sabato 31 dicembre 2011

Spuma d'onda

A Cesare Pavese, che mi ha prestato la storpiatura di un suo titolo;
alle alghe magiche di Cleveleys.


Durante la notte era nevicato. Finalmente, era nevicato. Il vento aveva fischiato contro le finestre e i vetri scricchiolavano. Lungo le imposte si aprivano le crepe e Lydia sapeva che sarebbe successo: le finestre sarebbero implose in tante schegge, la carta da parati avrebbe visto mille ferite sanguinare. E lei, il suo corpo, al centro della stanza, ne sarebbe stato trafitto come di tanti spilli, come quando si incrina uno specchio. Sarebbe successo, se il vento continuava a soffiare così.
Poi era arrivata la neve. Ma neanche allora si era placato e la sua furia riverberava ancora e ancora in un boato d’inferno. Il fischio veniva giù dai camini. Lungo la strada la neve si sollevava in refoli e ricadeva per spirali. E le auto ne erano sommerse. La spiaggia ne era sommersa. E la spuma di mare si disfaceva in neve e la neve era spuma, col risultato che non c’erano più confini. E mare e cielo e terra erano la stessa cosa, nel segno del vento che si abbatteva, nel segno della neve che si sollevava e ricadeva.
Poi vennero a dirle che era davvero spuma. Lydia strizzò gli occhi e tra le ciglia guardò in su.
« Spuma » ripeté il dottore « Viene dal mare. »
Il dottore, invece, veniva da casa. Veniva due volte la settimana con la borsa di pelle con dentro gli strumenti. Le siringhe, il cotone, le flebo, lo stetoscopio. Veniva per sua madre che stava male da tanti anni e non si alzava mai dalla poltrona.
Quando spostarono la poltrona davanti alla finestra, la signora Porter disse:
« Neve. »
« Spuma » ripeté il dottore « Viene dal mare. »
« Cos’è? » chiese Lydia.
« Non lo sanno. Stanno ancora prendendo dei campioni giù alla spiaggia. »
« Sarà tossica? »
« Non lo sanno. Ma puzza da morire. »
Quando il dottore se ne andò, la signora Porter restò alla finestra. Lydia le pose un plaid sulle ginocchia e sedette accanto a lei su una seggiola impagliata. I loro occhi correvano al mare, dove la schiuma si rompeva sulla criniera delle onde e più e più si riversava sulla costa. E dalla costa trabordava in strada. E poi il vento se la prendeva in bocca e la soffiava contro i vetri. Nel camino crepitava il fuoco. Sul fornello bolliva l’acqua con dentro le patate.
« Bello » disse la signora Porter.
« Lo è » disse Lydia, ma non sapeva che altro pensare. Perché un conto era pensare che era neve. Un conto una schiuma che non si sa da dove arriva. Certo, veniva dal mare. Ma è tanto grande il mare. Il mare è ovunque, il mare è tutto. Il mare è sotto la crosta della terra che aspetta di venire a galla. Da quale mare veniva? E perché il vento e le correnti la soffiavano su Cleveleys?
La signora Rodin era rimasta impantanata. Le ruote slittavano sull’asfalto brumoso e non si andava né avanti né indietro. Il tergicristalli spostava la schiuma da sinistra a destra e da destra a sinistra, ma la schiuma c’era sempre. Niente poteva asciugarla e niente poteva staccarla e così se ne andava di qua e di là a seconda del vetro che si tergeva. La signora Rodin era spaventata. Le ruote slittavano e slittavano e dietro di lei suonavano i clacson. Nella busta della spesa c’erano le anguille da fare marinate e siccome erano vive le sentiva sguazzare nel nylon. Il suono era scivoloso come una carezza bagnata e le veniva da ritrarsi contro il sedile. Aveva schifo di tutto. Aveva schifo di quella schiuma. Perché il vento, perché le correnti la soffiavano su Cleveleys?
Il dottore teneva la sciarpa premuta sulla bocca, ma la puzza filtrava lo stesso. Filtrava nelle ossa e si attaccava ai pantaloni. C’era qualcosa di marcio, di corrotto. Era un lezzo di decadenza e di cancrena. Clara aveva già apparecchiato per il pranzo. Lo sapeva, e voleva arrivare presto a casa. Dannata Lydia, dannata signora Porter, che non si può guarire chi ha in sé il proprio male. E uscire con questo tempo. Da pazzi. Il vento spazzava la costa a cento chilometri l’ora. Era una cosa da pazzi. Perché il vento, perché le correnti si accanivano su Cleveleys?
A Daniel non avevano detto che era spuma. La mamma stava pulendo il bagno e lo aveva mandato fuori a giocare.
« Ma metti la sciarpa. E il cappello. E i guanti. »
Daniel aveva infilato anche due paia di calzetti, perché sapeva che la mamma s’era scordata di dirglielo. Poi era uscito in giardino a giocare. Aveva appuntamento con Sarah, ma Sarah non era venuta. La mamma di Sarah non era come la sua, che lo mandava dovunque purché avesse due paia di calzini. La mamma di Sarah le faceva mettere le calze e poi si arrabbiava sempre se ci faceva un buco.
Lo avrebbe fatto da solo, il pupazzo. Aveva anche la carota. La mamma gli aveva detto che poteva prenderla. Le neve si sfaldava tra i guanti, non era compatta e i piedi ci sprofondavano dentro negli stivaletti. Che roba, pensava. Quando poi provava a farne un mucchietto, subito il vento gliela levava dalle mani e la piroettava lontano, e Daniel si trovava con un mucchietto di niente tra i guanti rossi. Non si poteva fare un pupazzo così. Era colpa di Sarah che non era venuta. Era sempre così brava a fare i pupazzi. Che noia quest’inverno su Cleveleys.
Alla tv non sapevano ancora che dire. I giornalisti si vedeva che non riuscivano a restar seri. Il signor Hughes, che era quello dell’industria di saponi, diceva che lui non c’entrava niente. Il signor Maelstrom, quello del cotone, diceva che cotone non era, e si vedeva. Le signorine Spencer e Kay dicevano che non era amido di mais e pure questo si sapeva, perché non aveva un buon sapore.
« Il mio sapone profuma » diceva il signor Hughes, e su questo non si poteva dargli torto. Cos’era, allora, quella schiuma su Cleveleys?
In realtà lo sapevano tutti, cos’era quella spuma su Cleveleys. Solo che nessuno glielo chiedeva. Solo che, interrogati, non avrebbero risposto. Avrebbero detto, che vuoi che sia? E ognuno voleva che fosse una cosa diversa. Perché quando una cosa bianca arriva e si spalma sul mondo e si incolla alla finestra e vi mozza il respiro allora qualcosa per forza dev’essere. Un significato c’è sempre. Non l’hanno ancora inventata una cosa senza senso. Questo pensavano gli abitanti di Cleveleys e in fondo ognuno aveva ragione.
Per la signora Porter la spuma era neve. Era la neve di quando Lydia era piccola e la vedeva giocare nel cortiletto a rincorrersi e il signor Porter stava presso il camino e parlavano. Ogni tanto litigavano e lui restava a fissarla da sotto le sopracciglia cispose. Ogni tanto alzava le spalle. Allora lei si sollevava dalla poltrona sulla quale stava a fare l’uncinetto e diceva:
« Dai, non litighiamo più. »
Da quando il signor Porter era morto sembrava che non fosse più nevicato, ma adesso la neve era tornata, era tornata. E a lei sembrava di avere la forza per alzarsi dalla poltrona.
Per la signora Rodin la spuma era sperma, di quando Franz le era venuto dentro con quella cosa cremosa e bianca e lei si era messa a piangere perché non voleva che venisse. Glielo aveva detto che non voleva più. Glielo aveva detto che non voleva più. Ma quelle stupide valige erano sempre sul letto e lui non le riempiva mai. Tornava a casa che puzzava e con un manrovescio buttava lei sul letto. E piuttosto che marinargli le anguille le avrebbe strette volentieri intorno al collo o si sarebbe soffocata con un sacchetto. Purché quella spuma bianca scomparisse. Purché le anguille smettessero di guizzare. Purché smettesse di venire e di venire per centinaia di volte dentro la testa, che non andava via neanche coi tergicristalli.
Per Daniel la spuma era il detersivo che la mamma buttava giù nel gabinetto. Papà glielo diceva sempre che certi prodotti andavano bene e certi no. Ma a Daniel non importava molto, perché adesso la mamma aveva fatto la neve e anche se Sarah non veniva poteva restarsene lì fuori a pensare a quando sarebbe venuta. E avrebbero fatto insieme il pupazzo. Per Daniel la spuma era Sarah e Sarah era l’assenza e le sue calze.
Per il dottore la spuma erano alghe in putrefazione. Alla fine si erano decisi a dirlo alla tv. Per questo quella puzza d’inferno. Clara aveva tappato le finestre, ma la puzza si sentiva lo stesso, che copriva anche i fumi dell’arrosto. E non sarebbe finita fino a che il vento non avesse cessato di soffiare.
Soffiava ancora il vento quando Lydia corse alla spiaggia. Sapeva che la signora Porter la guardava dalla finestra. Forse non vedeva che un puntino, ma quel puntino era importante, perché era lei, sua figlia, e la signora Porter aveva una vista d’aquila quando si trattava di tenerla d’occhio. Lydia aveva ventiquattro anni e le piaceva correre a piedi nudi sulla sabbia. Anche d’inverno le piaceva, perché d’inverno si trovano più conchiglie e certe volte la corrente arriva a lambire la carreggiata sul lungomare. Gli stabilimenti sono tutti chiusi e scoloriti e i cancelli cigolano. A Lydia piaceva sentire questi rumori e le piaceva pensare che il mondo stava lì solo per andare tutto in pezzi. Il pensiero ogni tanto le dava conforto. Tutto sarebbe andato in pezzi. Anche lei. E le conchiglie, i rametti, le piume, gli ossi di seppia, ognuna di quelle cose un tempo era stata un pezzo di qualcos’altro. Così non si doveva avere paura quando ci si sente in pezzi. Perché può sempre capitare che ti raccolga una mano gentile. Perché può sempre capitare che l’onda ti riprenda e ti restituisca all’abisso. Non sapeva, Lydia, se era felice o se era triste. E non sapeva se la schiuma le piaceva. Però neve o sapone o sperma o assenza che fosse, Lydia le correva incontro, le correva incontro ed era un tutt’uno con le onde alte e col vento che soffiava su Cleveleys.

