia di rosso.
« Sanguino! » gridavo « Sanguino! Va’ a chiamare la mamma! »
Lei si metteva a frignare e nascondeva la testa tra le mani e diceva che aveva paura. Io ne approfittavo per rubare le ciliegie dal suo cesto e ingoiarne qualcuna mentre non guardava.
Ma cosa c’entrava coi cespugli che sanguinavano? Ero troppo stanco, decisamente troppo stanco per prestare attenzione. Sca faceva palloni con la gomma da masticare. Avevo avuto una giornata orribile al Serraglio, un altro ordine di croccantini per gatti, e il proprietario m’aveva rimproverato per una fattura sbagliata.
« Una citazione dall’Eneide! » disse d’un tratto Iris, con voce brillante. Vidi Cassandra annuire. Forse annuiva per compiacerla.
« Signor Ryan, si ricorda chi fosse? » chiese poi, come se cercasse di coinvolgermi. Sperai anch’io di cavarmela annuendo, ma non funzionò.
« Allora? » insistette Iris e in qualche punto mi sembrò che lo spazio-tempo si sfaldasse. Ero di nuovo sui banchi di scuola e lei era l’insegnante di italiano e domandava, domandava cose impossibili per il solo gusto di mettermi in difficoltà. Tutti mi guardavano, tutti guardavano il povero Ryan Air. Tanto non lo sa, dicevano. Era vero, non lo sapevo, e questo mi mandava in bestia, perché non c’era altro modo di difendersi che rispondere. Ma io non potevo, non potevo.
« Polidoro » disse una voce secca alle mie spalle. Mi voltai, stizzito. Era la secchiona del banco dietro, sempre lei, con le sue trecce unte e i brufoli e senza faccia, o forse era Irene, solo Irene, e io non avevo più diciott’anni, e quella non era la prof di italiano, ma Iris. E io solo un finto potenziale suicida.
« Ottimo, Irene! » disse Iris, sorridendo a me.
« Finiamola qui, per oggi, e andatevi a leggere il tredicesimo canto. »
Mi chiesi a che canto si riferisse. Forse a quelli degli alpini.
Cassandra mi raggiunse con una faccia perplessa.
« Ci andiamo a prendere qualcosa? » chiese. Scosse i capelli.
« Mi dispiace, ma… »
Cercavo un modo per finire la frase. Stavo pensando se fosse meglio un nipotino malato o un limoncello a casa di amici quando si udì un patatrac e, voltandomi, vidi Irene per terra, la sua borsa aperta, il contenuto sparpagliato sul pavimento. Era scivolata sulle mattonelle tirate a lucido.
« Lo dicevo io, questa cera maledetta, ma tanto nessuno mi dà retta! »
Accorsi per tenderle una mano e chiederle se s’era fatta male. Avevo già la frase pronta, ti sei fatta male?, così semplice e lineare e omnicomprensiva, ma Irene mi anticipò.
« Tutto ok » disse, rifiutando la mia mano, e prese a infilare nella borsa tutto quello che le capitava a tiro. Le passai un rossetto, una matita per gli occhi, una moneta da due euro. Chiuse la zip e mi fissò negli occhi. Fredda.
« Grazie tante » disse brevemente. Si alzò e mi voltò le spalle senza salutare.
Fu solo quando s’era già dileguata che Cassandra si avvicinò e mi tolse qualcosa dalle mani:
« E questo che sarebbe? » chiese, con una smorfia.
Era sottile e nero e chiuso da un elastico. Un diario.
Avrei dovuto riprenderlo e precipitarmi dietro a Irene, di corsa lungo il corridoio e poi fuori, sulla piazza. Sarebbe stata ancora lì, se avessi avuto fortuna. Ma decisi che non volevo avere fortuna, no.
« E adesso? » fece Cassandra, alzando le spalle.
« Lo tengo io » risposi e prendendoglielo dalle mani mi lisciai la copertina contro il palmo.

