domenica 29 maggio 2016

Lettera d'amore in scrittura cuneiforme, Tomás Zmeskal

Sono un vecchio pazzo, quando si tratta di capire i sentimenti non arrivo nemmeno alla costellazione di lentiggini sulla tua caviglia destra.



Ho avuto la fortuna di leggere e recensire questo romanzo in occasione del Blogtour organizzato da Safarà Editore.  

Ambientato a Praga e in altre località della Repubblica Ceca, Lettera d'amore in scrittura cuneiforme racconta la storia di Josef e Květa, due amanti che le circostanze storiche e una beffarda asincronia portano a più di una separazione. In una vivida polifonia, le loro vicende si mescolano a quelle di parenti, amici o semplici conoscenti, che entrano nella storia con la prepotenza e l’originalità delle loro voci. Ne risulta una narrazione che abbonda di inciampi, divagazioni e cambi di stile: sospesa ma incredibilmente ricca...

Potete leggere la recensione completa qui.
buzzoole code

domenica 24 aprile 2016

L'urlo e il furore, William Faulkner

«Allora Ben riprese a lamentarsi. Un suono lungo e disperato. Non era nulla. Puro suono. Avrebbe potuto essere tutto il tempo e l'ingiustizia e il dolore resi per un attimo vocali da una congiunzione di pianeti».



Il modernismo è una brutta roba. Prendi un libro immenso come questo, un universo ricreato in carta: lo leggi, assapori le parole una a una, succhiando il midollo, e quel che ti resta alla fine è solo l’unto delle parole sulle dita. Impressioni, pennellate, frammenti, non un messaggio completo da poter mettere in tasca e tirar fuori a piacimento. Quello che resta di questo romanzo sono colori, odori, dolori, sensazioni pungenti.
Mi è capitato più di una volta di uscire da un romanzo con sensazioni come questa. Non a caso, si trattava di altri capolavori indiscussi del modernismo, come Viaggio al termine della notte e Mrs. Dalloway: è la sensazione che, in fondo, non ci sia niente da dire, nessuna parola di commento da aggiungere, perché non si riesce a riprodurre per iscritto quello che l’esperienza di lettura è stata. Durante la lettura si avevano delle percezioni molto intense, ma tempo qualche ora o giorno e tutto è diventato fumoso: la definizione è svanita per lasciare il posto all’impressione. E l’impressione non ha un vocabolario preciso.

La prima volta che ho sentito parlare di questo romanzo ero in quarta superiore. Studiavamo Macbeth e la prof di inglese ci parlò dell’Urlo e il furore. Disse che iniziava con a tale told by an idiot, il racconto di Ben, figlio demente dei Compson. Seguivano altri monologhi – quello dei fratelli Quentin e Jason e quello di Dilsey, la governante nera. I quattro monologhi ricostruiscono la storia di decadenza della famiglia Compson nel sud degli Stati Uniti, un’ambientazione a me familiare in quanto appassionata cultrice di Via col vento – e per tutto il libro non ho smesso di figurarmi Dilsey esattamente come Mami, pure la zdessa doppiatrice, badroncina. A parte gli scherzi, tra l’accenno della mia prof di inglese e la lettura di questo libro sono passati tantissimi anni, e questo per un motivo ben preciso: ero rimasta molto colpita dalla trama a cui la professoressa aveva accennato, ma avevo completamente scordato che libro fosse. A ricordarmelo hanno contribuito diversi fattori: il corso sul modernismo seguito all’università, per il quale ho letto Mentre morivo, e un fidanzato fissato con L’urlo e il furore (ciao, Marco!). Così, dopo tanti anni sono riuscita a colmare questo gap. So che a voi questi aneddoti non possono proprio interessare, ma a me piace ricostruire il sottile intrico di coincidenze che mi porta a certe letture piuttosto che ad altre.

La parte del romanzo che ho preferito è quella dedicata a Quentin. È un personaggio che ho sentito nelle mie corde, nonostante l’estrema pesantezza dello stile, e che mi ha ricordato il protagonista di Viaggio al termine della notte, lo stesso amalgama di lirismo e grottesco. Ho apprezzato molto anche le parti di Ben e Dilsey: la prima con qualche difficoltà, avendo impegnato molte delle mie risorse per ricostruire un ordine logico che, col senno di poi, non avevo alcun diritto di pretendere («full of sound and fury. Signifying nothing»)la seconda l’ho apprezzata in modo più intimo e disteso, le parole di Dilsey sono state un po’ un balsamo materno dopo l’impennata di odio di Jason. Ecco, il monologo di Jason l’ho detestato, letteralmente: non vedevo l’ora di arrivare in fondo, ero come un cavallo che sta per sgroppare, e questo dimostra l’estrema perizia ed efficacia della scrittura di odio, livore e grettezza mentale di cui Faulker è riuscito a dotare il suo personaggio.