Di Chiara Pagliochini

venerdì 30 dicembre 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap.16

John Everett Millais (book illustration)

« E lei, signor Air, ha rovesciato tutta l’acqua prima anche che cominciassimo ad affogare. »
Mi fermai un momento, raccolsi la bacinella, la riappoggiai sul banco. Sedetti lentamente al mio posto.
« Affogare? » domandai. Non domandavo mai niente, ma per un secondo quell’intonazione, quella certa cadenza e anche una ruga sulla fronte di Iris erano sembrati molto importanti. Lei dischiuse le labbra per formulare una risposta, le richiuse, volse la testa verso Irene, poi si volse alla lavagna e la indicò con un gesto del braccio.
« Annegamento » disse, in un tono in qualche modo solenne « È la lezione del giorno. »
« Ah. »
Ci pensai su un secondo.
« Devo far riempire di nuovo la bacinella? » chiesi.
« No, non c’è bisogno. Era tutta scenografia. »
« Certo. »
Iris dischiuse di nuovo le sue labbra di pesce rosso e si strinse nelle spalle.
« Beh, il signor Air ci ha tolto l’effetto sorpresa, quindi penso che saremo piuttosto diretti. Che dite? Ecco, » di nuovo un gesto ampio del braccio « se volete guardare la lavagna. »
Guardai ancora la lavagna.

Fasi:

1. f. di sorpresa;
      2. f. di resistenza;
3. f. di dispnea respiratoria;
4. f. apnoica
5. f. terminale.