Di Chiara Pagliochini

domenica 7 agosto 2011

Altri venti, altri quarant'anni cosa vuoi che sia. Venti ne sono già passati e passano in fretta, tu lo sai. Questa finzione la puoi portare avanti: in fondo fa male solo a te, in fondo gli altri che ne sanno. Purché non sappiano, tutto è sopportabile. Purché tu non debba mai dire il vero, purché tu non abbia mai a sorridere d'un sorriso sincero, tutto è sopportabile. Puoi continuare a fingere come sempre hai fatto, tenere su la tua faccia migliore. Tu sai che puoi.
Non puoi spalancare quella finestra e semplicemente volar giù, non funziona così. Loro starebbero male, li distruggeresti. E tu non vuoi fare del male. Puoi volere tutto, ma non questo, lo sai.
Possiamo farcela, insieme, io e io, come abbiamo sempre fatto. Basta accendere la tv o infilare il naso in un libro, basta non raccontarci mai cose che fanno male.
Lo possiamo fare insieme, di nuovo, come sempre, ancora, per sempre.

L'agenzia dei suicidi. Cap. 4


Un stesso rituale scandiva tutte le mie domeniche. Alle undici e trenta davo da mangiare a Ryanair, poi lo lasciavo poltrire sulle ginocchia quel tanto che bastava a indurre un sonno sufficientemente profondo. Solo allora, a tradimento, lo afferravo per la collottola e lo costringevo nella gabbietta. Ogni domenica faticavo di più, in rapporto alla sua pancia che cresceva graziosamente. Ryanair cercava di graffiarmi o di mordermi, ma era troppo sonnolento o appesantito per minacciarmi davvero. Restava a guardarmi da dietro la grata, gli occhi gialli offesi.
A quel punto caricavo gatto e gabbia in macchina, li assicuravo con la cintura sul sedile anteriore. Inserivo le chiavi nel quadro, le luci che si accendevano sul cruscotto a raggiera, e toglievo il freno a mano. Partivamo sfrecciando tra vicoli e vicoletti fino a uscire dalla città e poi via lungo strade di campagna, e poi via sulla superstrada, e poi ancora campagna e un ponte, il cimitero, il cancello.
Abitavo a sessantatre o forse a sessantadue chilometri dai miei: il numero era tuttora oggetto di discussione. Mio padre diceva che dal cimitero, passato il bivio, c’erano tre chilometri fino al vialetto di casa. Mamma insisteva che non potevano essere più di due. Io davo ragione all’uno o all’altra, a seconda del momento e degli argomenti a favore. Avrei potuto verificarlo col contachilometri e mettere così a tacere domeniche di dispute, ma non sarebbe stato altrettanto istruttivo. Su un punto solo i miei genitori concordavano: sul fatto che mi fossi così “allontanato da casa” per finire tappato in uno spaccio per mangimi.
« Tu a vendere mangimi, con tutte le bestie di cui potresti occuparti! »
I miei erano contadini. Contadini erano stati i loro genitori. Prima di loro i genitori dei genitori. E così via, da quando la nostra stirpe s’era evoluta dagli scimpanzé. Mia sorella faceva l’avvocato. Io lavoravo al Serraglio Verde. Noi eravamo il simbolo della corruzione dei costumi.
Anche quella domenica mamma aveva fatto le tagliatelle col sugo. Amavo tanto la mia passata Cirio, il tappo che si svitava con quell’amoroso suono di sottovuoto, clack, segno di bontà indiscutibile. Un filo d’olio nella padella, due foglie di basilico, una spolverata di formaggio: questo era il mio concetto di tagliatelle. Ma le tagliatelle della mamma avevano un sugo tutto loro, con la zampa di un pollo lasciata a bollire insieme all’amabile e gustosa passata, e pezzi di pollo e dietro di pollo e ali di pollo. Io il pollo non lo mangiavo, ma a mio padre piaceva, succulenti bocconi di pollo grondanti sugo. Ingoiavo le tagliatelle trattenendo il respiro: il sapore non l’avevo mai potuto soffrire. Eppure era la mia mamma. Non poteva scoprire, dopo tutto quel tempo, che le tagliatelle col sugo non m’erano mai piaciute. Sarebbe stato come andarsene di nuovo.