Ma Faulkner dov’è in tutto questo? Ah, lui non c’è, non è in casa. Lo scrittore si è fatto piccolissimo, inconsistente, mere voce e penna a servizio della storia e dei personaggi. Sono pochi gli scrittori che riescono a lavorare con questa umiltà. Sono i grandi. 


giovedì 25 febbraio 2016

Il GGG, Roald Dahl

«Io è un diverso! Io è un gentile gigante confusionato! Io è il solo gentile gigante confusionato in tutto il Paese dei Giganti! Io è il GRANDE GIGANTE GENTILE! Io è il GGG. E qual è il tuo nome?»


Vi confesso un segreto. Questo è il mio primo Roald Dahl. Scandaloso, lo so: vero che non lo direte a nessuno? Conoscevo due storie di Dahl attraverso il filtro del cinema (Matilda sei mitica aka la mia infanzia & La fabbrica di cioccolato), ma non avevo mai letto niente di suo, pertanto era arrivato il momento di colmare questa vergognosa lacuna. Meglio tardi che mai, no?

Il GGG è la storia dell’amicizia tra l’orfanella Sofia e un Grande Gigante Gentile, che una notte rapisce la bambina dal dormitorio dell’istituto dove vive. Sofia è trasportata di peso nel Paese dei Giganti, i quali sono esattamente come la tradizione li dipinge: altissimi, mostruosi e ghiotti di esseri umani (popolli, per dirla come il GGG). Per la fortuna di Sofia, il GGG è l’unico gigante “vegetariano” di quella terra, anzi, un gigante buono, il cui lavoro consiste nel soffiare sogni nelle camere dei bambini addormentati. Superate le reciproche diffidenze, Sofia e il GGG si coalizzeranno per neutralizzare gli altri giganti e impedire loro di continuare a divorare indisturbati i popolli della terra.


Di questa storia ho apprezzato particolarmente l’ironia e il linguaggio. Ho trovato davvero buffa e divertente la strampalata lingua in cui il GGG si esprime, fornendo spunti per simpatiche gag. Avendo letto il libro in italiano, non so esattamente che lingua Dahl abbia immaginato per il suo personaggio, ma la traduzione di Donatella Ziliotto è spassosa, e tanto mi basta.

Credo che, al di là della sua destinazione infantile, il romanzo si presti a sottili spunti di riflessione. Mi ha particolarmente colpito un dialogo tra Sofia e il GGG, che scelgo di riportare per intero:

«Tu non dimentica» l’interruppe il GGG «che tra i popolli c’è tanta gente che scompare di continuo, anche senza che i giganti se li ciuccia. I popollani si fa fuori l’un l’altro molto più spesso di quanto i giganti li divora».
«Ma gli uomini non si mangiano reciprocamente» disse Sofia.
«Anche i giganti non si mangia tra loro» disse il GGG. «E loro nemmeno si uccide! I giganti non sarà educati, ma non si uccide tra loro. E neanche i cocodrindilli si uccide l’un l’altro, e i gattini non uccide gli altri gattini».
«Però i topi sì».
«Sì, ma lascia stare i loro concugini. I popolli della terra è i soli animali che uccide i suoi concugini». […]
«Io non riesce a capire i popollani» riprese il GGG; «tu per esempio è una popollina e dice che i giganti è abominoso e monstrevole perché mangia la gente. Chiaro o scuro?»
«Chiaro».
«Ma i popollani si imbudella tutto il tempo tra loro, si sparapacchia coi fucili e va sugli aeropalmi per tirarsi bombe sulla testa ogni settimana. I popollani uccide per tutto il tempo gli altri popollani».
Aveva ragione. Era evidente che aveva ragione, e Sofia lo sapeva. Stava cominciando a chiedersi se davvero gli uomini fossero migliori dei giganti. «Tuttavia» disse, cercando di difendere nonostante tutto i suoi simili, «ciò non impedisce che sia riprovevole che quegli orribili giganti se ne vadano ogni notte a mangiare gli esseri umani. Gli uomini non hanno mai fatto loro nulla di male».
«È quello che dice ogni giorno anche il porcellino. Dice: “Io non ha fatto mai nulla di male agli uomini e allora, perché loro mi mangia?”»
«In effetti…»
«I popolli inventa regole che gli va bene, ma sue regole non va bene al porcellino. Chiaro o scuro?»
«Chiaro» ammise Sofia.
«Anche i giganti inventa regole, e le sue regole non va bene ai popolli. Ognuno fa regole che va bene solo a se stesso».


Chiaro o scuro?


martedì 23 febbraio 2016

Sette minuti dopo la mezzanotte, Patrick Ness

«Le storie sono fra tutte le cose le più selvagge, tuonò il mostro. Le storie inseguono, predano e mordono».


 A un paio di settimane di distanza dal termine di questa lettura, mi rammarico di non aver scritto un rigo di commento. In realtà, questo romanzo di Patrick Ness merita più di un apprezzamento positivo. Innanzitutto per la delicatezza mai banale con cui affronta il tema della malattia di una persona cara, con grande sincerità e senza l’urgenza melodrammatica di trasformare il lettore in una valle di lacrime. L’ho trovata una scelta rispettosa e onesta.