« Ho pensato che sarebbe stato carino dotarvi di qualche nozioncina scientifica. Certo, non è che serva a molto, ma in fin dei conti male non fa. E se anche non ci ripenserete mentre state affogando, è in qualche modo positivo che sappiate quel che andate ad affrontare. No? Ecco, io non sono un’esperta. Insomma, non mi piace tanto neanche la piscina. Però possiamo provare a capire come funziona. Se vorrete lasciare un po’ di spazio all’immaginazione, sarà tutto più divertente. Cassandra, non sia tesa! »
Sentii Cassandra che si muoveva nel banco.
« Un po’ d’immaginazione, ecco. Non lo so, provate a mettere una mano nella bacinella. Lei, signor Air, può provare a chiudere gli occhi. Anzi, chiudiamo tutti gli occhi. Non lo so. Fate come vi pare. »
Chiusi gli occhi. Con le palpebre abbassate, tastai la superficie di legno del banco sotto di me. I palmi aderirono alle chiazze bagnate. I polpastrelli cercarono il freddo dell’acqua e lì ristettero a sguazzare. Mi sentivo stranamente debole, vulnerabile, come se qualsiasi cosa in quella cecità potesse piombarmi addosso e farmi sobbalzare. Nel buio sentivo più forti i sospiri, gli spifferi, gli aggiustamenti pur minimi; le inflessioni di ogni voce, di ogni frase erano l’unica cosa esistente.
« Quando si cade in acqua, specie se accidentalmente, la nostra prima reazione è di sorpresa. Il corpo agisce contro il proprio interesse e si produce in un atto inspiratorio riflesso. Vale a dire che prendiamo una boccata d’aria. Cioè prendiamo una boccata d’acqua. »
Eccolo, il volo, il volo e la caduta. Il volo era bello, ma la caduta non lo è. La caduta è impatto contro una superficie fredda e dura che si frange sotto di noi come se fosse di vetro. E quell’elemento che dovrebbe rigenerarci ci ferisce. Noi cerchiamo la vita e respiriamo la morte, e il sorso di quel che ci può salvare è invero il sorso che ci distrugge. Lo senti che brucia la gola. Lo senti che si infila dentro come un serpente. Lo senti che penetra e penetra e penetra dove non deve andare.
« Ma prontamente il corpo realizza che questo non è bene e reagisce d’insisto. Si chiama “fase di resistenza”. Alle prime boccate d’acqua, la glottide si solleva in uno spasmo serrato, impedendo al liquido di penetrare nei polmoni. Intanto voi vi agitate e cercate di riemergere. »
La glottide fa clack. È strano, non l’avevo mai avvertita prima. Non avevo neanche mai pensato di averne una. Ma adesso capisco che è proprio bello avere una glottide. La senti scattare come una porticina, senti che tutto si tende nella gola per tenere l’acqua dall’altra parte. È come un cancello. È come una paratia. E noi siamo il Titanic che non vuole affondare, siamo gli strenui cadaveri che si dimenano nei loro estremi gesti concitati. Siamo tante formiche che nuotano e scalciano quando tutto il formicaio è affogato.
« Il problema è che è possibile trattenere il respiro solo fino a un certo punto. Poi la concentrazione di anidride carbonica nel sangue aumenta e il cervello ha bisogno di reintrodurre ossigeno. Non c’è niente da fare, la glottide si rilascia. E siamo alla fase di dispnea respiratoria. Comincia una serie affannosa di respirazioni. Siete sott’acqua. L’acqua entra in grandi quantità nello stomaco e nei polmoni. »
La glottide non è una paratia e non è neanche una porticina, che quando le chiudi poi sai che non si riapriranno. No, la glottide è una stupida corda d’arco, che si è tesa e si è tesa per scagliare la sua freccia. Ma quando l’ha scagliata non c’è più modo di riportarla indietro. E l’arco s’è spezzato in due nella tensione.
Un topolino bianco in un catino di zinco graffiava le pareti con le zampette spuntate. E l’acqua mulinava intorno al suo codino. Graffiava, graffiava, ma non riusciva a riemergere. E più le zampette grattavano, più a fondo si spingeva nel catino. Non era facile mantenersi concentrati con l’acqua che riempiva a fiotti i polmoni. L’acqua saliva come un’onda di marea, come se quei polmoni fossero tazze livellate e una tacca, due tacche, tre tacche, l’acqua ci veniva versata dentro dall’alto e quelli cominciavano a traboccare.
« Siamo verso la fine. Perdete conoscenza, i riflessi sono aboliti. Si arresta il respiro. Siete in uno stato di coma profondo. »
Nel buio non c’è niente. Non c’è guerra e non c’è pace. Nel buio sembra di vedere una luce madreperlacea che pulsa, ma pulsa lontana lontana e non si avvicina neanche un po’. Nella luce di madreperla c’è la testa di Irene. Nella testa di Irene c’è la testa di Ofelia e se anche tu non la vedi sai che porta un vestito bianco e che tu sei pesante, sempre più pesante, forse è il vestito che si bagna, è un vestito troppo pesante. E intorno c’è tanto verde e tra le dita ci sono i fiori. Stupidi fiori, stupidi fiori che più li ghermisco e più mi sfuggono, più li ghermisco e più mi sfuggono e tutto è lontano, troppo lontano, troppo pesante, troppo bianco, troppo nero. Nell’assenza del colore c’è il colore del tutto. E la luce la luce la luce…
« Boccheggiate per l’ultima volta. Il cuore si arresta. »
Il cuore si arresta, si arresta, si arresta. Come quando dite, ho avuto un colpo al cuore. Ma non era un colpo, era solo un sobbalzo, ché non potrebbe sobbalzare dopo che s’è arrestato. Un cuore non è una glottide, sennò avrebbero lo stesso nome. Un cuore è un interruttore che ha un pulsante solo e non si riaccende se tu lo premi due volte. Ma premilo due volte. Ma premilo due volte. Premilo due volte che, se non lo premi adesso, poi lo sai - non si riaccende più.  