Quando uscimmo dalla superstrada e ritrovammo la campagna, Ryanair si rianimò nella gabbia e miagolò. Aprii il finestrino per far passare un po’ d’aria e intanto guardavo i miei campi e le cascine familiari, come si fa sempre quando si torna a casa. Sono posti in cui non cambia mai niente: un rudere potrà avere una parete di meno e il campo che era a maggese potrà essere biondo di grano e ci saranno lenticchie al posto di girasoli, ma nel complesso non cambia mai niente. Le stesse rondini tornano agli stessi tetti e le api si accasano dove si sono accasate sempre. Se il profumo che si respira è lo stesso e si ride ancora delle stesse battute, si è sempre a casa.
L’auto di Raffa era parcheggiata sul pratino. Uno dei suoi marmocchi stava già arrampicandosi tra i rami di un ulivo, scrollandone via la tramatura. Mio padre gli stava sotto a braccia spalancate: mi chiedevo se per frenarne eventuali cadute o assestagli uno scappellotto appena fosse sceso.
Spensi la macchina e liberai la gabbia dalla cintura. Prima ancora di finire tra le braccia della mamma, spalancai lo sportello di Ryanair, che saltò fuori in un lampo arancione, atterrando sull’erba con un suono di stoffa. Guardò in su come un bambino:
« Puoi fare tutto quello che vuoi, ma ricordati che partiamo alle cinque » lo ammonii.
Lui parve contento e si allontanò dimenando la coda.
La mamma si asciugava le mani bagnate su un grembiule. La baciai sulle guance, mentre lei mi accarezzava i capelli.
« Sono cresciuti » lamentò.
« Non più della settimana scorsa » risposi.
Raffa mi venne incontro con le mani nelle tasche. Aveva i capelli più corti dei miei e pantaloni di lino a zampa d’elefante.
« Mirco ha chiesto se gli insegni a giocare a dama » disse.
« Certo, certo. Dove sono le pe…? »
Il mio improprio appellativo fu stroncato sul nascere dal polverone di Mirco, nove anni, il maggiore, naso coperto di lentiggini:
« Zio, mi insegni a giocare a dama? »
« Dopo pranzo però. »
« Va bene. »
« Elisabetta? » domandai. Avevo già localizzato Tommy, anni cinque, la terribile peste, in cima all’ulivo. Mancava solo la più piccola, Elisabetta boccoli d’oro. Me la ritrovai attaccata alla camicia, dietro, che si sforzava di calarmi i pantaloni.
« Prendimi, prendimi » frignò.
Mi voltai, la afferrai per i fianchi e la feci volare alta sopra la testa. Non tanto alta, aveva quasi tre anni. Lei mi rise in faccia un profumo di mela verde.
« Vado a buttar giù le tagliatelle » disse la mamma « Fra cinque minuti tutti a tavola. »
Recuperare Tommy fu più difficile che costringere Elisabetta alla resa. Mio padre dovette scrollare il tronco dell’ulivo, pessima mossa, visto che peggiorò lo stato della fioritura, senza peraltro spaventare il bambino. Ma bastò una parola di Raffa:
« La prossima settimana ti lascio con papà » perché fuggisse giù come un furetto.
« Come sta Giorgio? » le chiesi, voltandomi.
Mia sorella si strinse nelle spalle e disse quello che diceva sempre:
« Se non mi passa gli alimenti gli taglio le palle. »
Era efficace e a me bastava.
In tavola le tagliatelle fumavano dai piatti. Il mio aveva in cima un’abbondante, rossa chiazza di sugo. In quello di mio padre troneggiava una gialla zampetta di pollo. L’avevo sempre trovato quanto mai inquietante. Mangiare trattenendo il fiato non è un’operazione facile come si possa pensare, specialmente se non ci tieni a farti notare. Attorcigli la tagliatella intorno alla forchetta, te la porti alla bocca come se fosse la cosa più invitante di questo mondo e solo allora cominci a trattenere il respiro, mastichi, mastichi finché ce la fai, e ingoi. Se sei molto coraggioso, infili un’altra forchettata senza rilasciare il fiato. A questo punto puoi rilassarti, ricominciare a respirare, ma col respiro tornerà il sapore: di questo devi essere cosciente. Con la massima cautela e la massima scioltezza, versati un bicchiere d’acqua. Ripeti l’operazione per circa venti volte e mano a mano la quantità di tagliatelle diminuirà fino a scomparire. Rifiuta una seconda porzione, categoricamente, senza se né ma. Di’ che ti senti pieno. Non dire che hai mal di stomaco. Potrebbero chiederti perché hai mal di stomaco. E tu sai bene che non c’è risposta a una domanda simile.