Il protagonista, Conor, sa guadagnarsi la simpatia di chi legge, perché risulta ben delineato, complesso e, fino alla fine, indecifrabile. Il segreto che il bambino nasconde non è poi un colpo di scena, ma una conclusione naturale: non un fuoco d’artificio nella trama, quanto piuttosto un fiume che sfocia lento e fangoso ad estuario. È una bella vista.

Conor affronta da qualche tempo la malattia della madre, assistendola passo passo nelle cure. Questa assistenza e la condizione “speciale” di lei hanno però finito per emarginarlo, incastrandolo in una bolla di “specialità” – un velo di pietà attraverso cui tutti gli altri hanno cominciato a guardarlo, e a evitarlo di conseguenza. A scuola, il suo unico contatto rimasto è il bullo che lo ha preso di mira, a cui Conor si aggrappa come per avere la rassicurazione di esistere. Tutte le notti Conor fa un incubo, ma ecco che arriva una notte speciale: sette minuti dopo la mezzanotte, il tasso davanti casa sua prende vita e annuncia di avere tre storie da raccontargli, in cambio di una quarta, che sarà Conor a narrare. È qui che Ness fa del suo meglio, impedendo che l’albero scada nello stereotipo del vecchio saggio e che le storie siano bonarie favolette moraleggianti. Sia l’albero sia le storie raccontate possiedono un attraente cuore nero, che rende il romanzo davvero peculiare.

Regalerei questo libro a persone che stanno vivendo esperienze simili a quella di Conor. Credo che le parole di Ness possano, se non lenire il dolore, almeno far sentire meno soli.


mercoledì 6 gennaio 2016

Nove racconti, J.D. Salinger

«Poi accadde una cosa assolutamente orrenda. Mi trovai come trascinato a pensare che qualunque cosa facessi per diventare un uomo capace di amministrare la sua vita con distacco, con buon senso o con eleganza, sarei sempre stato tutt’al più un visitatore in un giardino di orinali e pappagalli smaltati, con una cieca divinità di legno ritta in un angolo, vestita d’un cinto armato».


Sono felice, persino orgogliosa di aver salutato il 2015 e inaugurato il 2016 in compagnia di un tipetto come Salinger. Feci la sua conoscenza nell’agosto del 2011: il romanzo era Il giovane Holden, mostro sacrissimo, e mi piacque molto. Da allora, ho preso a dividere le persone che incontro in due macro-categorie: quelle che amano Il giovane Holden (facciamo amicizia?) e quelle a cui non è piaciuto (shò). So che si tratta di un pregiudizio letterario bello e buono, ma statisticamente ho rilevato che tendo a instaurare rapporti d’amicizia con Holden-persone, mentre mi sento a disagio con non-Holden-persone. Se credete che il mio criterio per farsi buoni amici possa funzionare, siete liberi di adottarlo.

Nell’aprile del 2013 lessi Franny e Zooey. Mi piacque ancor di più e mi diede le risposte che cercavo in un periodo psicologicamente complicato. Dovessi attraversare un’altra crisi “mistica”, sarà il primo libro da cui tornerò.

Ora che ho letto i Nove racconti, penso che sia legittimo annoverare Salinger tra i miei scrittori preferiti (alias miti letterari irraggiungibili e luminosi) e credo anche che trarrò la più grande soddisfazione da qualsiasi altro libro, racconto o lista della spesa da lui compilati.

Il modo in cui Salinger scrive è questo:
lui prende la penna e, come un pittore, appoggia prima un segno, poi l’altro. È una tecnica vagamente impressionista, senza disegno, un tocco di colore accostato al precedente. Pian piano si forma una figura riconoscibile. Pian piano la figura è inserita in uno spazio riconoscibile. Pian piano è diventata una realtà, un oggetto solido, con tutti i dettagli al suo posto, e colori vividissimi. Puoi domandarti il suo significato, ma l’impressione è che quel quadro rappresenti solo se stesso, in modo quasi sfacciato, enigmatico. Come la Colazione dei Canottieri di Renoir, la cui composizione ossessiona l’Uomo di Vetro nel Favoloso mondo di Amélie.

Il modo in cui Salinger scrive è questo:
essendo disperatamente umano. Non negando quel fondo di dolore che è caratteristico di ogni umana esperienza: l’esperienza della morte, l’esperienza della guerra, l’esperienza della crescita, l’esperienza dei rapporti interpersonali. Per Esmé: con amore e squallore: fa piangere, non leggetelo in treno. Salinger e Dostoevskij premono i piedini sullo stesso pedale misticamente sensibile della mia mente.

Il modo in cui Salinger scrive è questo:

perciò che gli eredi si sbrighino a tirare fuori i suoi manoscritti inediti, per Dio!