Un corpo affoga più velocemente in acqua dolce che in acqua salata. Dai tre ai cinque minuti in acqua dolce, tra i sei e i sette in acqua salata. Alcuni dicono che affogare in acqua salata sia più doloroso che affogare in acqua dolce, ma nessuno è mai affogato in successione in entrambe le acque per poterlo raccontare. Eppure sono sicuro che la gente preferisce l’acqua dolce. Forse perché pensano al sale che brucia gli occhi. Forse perché tutti bevono acqua minerale. Forse perché il mare è così bello da guardare, quand’è piatto e quand’è tempestoso, che a nessuno viene voglia di affogarci dentro. E poi la carcassa restituita sulla spiaggia. Ci sono i bambini che giocano coi secchielli. Sono immagini che non piacciono a nessuno.
Quando riaprimmo gli occhi, ci guardammo tutti con un certo spaesamento. Irene si voltò e mi rivolse un sorriso incerto, appena abbozzato. Col pollice le feci segno che stavo bene.
« Un quadretto molto suggestivo. Non trovi anche tu? » rimarcò Cassandra, picchiettandomi gentilmente le spalle.
Risposi di sì e poco altro. Mi sentivo scosso, frastornato. In quel buio avevo visto e conosciuto cose a cui non sapevo ancora dare forma. C’era un potere troppo grande nelle parole di Iris. La sua cantilena era monotona e cupa, senza picchi e senza valli, tutta uguale. E forse stava in questo incantesimo in cui una parola scarsamente si staccava dal fondo a conferirle quel potere arcano. Mi proiettava fuori da me stesso, in una dimensione vaga ed ombreggiata. In quel posto dove c’erano sogni. In quel posto che metteva in moto i simboli. Mi rendeva per un istante più capace di quello che ero.
Ma io ero sempre io. E ancora non capivo. E ancora non vedevo.
Iris disse:
« Bene, per stasera abbiamo finito. »
Mi alzai dal banco e mi sgranchii le gambe mentre aspettavo che Irene finisse di parlare. Iris le teneva un braccio intorno alla schiena e tutto ciò che potevo vedere erano i capelli lunghi e sciolti e la vita sottile come l’altra sua vita. Volevo trascinarla via. Volevo trascinarla a casa. Volevo che uscisse di nuovo a correre attraverso la piazza con quel passo leggero. Volevo che ridesse brilla. E invece restava lì a parlare con quella donna morta, con quella donna di morte, che le metteva un braccio intorno alla schiena. Volevo trascinarla via.
« Arriva tra un momento » disse Iris e capii che parlava con me. Le vidi camminare verso l’ufficio, il fianco dell’una contro il fianco dell’altra, l’abbraccio del demonio. Sentii il tonfo della porta che si chiudeva.
« Andate a casa assieme? » chiese Cassandra, con una leggerezza artificiosa.
« La riaccompagno. »
« Ovviamente. Fai bene. Poveretta. È sempre così sola, no? E poi è così giovane. E sono sicura che in fondo è una ragazza simpatica. »
« Falla finita. »
« Che c’è? Non si può mai fare un discorso con te? Ma tanto nessuno mi dà retta. »
Salutai Ascanio che se ne stava andando. Sui banchi le bacinelle tremolavano di una brezza invisibile, più sottile di un brivido, più corposa di una scarica elettrica. La mia piccola polla non si era ancora asciugata.
« E a me? Mi accompagni almeno alla porta? » disse Cassandra in un risolino. Vedendo che non mi muovevo, mi prese per un braccio. Io tenni il passo a malincuore. Come lo rendeva pesante quel passo, quant’era pesante, quant’era pesante. Ci sarebbero voluti giorni per arrivare fino alla porta. E quella corsa attraverso la piazza, invece, che non era durata un battito di ciglia.
Arrivato alla porta dell’ufficio, mi fermai. Cassandra mi fissò, aggrottando le sopracciglia.
« Non vorrai metterti ad origliare. »
Non potevo. Non si sentiva niente.
« E poi. Cos’è mai che vuoi sapere. »
Non era una domanda. Era un’affermazione.
Alzai gli occhi, perplesso come un bambino, e fu allora che il volto di Cassandra si illuminò. Era sconvolto. Era deformato. Il volto di una persona che abbia fatto una grande, una preziosa scoperta.
« Ma quindi non lo sai. »
Silenzio.
« Ma quindi non te l’ha detto. »
Silenzio.
« Ah, ma è straordinario. Qui lo sanno tutti. Ida proprio non sa tenere la bocca chiusa. E non ha detto niente a te? Che tipo, quell’Ida. Se fosse mia dipendente l’avrei già fatta licenziare. »
Avrei voluto strapparmi le orecchie, colarmi nei timpani dei moccoli di cera o riempirli di stoppa o di stoffa o di cotone. E avrei voluto essere cieco, cieco come un gattino di pochi giorni, che ignora la luce e il suo far male. Avrei voluto essere ovunque ma non lì, non lì, su quella soglia dell’altro mondo in cui non mi era concesso di entrare, quella soglia oltre la quale Irene non era più la “mia” Irene, ma la “loro” Irene, la seconda Irene, l’Irene del bicchiere di vino.
« Non l’hai vista com’era presa? Certo, avevamo gli occhi chiusi. Beh, io ho sbirciato un pochino. Non era un bello spettacolo. Niente affatto. Era così radiosa. Terribile, se uno ci pensa. Bisogna essere molto convinti per riderne così. »
Oggi so che Cassandra mentiva. Lo so perché sedeva dietro di me: non avrebbe potuto vederla in faccia. Nessuno aveva visto la faccia di Irene. E forse non c’era nessuna faccia da guardare. Ma in quel momento non lo pensai, in quel momento niente era più vero delle sue parole.
« È una questione di gusto, come per tutto. A te piace Irene e a Irene piace l’acqua. E d’altronde non si può biasimare. In fondo, tu oggi ci sei, domani chissà. Non ci si può fidare di voialtri. »
« Magari si sente sporca. Magari ha qualcosa da lavare. Con quella faccia da puritana. Chi lo sa. Però è interessante. Non è interessante? Un bell’annegamento. Dopo l’impiccagione, sembra una soluzione più chic. Non ti pare? Non ti pare? »
Solo allora mi accorsi del suo tono alterato, delle parole che le tremavano sulla bocca. Gli occhi erano lucidi. Aveva le guance rosse. Era spaventata.
La porta dell’ufficio si aprì. La voce di Irene tintinnò un saluto.
« Andiamo a casa? » domandò.
E intanto Cassandra camminava via. E Irene mi si avvicinava, mi stringeva il braccio, diceva:
« Che hai? »
Avevo solo voglia di vomitare.