Dopo le tagliatelle fu il turno della faraona in salmì, altro tenero compagno di voli. Ma stavolta la mamma sapeva che io e la faraona non andavamo d’accordo, così mi affettò del salame. Venne la frutta e venne il tiramisù, in un piatto bianco bordato di rosso, sempre lo stesso da cinquant’anni. Il caffè scuro nelle tazzine del servizio buono, quello che un giorno sarebbe passato a Raffa. Mia madre lo diceva quasi di tutto:
« Raffa, tienilo da conto questo servizio, questi bicchieri, questo vaso, quei cucchiaini, che sono di quando si è sposata la nonna. »
Sembrava che quando s’era sposata, alla nonna avessero regalato un sacco di cose inutili.
Poi Raffa aiutò la mamma a sparecchiare mentre io giocavo a dama con Mirco. Era un bambino intelligente, ma non tanto da capire quando poteva mangiare due pedine per volta, così lo fregai per tre partite. Alle quarta lui aveva cinque dame e io una sola, nell’angolo. Ma per fortuna Raffa uscì dalla cucina e mi guardò come se mi vedesse per la prima volta.
« La mamma ha detto che hai cominciato un corso. »
Avevo accennato qualcosa a mia madre per telefono, la sera prima. Solo non pensavo che se ne sarebbe ricordata. E difatti non ricordava più di cosa.
« Yoga » risposi serio, alzando gli occhi dalla dama.
« Yoga. Wow, non ti facevo così… »
« Avevo bisogno di svagarmi un po’. »
« E ci credo. Mi fai vedere qualche posa? »
« Beh, ho fatto solo una lezione… » mi schermii.
« Almeno la posizione base! »
« Certo. »
Mi alzai in piedi e mi lisciai i calzoni, cercando di prendere tempo. Anche la mamma era riemersa dalla cucina e avevo tutti gli sguardi addosso. Mirco aveva messo da parte la dama, Elisabetta mi guardava al di sopra di una bambola, persino Tommy il terribile, abbarbicato sul bracciolo di una poltrona, sembrava prestarmi interesse. Per non parlare di Raffa, professionale, serissima.
Mi inginocchiai sul pavimento, cercando di scansare una macchia di sugo. Peso sui talloni, ricordai, e punte dei piedi rivolte indietro. Impiegai meno tempo ad aggiustarmi, stavolta, e forse mi disposi anche correttamente.
« E adesso? » domandò Raffa con una faccia scettica.
« E adesso ecco, zac » mimai il gesto di tagliarmi il ventre « un bel taglio netto da sinistra verso destra. Il maestro ha detto che libera dalle angosce. »
« Davvero? Cavolo, lo devo provare. »
Raffa si accoccolò sulle mattonelle al mio fianco e diede un colpo netto, pulito, lo stesso con cui Irene s’era tagliata la gola. Mi guardò. Pensai che m’avrebbe riso in faccia.
« Caspita, ma funziona! Mi sento molto meglio adesso. »
« Te l’avevo detto. »
« Mi hai convinto, cerco un corso vicino casa. »
Con gli alimenti che Giorgio le passava, non c’era il rischio che investisse sulle palestre. Per altri tre, quattro anni potevo stare sicuro. Al massimo se ne sarebbe uscita con l’accusa che avevo per maestro un cialtrone. Il che, tutto sommato, non era completamente errato.
La partita non riprese da dove l’avevamo interrotta, perché quando tornai sul tavolo Mirco aveva aggiunto una dama al suo schieramento.
« Ma così non vale. Hai barato. »
« Ma no, zio. »
« Ma sì, ti dico. »
« No. »
« Sì. »
« No. »
Il no vinse: a Mirco l’avvocato non costava nulla. Io me la presi, strapazzai un po’ Elisabetta e raccontai una storiellina dell’orrore per impressionare Tommy. Non s’impressionò, figuriamoci.
