domenica 24 aprile 2016

L'urlo e il furore, William Faulkner

«Allora Ben riprese a lamentarsi. Un suono lungo e disperato. Non era nulla. Puro suono. Avrebbe potuto essere tutto il tempo e l'ingiustizia e il dolore resi per un attimo vocali da una congiunzione di pianeti».



Il modernismo è una brutta roba. Prendi un libro immenso come questo, un universo ricreato in carta: lo leggi, assapori le parole una a una, succhiando il midollo, e quel che ti resta alla fine è solo l’unto delle parole sulle dita. Impressioni, pennellate, frammenti, non un messaggio completo da poter mettere in tasca e tirar fuori a piacimento. Quello che resta di questo romanzo sono colori, odori, dolori, sensazioni pungenti.
Mi è capitato più di una volta di uscire da un romanzo con sensazioni come questa. Non a caso, si trattava di altri capolavori indiscussi del modernismo, come Viaggio al termine della notte e Mrs. Dalloway: è la sensazione che, in fondo, non ci sia niente da dire, nessuna parola di commento da aggiungere, perché non si riesce a riprodurre per iscritto quello che l’esperienza di lettura è stata. Durante la lettura si avevano delle percezioni molto intense, ma tempo qualche ora o giorno e tutto è diventato fumoso: la definizione è svanita per lasciare il posto all’impressione. E l’impressione non ha un vocabolario preciso.

La prima volta che ho sentito parlare di questo romanzo ero in quarta superiore. Studiavamo Macbeth e la prof di inglese ci parlò dell’Urlo e il furore. Disse che iniziava con a tale told by an idiot, il racconto di Ben, figlio demente dei Compson. Seguivano altri monologhi – quello dei fratelli Quentin e Jason e quello di Dilsey, la governante nera. I quattro monologhi ricostruiscono la storia di decadenza della famiglia Compson nel sud degli Stati Uniti, un’ambientazione a me familiare in quanto appassionata cultrice di Via col vento – e per tutto il libro non ho smesso di figurarmi Dilsey esattamente come Mami, pure la zdessa doppiatrice, badroncina. A parte gli scherzi, tra l’accenno della mia prof di inglese e la lettura di questo libro sono passati tantissimi anni, e questo per un motivo ben preciso: ero rimasta molto colpita dalla trama a cui la professoressa aveva accennato, ma avevo completamente scordato che libro fosse. A ricordarmelo hanno contribuito diversi fattori: il corso sul modernismo seguito all’università, per il quale ho letto Mentre morivo, e un fidanzato fissato con L’urlo e il furore (ciao, Marco!). Così, dopo tanti anni sono riuscita a colmare questo gap. So che a voi questi aneddoti non possono proprio interessare, ma a me piace ricostruire il sottile intrico di coincidenze che mi porta a certe letture piuttosto che ad altre.

La parte del romanzo che ho preferito è quella dedicata a Quentin. È un personaggio che ho sentito nelle mie corde, nonostante l’estrema pesantezza dello stile, e che mi ha ricordato il protagonista di Viaggio al termine della notte, lo stesso amalgama di lirismo e grottesco. Ho apprezzato molto anche le parti di Ben e Dilsey: la prima con qualche difficoltà, avendo impegnato molte delle mie risorse per ricostruire un ordine logico che, col senno di poi, non avevo alcun diritto di pretendere («full of sound and fury. Signifying nothing»)la seconda l’ho apprezzata in modo più intimo e disteso, le parole di Dilsey sono state un po’ un balsamo materno dopo l’impennata di odio di Jason. Ecco, il monologo di Jason l’ho detestato, letteralmente: non vedevo l’ora di arrivare in fondo, ero come un cavallo che sta per sgroppare, e questo dimostra l’estrema perizia ed efficacia della scrittura di odio, livore e grettezza mentale di cui Faulker è riuscito a dotare il suo personaggio.

Ma Faulkner dov’è in tutto questo? Ah, lui non c’è, non è in casa. Lo scrittore si è fatto piccolissimo, inconsistente, mere voce e penna a servizio della storia e dei personaggi. Sono pochi gli scrittori che riescono a lavorare con questa umiltà. Sono i grandi. 


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