Di Chiara Pagliochini

giovedì 29 dicembre 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap. 15

Wine Glass with Flowers by ~Lydia888

Io so che voi volete sapere. Solo, non so se ho tanta voglia di raccontarlo. E anche se gli psicologi dicono sempre che non fa bene tenersi tutto dentro e pure Iris lo diceva, io non lo so lo stesso. Se è meglio che le cose dolorose rimangano dentro. Se è giusto invece che escano fuori.
Con qualcuno ne ho parlato. Chi mi conosce bene lo sa. Nel nuovo appartamento abbiamo fatto installare una doccia anziché la vasca e comunque stento ogni volta che poggio piede sulle piastrelle. La ceramica bianca mi è odiosa. D’estate non si va al mare e i telefilm in cui c’è qualche naufragio non li guardo. Eviterei di bere, se potessi. Ma pure dicono che non si può.
Dicono anche che passerà. Piano piano, e passerà. In fondo non è stata una cosa così importante. Non una per la quale ci si debba dannare la vita, o togliersela. No, in fondo dicono bene loro: è stata una cosa da niente, passerà.
So che tutto questo è accaduto dopo il funerale di Eugenio. Più ci penso, più quel funerale mi sembra una puntina da disegno piantata sulla mia linea della vita. Tutto si riduce a due semplici dimensioni, quello che era “prima” del funerale, quello che è stato “dopo”. È tenendo presente questa puntina che riesco a collocare temporalmente tutti gli eventi. Se non l’avessi, se solo per un attimo dimenticassi questa cosa del “prima” e del “dopo”, io sono sicuro che uscirei pazzo. Non saprei più incollare le conversazioni dalla parte giusta. Tutte le sue frasi si sparpaglierebbero come farfalle di zucchero. Quindi, lasciamo che il funerale sia il nostro spartiacque. E vediamo quel che è successo “dopo”.
Quello che voi volete sapere e che io non so se ho voglia di raccontarvi è successo sicuramente “dopo”. Una, due settimane dopo? Non ricordo la data precisa, e neanche voglio ricordarla.
So solo che la serata era cominciata un po’ prima del solito. Che avevo portato Irene fuori a cena. Aveva detto, “non sono mai stata in un ristorante!”, ed io avevo pensato ai ristoranti quelli della tv, quelli con dei piatti grandi e dei pasti piccoli al centro, mucchietti di uno strano colore, decorati con ghirigori di spezie e pigne e cristalli di caramello. Neanche io ero mai stato in un posto simile.
« Vogliamo andare in un ristorante elegante? » domandai.
« Ma io… »
« Per una volta che andiamo fuori a cena non mi aspetto certo che paghi tu. E poi ho preso la tredicesima. »
« Ma ci vede la gente. »
« Quindi? »
« Non lo so. Non hai mai pensato che è strano? »
« Strano che ho una figlia così carina che porto fuori a cena? »
Irene fece un sorriso buffo e mi tirò contro un maglione.
« Allora esci » disse « che mi devo cambiare. »
Io uscii dalla stanza e scesi in cucina. Marika era seduta davanti alla tv. Sono certo che fosse una brava persona e anche una buona per viverci assieme. Non si faceva troppi problemi, non faceva domande e non era molto simpatetica. Però ogni tanto qualche risposta simpatica gliela tiravi fuori, a volerci provare. Anzi, io ci parlavo abbastanza bene. Era molto più facile che parlare con Irene. Anche se non ricordo una sola cosa che abbia detto.
Credo di aver fatto un pallido tentativo di invitarla a cena con noi. Molto pallido, a dire il vero, e neanche reiterato. Non ricordo cosa rispose, ma in un modo o nell’altro declinò l’invito. Altrimenti l’avrei ricordata che cenava con noi. Invece a cena con noi non c’era.
Quando sentii che Irene scendeva le scale e mentre aspettavo che apparisse in cucina, covavo dentro una grande eccitazione. Come se vedendola comparire potessi trovarla tutta diversa, una ragazza bellissima, elegante, ben vestita, ansiosa di uscire. I suoi passi giù per le scale erano soffi di sabbia in una clessidra. E il cuore mi faceva tum tum, tum tum. Sono sicuro di non averlo inventato. Chi mai potrebbe inventare un particolare tanto degradante?
Comunque, quando Irene apparve in cucina, era sempre Irene. La solita faccia ordinata ma piatta, non dico senza espressione, ma con quell’espressione indecifrabile e un po’ folle. Portava un vestito grigio stretto in vita, con una scollatura quadrata, in cui sembrava più magra che mai. Aveva il rossetto. Non dissi nulla, anche se stava meglio senza.
Il ristorante non era lontano dall’agenzia, così saremmo arrivati in tempo per la lezione delle nove e mezza. Non avevamo prenotato, ma trovammo posto lo stesso. Un signore molto composto e molto incravattato, con la camicia tanto bianca che faceva luce, ci accompagnò a un tavolo vicino alle finestre. Dalle finestre si vedeva la piazza davanti, con le scale del Duomo e l’ingresso del Palazzo Ducale.
Irene disse:
« Qui va bene. »
Il cameriere ci tese due menu e riprese il suo posto vicino alla porta.
Irene scorreva con l’indice i nomi e intanto si mordeva le labbra. A un certo punto abbassò il suo menu e prese a mordicchiarsi la punta di un’unghia.
« Cosa prendi? »
« Cosa prendi tu? »
Avevamo parlato insieme. Cercavamo entrambi consenso e lo cercavamo dalla persona sbagliata.
Io ero rivolto con la faccia alla porta. Il cameriere ogni tanto ci gettava un’occhiata, alzava un sopracciglio quando c’era un risolino, e Irene aveva già fatto cadere due volte il tovagliolo. Due volte lo rimandammo indietro con la supplica che non avevamo ancora deciso. Alla terza tornò e decise lui per noi.
« Lo chef consiglia… e il piatto del giorno… E quindi per lei, signorina? Certamente. Porto la carta dei vini? »
« Sì grazie » disse Irene.
« No grazie » dissi io.
« Sì o no? »
« Sì. »
« Sono subito da voi. »
Ordinammo un vino che nessuno di noi conosceva ma che era quello che costava meno. Era un vino bianco in una bottiglia verde, con su l’etichetta di una cantina sociale. Il cameriere lo stappò e ne versò una piccola quantità in ciascun bicchiere. C’erano tre bicchieri, e io certo non avrei saputo qual era quello giusto.
Arrivarono i piatti e cominciammo a mangiare. Al centro del mio c’era un anello di riso giallo. Non ricordavo se fosse riso alla zucca o riso allo zafferano e comunque non sapeva di zucca né di zafferano, ma piuttosto di anice o di finocchio. Quale lieve scaglia di tartufo era appoggiata dal lato destro del piatto, in modo che non fosse né sul riso né lontano dal riso, e io non sapevo capacitarmi se si mangiasse oppure no. Irene rideva. La vedevo dentro il bicchiere di vino che rideva.
Ecco, avevo dimenticato questo momento. Cancellato da tutto il resto, era andato perduto. Eppure adesso che lo sfoglio mi sembra così carezzevole e consolante. La faccia di Irene vista in trasparenza attraverso il vino in un bicchiere, una faccia giallo paglierino deformata dal riso, animata dalle bollicine che guizzano come tanti pesci. Io che mi allungo attraverso il tavolo con un tovagliolo in mano e dico, ti si è sbaffato il rossetto, e le passo il tovagliolo sulle labbra ancora protese e tutte rosse. E strofino finché non lo tolgo. Non so se lei sa che glielo sto togliendo. Glielo tolgo, allontano il tovagliolo e lei sorride. Sorride dentro e fuori il calice di vino bianco, come se ci fossero due Irene, l’una viva che ride, l’altra che ride nel vino e che ridendo affoga. E adesso che ci penso non è più un’immagine così consolante.