« Dov’è Ryanair? » chiese invece, con gli occhi che brillavano.
« Sarà in giro » risposi vago.
Tommy si divincolò dalla poltrona e si mise in piedi. Sapevo che l’avrebbe fatto. Il mio tentativo di fermarlo fu piuttosto blando, piuttosto inutile.
« Guarda che se gli dai fastidio ti graffia! »
Del tutto superfluo. Era già filato fuori della porta con Elisabetta al seguito. Mirco restò e si divertì a costruire torri di dame. Mio padre, che s’era appisolato su una sedia, si svegliò e brontolò qualcosa mentre Tommy gli passava davanti. Mi guardò strofinando gli occhi gonfi di sonno.
« Andiamo a fare due passi? » chiese, come chiedeva sempre.
Ci inerpicammo su per il pendio dietro casa. L’erba cresceva alta e folta e mi arrivava alle ginocchia. Papà mi precedeva negli stivali di gomma e un cappello in testa per ripararsi dal sole. Sapevo dove stavamo andando: era dove andavamo sempre. Traversammo un campo usato come pascolo e prendemmo per una stradina bianca in salita. Quando arrivai in cima, papà era già seduto sotto il ciliegio, che dall’alto della collina dominava una porzione considerevole di paesaggio. Si vedeva la nostra casa, in basso, il vialetto, il cancello, più lontano il cimitero, una torre diroccata. Più lontano ancora, sulle montagne dirimpetto, il profilo di un campanile e le case abbarbicate intorno. Il ciliegio era tutto un fiore. Non i fiori rosa del poster dell’agenzia, che quelli sono buoni per le geishe e i cartoni animati. Il nostro ciliegio fioriva bianco dacché l’aveva piantato il mio bisnonno, tanti anni prima. Faceva un’ombra lunga e fresca sul colle, i fiorellini che tremolavano invisibili, come tante mani che si aprivano e si chiudevano.
Da bambini io e Raffa prendevano a sassate le cornacchie, perché non ci beccassero tutte le ciliegie. A seguire, mio padre s’era attrezzato diversamente: non appena i fiorellini appassivano e si staccavano, avvolgeva rami e tronco dentro un tendone verde traforato. A guardarlo dalla strada, quando arrivavo, sembrava un regalo da scartare o a un mostro che s’agitava sotto un lenzuolo. Le cornacchie non si avvicinavano più, ma a che prezzo.
Mio padre si era tolto gli stivali e strofinava i piedi contro l’erba rugiadosa. Io mi accoccolai al suo fianco, le ginocchia contro il mento. Stare lassù, sotto il ciliegio, era bello. Tutto il resto appariva così insignificante, non quell’insignificante da star male, non quello che ti toglie il sonno: era staccare la testa per qualche minuto, lasciarla scivolare giù dalla collina e ritrovarla un po’ più leggera.
Quando finivamo a passeggiare così, immaginavo sempre che mio padre si voltasse e, facendo un largo gesto col braccio, potesse dire:
« Un giorno tutto questo sarà tuo. »
Avrei riso di gusto. Ma papà non guardava abbastanza televisione per accontentarmi, così quasi sempre finiva per chiedere:
« Allora, come sta la donna? »
Nella sua fantasia, la “donna” era Greta. Con la loro immaginazione infantile e arcaica, i miei genitori ancora pensavano che la gente dovesse amarsi solo perché trascorreva tante ore assieme o parlava o s’aiutava nel momento del bisogno. Ed io, che non mi andava di rovinargli il gioco, rispondevo:
« Bene, bene, tra un po’ andiamo a vivere insieme. »
Ma sotto il ciliegio, con la valle che si spalancava, alla faccia cavallina di Greta non riuscivo a pensare. Pensavo a un fruscio di capelli che si sollevano e ricadono e a un profumo dolce e buono. E il ciliegio non mi aiutava a non pensarci.
« Papà, com’ero a vent’anni? » domandai.
