«Allora Ben riprese a lamentarsi. Un
suono lungo e disperato. Non era nulla. Puro suono. Avrebbe potuto essere tutto
il tempo e l'ingiustizia e il dolore resi per un attimo vocali da una
congiunzione di pianeti».
Il modernismo è una brutta roba. Prendi un libro immenso come questo,
un universo ricreato in carta: lo leggi, assapori le parole una a una,
succhiando il midollo, e quel che ti resta alla fine è solo l’unto delle parole
sulle dita. Impressioni, pennellate, frammenti, non un messaggio completo da
poter mettere in tasca e tirar fuori a piacimento. Quello che resta di questo
romanzo sono colori, odori, dolori, sensazioni pungenti.
Mi è capitato più di una volta di uscire da un
romanzo con sensazioni come questa. Non a caso, si trattava di altri capolavori
indiscussi del modernismo, come Viaggio al termine della notte e Mrs. Dalloway: è la sensazione che, in fondo, non ci sia niente da dire, nessuna
parola di commento da aggiungere, perché non si riesce a riprodurre per
iscritto quello che l’esperienza di lettura è stata. Durante la lettura si
avevano delle percezioni molto intense, ma tempo qualche ora o giorno e tutto è
diventato fumoso: la definizione è svanita per lasciare il posto all’impressione.
E l’impressione non ha un vocabolario preciso.
La prima volta che ho sentito parlare di questo
romanzo ero in quarta superiore. Studiavamo Macbeth e la prof di inglese ci parlò dell’Urlo e il furore. Disse che
iniziava con a tale told by an idiot,
il racconto di Ben, figlio demente dei Compson. Seguivano altri monologhi –
quello dei fratelli Quentin e Jason e quello di Dilsey, la governante nera. I quattro
monologhi ricostruiscono la storia di decadenza della famiglia Compson nel sud
degli Stati Uniti, un’ambientazione a me familiare in quanto appassionata
cultrice di Via col
vento – e per tutto il libro non ho smesso di figurarmi Dilsey
esattamente come Mami, pure la zdessa
doppiatrice, badroncina. A parte gli scherzi, tra l’accenno della mia prof
di inglese e la lettura di questo libro sono passati tantissimi anni, e questo
per un motivo ben preciso: ero rimasta molto colpita dalla trama a cui la
professoressa aveva accennato, ma avevo completamente scordato che libro fosse.
A ricordarmelo hanno contribuito diversi fattori: il corso sul modernismo
seguito all’università, per il quale ho letto Mentre morivo, e un fidanzato fissato con L’urlo e il furore (ciao, Marco!). Così, dopo tanti anni sono
riuscita a colmare questo gap. So che
a voi questi aneddoti non possono proprio interessare, ma a me piace
ricostruire il sottile intrico di coincidenze che mi porta a certe letture
piuttosto che ad altre.
La parte del romanzo che ho preferito è quella
dedicata a Quentin. È un personaggio che ho sentito nelle mie corde, nonostante
l’estrema pesantezza dello stile, e che mi ha ricordato il protagonista di Viaggio al termine della notte, lo
stesso amalgama di lirismo e grottesco. Ho apprezzato molto anche le parti di
Ben e Dilsey: la prima con qualche difficoltà, avendo impegnato molte delle mie
risorse per ricostruire un ordine logico che, col senno di poi, non avevo alcun
diritto di pretendere («full of sound and
fury. Signifying nothing»); la seconda l’ho apprezzata in modo più intimo e disteso,
le parole di Dilsey sono state un po’ un balsamo materno dopo l’impennata di
odio di Jason. Ecco, il monologo di Jason l’ho detestato, letteralmente: non
vedevo l’ora di arrivare in fondo, ero come un cavallo che sta per sgroppare, e
questo dimostra l’estrema perizia ed efficacia della scrittura di odio, livore
e grettezza mentale di cui Faulker è riuscito a dotare il suo personaggio.
Ma Faulkner dov’è in tutto questo? Ah, lui non c’è,
non è in casa. Lo scrittore si è fatto piccolissimo, inconsistente, mere voce e
penna a servizio della storia e dei personaggi. Sono pochi gli scrittori che
riescono a lavorare con questa umiltà. Sono i grandi.
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