Dopo aver pagato il conto, ci incamminammo verso l’agenzia. Irene mi strattonava, mi tirava per la manica della camicia, insistendo che le facessi vedere lo scontrino. Se fosse il suo un capriccio di senso di colpa o un’altra declinazione dell’amore per la numerologia non lo seppi mai, perché come glielo tesi lei si fermò in mezzo alla strada e lo fissò per un secondo o due. Poi lo piegò in quattro parti e se lo mise in tasca. Io ve l’ho detto che era strana.
Riprese a camminare molto graziosamente, ondeggiando un po’ e dicendo cose spiritose. Il vino le aveva sciolto la lingua e colorato le guance e aveva reso il suo passo più liquido e femminile. Era bello sentirsela frusciare attorno e ridacchiare e fare quelle cose sorprendentemente ridicole che ogni tanto fanno le donne. Tipo inciampare. O impigliare un lembo della sciarpa nella cerniera della borsa. O aprire il portafoglio rovesciando una pioggia di centesimi. Oppure, come faceva Irene, camminare piano e poi fare tre saltelli e cambiare posizione da destra a sinistra, irrequieta, e ridere mentre guardava la gente passare e sbattere contro il mio fianco, poi prendermi sotto braccio, correre in avanti veloce, lasciarmi il braccio, afferrarmi la mano, lasciarla, lanciare un oh di sorpresa. Era bello vederla così vivace. Eppure era triste pensare che tutta quella vita era solo artificio, un trucco momentaneo, l’ennesima strizzata d’occhio del dio della sera.
Quando arrivammo all’agenzia, erano le nove e quaranta e tutto era pronto per la lezione. C’era una faccia nuova di donna che non rividi mai dopo di allora e che non ho trattenuto nella memoria. Iris era voltata di spalle e faceva degli schemi col pennarello su una lavagna bianca. Sui nostri banchi da scolaretti suicidi campeggiava una bacinella d’acqua.
Ascanio girellava tra i banchi con un’aria sospettosa. Ogni tanto si fermava, toccava una bacinella, sfiorava l’acqua con la punta di un dito.
« Mai piaciuta questa roba » farfugliò.
« È acqua » protestai.
« Appunto. »
A Cassandra, invece, l’acqua non interessava per niente. Non le era sfuggito che, entrando, avevo tenuto la porta aperta per Irene. Lei si era precipitata dentro con un balzello, ed era inciampata. Le ginocchia le si erano piegate ed era caduta. Tutto questo non era sfuggito a Cassandra, che stava ancora firmando il registro. Il suo sorriso, prima così studiato, si era incrinato un momento alla vista del mio gesto. Sì, doveva esser stato quel mio gesto, quella sbavatura di concitazione, l’istante in cui le ginocchia di Irene si erano piegate ed io mi ero slanciato in avanti per trattenerla, come se una molla mi facesse avvinto a lei nella caduta. Irene non se n’era accorta e si era rialzata ridendo. Ma a Cassandra non era sfuggito, e adesso me ne chiedeva il conto.
« Quindi fate coppia fissa » mi bisbigliò all’orecchio, seduta nel banco dietro di me. A intervalli regolari, la sentivo premere col piede lo schienale della mia sedia.
« No » risposi, e credo ancora che fosse la risposta giusta. Ma questo non la soddisfece.
« È ovvio che sei pazzo di lei. Il punto è se lei è pazza di te. »
« Non sono fatti tuoi. »
« Era solo per dire. »
« Non sono fatti tuoi e non è questo il punto. »
« E allora quale… ? »
« Bene, possiamo cominciare? » chiese Iris, voltandosi finalmente ad affrontarci. Il suo sguardo corse per primo a Irene, su cui si soffermò un po’ più a lungo del solito. Un cenno impercettibile del capo. Un altro cenno da parte di Irene. Anche se le vedevo solo la nuca, sapevo che stava annuendo. Ma pure non conoscevo la domanda. Quella lingua la parlavano loro sole.
Il movimento col piede di Cassandra si trasmetteva alla mia schiena e alle mani poggiate sul banco. L’acqua nella bacinella si ruppe in un’increspatura lievissima mentre Iris cominciava a parlare. Il mio sguardo la seguì un po’ oltre e si fermò sulla lavagna imbrattata. Lessi senza afferrare il senso.

Fasi:
1.  f. di sorpresa;
2.  f. di resistenza;
3.  f. di dispnea respiratoria;
4.  f. apnoica
5.  f. terminale.

Poteva significare qualsiasi cosa, eppure era chiaro che non significava niente di buono. Aveva un suono sgradevole e tecnico. Poi Cassandra spinse lo schienale più decisa e l’acqua si rovesciò dalla bacinella, scorrendo in rivoli giù dal banco. Mi alzai di scatto per evitare di bagnarmi e nel movimento pure la bacinella cadde, rotolando sul pavimento con un suono di plastica. Mi ero giusto voltato per aggredire Cassandra quando la voce di Iris sillabò lentamente:
« E lei, signor Air, ha rovesciato tutta l’acqua prima anche che cominciassimo ad affogare. »

Di Chiara Pagliochini

sabato 24 dicembre 2011

Deliri (?) dell'una e venti minuti.