« Una bella testa di cazzo. Hai fatto bagagli e burattini e te ne sei andato. »
Non avrei dovuto chiederlo: mamma non s’era mai riavuta dallo shock. Se avessi messo il mare in mezzo, non sarebbe stato altrettanto brutto che quei sessantadue (sessantatre) chilometri.
« Quand’è che vi sposate? »
Un fruscio di capelli che si sollevano e ricadono. Sembra lo stormire dei fiorellini del ciliegio. Quel lampo dagli occhi, improvviso, un grosso buio e una grossa luce, tutte e due assieme.
« Presto » risposi « Greta vuole prenotare la chiesa. »
« Non ti ci vedo a sposarti in chiesa. »
Io non mi ci vedevo a sposarmi.
« Lei è molto religiosa, anche i suoi. »
« Mamma sarà contenta. »
« Non dirglielo, però. Non voglio rovinarle la sorpresa. »
Papà mi guardò negli occhi e d’un tratto l’angolo della sua bocca s’inclinò e ricadde. Aveva una faccia triste.
« Quando la smetterai di raccontare stronzate? »
Guardai giù la valle che si apriva, due o tre chilometri dal cimitero fino a noi. L’ombra del ciliegio si allungava sopra le nostre teste, cambiando forma con il vento che muoveva i rami. Quei capelli e quegli occhi e quella faccia bianca senza espressione, le braccia conserte. Mi alzai in piedi e tolsi un filo d’erba dai calzoni. Non risposi.

Sul pratino davanti casa si consumava una notoria tragedia. Tommy era seduto su un sasso: grossi lacrimoni gli scorrevano giù dalle guance e si contorceva nella presa della madre. Raffa, inginocchiata davanti a lui, gli teneva un braccio, lo esaminava, ci passava di sbieco un batuffolo di cotone.
« Ch’è successo? »
Raffa si voltò, incenerendomi dagli occhi. Quello che vidi non mi piacque neanche un po’. Due sottili graffi rossi, dritti e paralleli come binari, segnavano il braccio paffuto di Tommy. Ryanair si grattava un orecchio in un angolo del prato.
« Mi sono stufata, proprio stufata! Se ti riporti dietro quel gatto, la prossima volta gli tiro col fucile! »
Sapevo che l’avrebbe fatto: Raffa manteneva sempre quello che prometteva.
Aprii lo sportello dell’auto per prendere la gabbia. Ryanair se ne accorse, ma non fece per fuggire. Anzi, quando lo chiamai venne diretto e senza fare storie, scivolando da sé nella gabbietta. Si sarebbe persino chiuso lo sportelletto, se avesse potuto.
« Non lo porto più. »
« Sarà meglio per te! »
« Tommy, mi dispiace tanto. Lui non voleva, ma… »
Raffa mi lanciò un’altra occhiata torva.
« Tommy, scusa, scusa davvero. Ti fa tanto male? »
Detestavo quel pessimo attore coi lacrimoni, i suoi striduli urletti da prima donna. Ma tutti lo fissavano, tutti fissavano me. Persino Elisabetta aveva preso a guardarmi storto.

« Non dovevi, Ryanair. »
Lui aprì un occhio, uno solo, e non rispose. Guidavo di nuovo attraverso la campagna, il vialetto, il cancello, il cimitero.
« Lo sai come sono. Sono così…normali. Le persone normali si arrabbiano per delle stronzate. »
L’occhio si richiuse. Non ci fu altro segno di vita.
« Non verremo più » promisi, ma sapevo di non poterlo mantenere. Nonostante le incomprensioni, i bambini, le menzogne, nonostante le tagliatelle.
Alzai gli occhi dalla carreggiata, individuando il ciliegio su in alto, che tremolava tutto tranquillo e bianco. Quando li riabbassai, c’era un merlo che becchettava sul ciglio della strada. Pensai che sarebbe volato via, ma non volò. Zampettò a destra, zampettò a sinistra e finì sotto le ruote. Un piccolo tonfo soffocato contro il cruscotto. Uno sbuffo di piume nere. Nello specchietto retrovisore vidi il suo corpo che rotolava e rotolava, rotolava sull’asfalto tutto avvolto nelle penne.
« Non ho potuto fare niente per salvarlo » dissi, e distolsi lo sguardo.

Di Chiara Pagliochini