L'unica cosa che mi dispiace è quando ti vesti e ti pettini e ti trucchi bene nonostante tutto, nonostante tu sappia con certezza che come ti vesti, ti pettini e ti trucchi non interessano a nessuno. Dicono che sono cose superficiali, ma noi cosa siamo se non creature di superficie?
E chi ci garantisce che se non lo fossimo, se non fossimo creature di superficie, il mondo sarebbe un posto migliore? Davvero qualcuno dovrebbe amarmi per quello che c'è dentro di me? Per quello che penso? Per quello che sogno? E cosa sogno e penso e cosa c'è dentro di me se non una tenebra vorticante che tutto risucchia e tutto inghiotte e appena vede una cosa bella la vuole spegnere, come se quella cosa bella la offendesse?
No, restiamo in superficie. Restiamo in quella superficie dove trucco e parrucco, per quanto squallidi, sono qualcosa. Restiamo su quella superficie dove la mia pelle è opaca e tutta una squama. Restiamo su quella superficie dove ho l'acne come avevo già a dodici anni. Chissene frega. In ogni mondo, in ogni momento meglio la superficie, piuttosto che un incauto sguardo verso il mio cauto mascheramento di mostro.

venerdì 23 dicembre 2011

Bilanci di fine anno: la mia vita

Lo confesso: anche quest'anno, sulle prime, ho nutrito grandi speranze. Mi sono detta, sì!, questo sarà l'anno della svolta, finalmente darò un senso alla mia esistenza, finalmente troverò qualcosa per cui valga la pena di! Di cosa?
Come direbbe la mia Irene (e io sono sempre più convinta che abbia ragione) non c'è niente per cui valga la pena di. Di niente.
Dopo questa nota nichilista, veniamo a elencare i punti più salienti dell'anno 2011. Si avvisano i gentili lettori che la materia trattata è altamente instabile. Mandate a letto i bambini se non volete che piangano.
Rullo di tamburi... la lista!

  • ho iniziato e finito nello stesso anno il mio primo romanzo (il che non è roba da buttare, considerando tutti gli aborti prodotti finora);
  • ho concluso con successo il mio primo anno da universitaria, senza grossi traumi a causa della lontananza e dello spaesamento (anzi);
  • ho consolidato un'amicizia importante, forse la più autentica che abbia mai avuto;
  • ho ricominciato a leggere con metodo e costanza;
  • ho subito un forte innamoramento e un'altrettanto forte delusione;
  • ho perso tanti amici il cui valore (sommato) è pari forse alla metà dell'amicizia guadagnata;
  • ho rapporti familiari più tesi ogni giorno;
  • ho inviato il romanzo a una casa editrice (e adesso pazientiamo pazientiamo);
  • ho vinto una borsa di studio;
  • non ho avuto alcuna malattia immaginaria di rilievo;
  • coltivo con sempre maggiore carezzevole intensità propositi suicidi;
  • ho cominciato un secondo romanzo, che spero di riuscire a terminare entro febbraio 2012.

Che dire? Per il momento è tutto. Manca ancora una settimana circa alla fine dell'anno.
Chissà che in sette giorni non si possa incontrare l'uomo della vita. Non si possa ricevere una notizia importante. Non si possa... ok, la parola inizia per m, ma non è carina. E sinceramente non è bello m quando si è in vacanza, no? Facciamo le corna.

mercoledì 21 dicembre 2011

Sii felice!

Egon Schiele. "The Familiy" (1918).

Provate semplicemente a immaginarvi di essere nati in una famiglia nella quale, per una ragione qualsiasi, la felicità sia un dovere. Più precisamente, una famiglia in cui i genitori hanno fatto proprio il principio che l’animo lieto del figlio è la più evidente riprova del loro successo pedagogico nei suoi confronti. E provate a essere di cattivo umore, oppure sfiniti, o ad aver paura della lezione di ginnastica, del dentista o del buio, o di non aver alcuna voglia di diventare boy scout. Secondo i vostri cari genitori non si tratta semplicemente di uno stato d’animo passeggero, di stanchezza, della tipica paura di un bambino o simili; è invece un’accusa muta, e quindi tanto più dura, di incapacità educativa rivolta a loro. E cominceranno a difendersi enumerandovi tutto quello che hanno fatto per voi e tutti i sacrifici, dicendo infine che non avete nessun motivo e alcun diritto di non essere felice.
Non pochi genitori sanno sfruttare magistralmente questo meccanismo, portandolo talvolta a ulteriori sviluppi. Dicono per esempio al figlio: “Va’ in camera tua e restaci finché non ti è tornato il buonumore.” La convinzione che viene qui espressa indirettamente, ma in maniera elegante e chiara, è che il figlio possa con un po’ di buona volontà e un piccolo sforzo riuscire a programmarsi uno stato d’animo allegro e, stimolando i nervi di certi muscoli facciali, a mostrare quel sorriso che lo reintegrerà come “lieto” fra i “lieti”.
Attraverso questa semplice tattica, la tristezza e la bassezza morale (soprattutto l’ingratitudine) vengono inestricabilmente mescolate assieme […]. Questa tattica è quindi molto importante per il nostro argomento. Essa è particolarmente adatta a far nascere nell’altro profondi sensi di colpa, i quali dal canto loro possono essere spiegati come sentimenti che egli non avrebbe se soltanto fosse una persona migliore. […].
Chi ha sostenuto con successo un simile addestramento è in grado di far nascere autonomamente in se stesso uno stato di depressione. È invece fatica sprecata voler risvegliare un tale sentimento di colpa in coloro che, da questo punto di vista, non sono addestrati. Si tratta di quelle persone insensibili che, al pari degli esperti in infelicità, conoscono certamente bene l’instabilità emotiva, ma sono anche convinti che l’occasionale tristezza è un momento inevitabile della vita quotidiana, che essa viene e va senza che nessuno sappia come e che, se non stasera, certo domani mattina sarà già scomparsa. Ciò che distingue la depressione da quest’ultima forma di tristezza è la disposizione a utilizzare autonomamente ciò che è stato introiettato nell’infanzia, rimproverandosi nello stesso tempo di non avere né il diritto né alcun motivo di essere triste. La sicura conseguenza è l’approfondimento e il prolungamento della depressione. E lo stesso risultato ottengono anche quelle persone che seguono la voce del sano buon senso e i suggerimenti del proprio cuore, consigliando per il meglio l’interessato, incoraggiandolo e convincendolo a fare uno sforzo. Così, la vittima non solo ha contribuito in maniera decisiva alla propria depressione, ma può sentirsi doppiamente colpevole perché non riesce a condividere il roseo e ottimistico atteggiamento che gli altri hanno nei confronti del mondo.

Istruzioni per rendersi infelici,
Paul Watzlawick

martedì 20 dicembre 2011

Bilanci di fine anno: libri.


La fine dell’anno si avvicina e, come di consueto, è tempo di bilanci. Non di bilance. Siamo sotto Natale, dalle bilance bisogna stare alla larga.
Ebbene, questo primo bilancio verterà sulle letture fatte nel corso dell’anno.
Sapete, quest’anno è stato molto importante per me. Il mio rapporto con la lettura è cambiato e, spero, maturato. Sono diventata una lettrice sicuramente più impegnata e, mi auguro, più consapevole.
Ho trascorso diversi anni della mia vita a leggere romanzi fantasy scadenti e letteratura femminile, pagando il mio tributo tanto alle operazioni commerciali quanto al vittorianesimo. Non mi pento di nulla: non ho sviluppato qualche strana patologia né sono diventata completamente idiota. Non sono ancora del tutto convinta che esista in fin dei conti “una letteratura che vale” e una che “se la leggi il Mondo sprofonderà sotto il peso del tuo misfatto”. Io sono convinta che il rapporto di ognuno di noi con un libro sia strettamente personale e che un libro non debba necessariamente essere “un buon libro”. Se ci fossero soltanto buoni libri mia sorella morirebbe asfissiata sotto il peso del Barone Rampante, mia madre dovrebbe barattare i suoi romanzetti Harmony con Madame Bovary e mio padre, al posto dei suoi saggi di finta-scienza, si sorbirebbe Il nome della rosa. In un mondo ideale, delitti come quelli perpetrati dai membri della mia famiglia sarebbero puniti con la pena capitale. Nel mondo reale, io e la mia famiglia leggiamo tutti cose diverse e tutti siamo contenti di quel che leggiamo. Non sono persone stupide perché leggono cose stupide. Potrebbero essere persone più consapevoli se leggessero cose più intelligenti, ma in fin dei conti tra stupidità e consapevolezza c’è un abisso. Nella vita reale uno campa benissimo anche senza aver letto Madame Bovary.
Facciamo un sorrisone e salutiamo da lontano i moralisti con la mano.
Ciò non toglie, poi, che a me piaccia leggere “buoni libri”. Solo non punto il dito e non sputo sentenze contro chi vuol leggere Twilight. Persino Dante, che era così serioso e puntiglioso e tutto, si batteva per il libero arbitrio.
Per ritornare ai bilanci, quel che sono fiera di annunciare al mondo (ed è una constatazione incontrovertibile) è che non leggo più fantasy scadenti e poca letteratura femminile (che non è scadente affatto, solo alle volte un tantino limitata quanto a situazioni narrative).
Insomma, sono diventata una di quelle lettrici che piacerebbero anche ai moralisti. Facciamo di nuovo ciao ciao con la mano, stavolta in tono più ossequioso. Si ringraziano per i preziosi consigli, l’incoraggiamento, gli insegnamenti metodologici tre entità: Marco (entità concreta), Goodreads (entità astratta), “Un buon libro, un ottimo amico” (entità astratta-concreta).
Ed ora passiamo alla classifica. Ho selezionato alcune tra le letture che mi sono sembrate più significative. Le citerò in ordine di lettura, perché la mia coscienza non debba disperarsi nel cercare un primo, un secondo, un terzo e un quarto. Le citerò accompagnate da una breve didascalia che spieghi il perché della mia scelta.
Spero che possiate trovare spunti interessanti, ma che soprattutto possiate commentare, consigliare e criticare i miei misfatti.

  • Espiazione, E. McEwan: per l’intelligenza dell’impianto, la sensibilità poetica, l’assenza di buonismo; un modello di come dovrebbe essere il mio romanzo ideale;
  • Niente di nuovo sul fronte occidentale, E.M. Remarque: perché mi ha fatto amare un evento atroce come la Prima Guerra Mondiale, ammantandola di una poesia e di una bellezza espressiva che nulla tolgono alla sua atrocità;
  • La lettera scarlatta, N. Hawthorne: perché mi ha regalato la nostalgia di quei tempi in cui il peccato aveva il suo discreto fascino e la seduzione di pochi gesti calcolati era più forte di quella di un amplesso esplicito;
  • Il caso di Dora, S. Freud: perché è stato il mio primo, entusiasmante approccio con la psicoanalisi, che io non so poi se sia una scienza vera, ma alla fin fine è un meraviglioso contenitore letterario da cui attingere continuamente;
  • I Malavoglia, G. Verga: per la bellezza e la consistenza della lingua, per i colori, per quella cosa spaventosamente geniale che è il coro paesano (e perché ho snobbato a torto il verismo per tanti anni);
  • Lolita, V. Nabokov: perché è intrigante, politicamente scorretto, scritto bene da star male, pieno di gioia, di tristezze e di isteria e perché c’è un piccolo Humbert Humbert in me;
  • Furore, J. Steinbeck: per l’analisi lucida e spietata delle dinamiche del progresso, per il mito della terra e della famiglia in cui ho ritrovato me stessa, perché è un libro onesto quanto mai, che sa di sudore, di arance e di sporco, dove le persone (che è cosa rara a trovarsi in un libro) parlano come le persone vere;
  • La luna e i falò, C. Pavese: perché mi ha trasmesso quella voglia di ritrovare le mie origini mitiche e contadine che troppo spesso relego al margine, perché Cesare è Cesare e scrive come se suonasse;
  • Cronache del ghiaccio e del fuoco (I-II-III), G.R.R. Martin: perché si possono scrivere romanzi fantasy di qualità, divertenti, scorretti, adorabilmente volgari (e dove non ci sono gli elfi!);
  • Che tu sia per me il coltello, D. Grossman: perché è scritto come è scritto, ma soprattutto per la bontà con cui si è prestato a svelarmi molte delle mie malattie e a curarle;
  • Misery, S. King: perché se cercate un libro che parli dell’amore per la lettura e la scrittura è questo qui, e la patina horror è tutta una copertura (ma non ditelo in giro, altrimenti poi Annie… !);
  • Il giovane Holden, J.D. Salinger: perché l'adolescenza non si può dire conclusa fino a che uno non ha letto questo libro e non si è sentito dipinto e messo a nudo in questo modo così commovente e così privo di retorica;
  • Lord Jim, J. Conrad: perché sicuramente mentre lo leggevo è andato storto qualcosa e adesso questo libro è diventato per me un’enorme e affascinante metafora della giovinezza;
  • Il buon soldato, F.M. Ford: per la finezza dell’indagine psicologica, l’attenzione alla gestualità, l’impiego di un narratore in prima persona talmente straordinario da rimettere in discussione tutte le mie idee in proposito;
  • Alice nel paese delle meraviglie, L. Carroll: perché il nonsense è bello e io voglio scrivere cose che ne siano tanto allegramente intrise.
E per voi? Quali sono i vostri libri da ricordare in questo Anno Domini 2011?