domenica 31 maggio 2015

E così vorresti fare lo scrittore, Giuseppe Culicchia

«Preparati. Se proprio vuoi fare lo scrittore, preparati. Ma preparati sul serio. Perché le ferrovie italiane, specie in provincia, sono quello che sono. […] Sappi che prima o poi ti inviteranno per esempio a Perugia, e a meno che tu non sia di Perugia scoprirai quanto sia difficile raggiungere Perugia, quale che sia la stazione di partenza». 


(Curiose coincidenze: mentre leggevo questa citazione, ero a bordo dell’Intercity che mi riportava verso casa, con 40 minuti di ritardo, in provincia di Perugia. Signor Culicchia, quanto la capisco!)

Ho acquistato questo manualetto attratta dal titolo e dalla graziosa copertina. Devo dire che non ha tradito le aspettative: è stata una lettura piacevole, che mi ha strappato più di una risata, ma che non manca di suscitare qualche amara riflessione sul mondo dell’editoria. Ripercorrendo le tappe della propria carriera, nelle sue gratificazioni ma anche e soprattutto nei suoi inconvenienti e nelle ricorrenti ossessioni, Culicchia restituisce un’immagine (credo) piuttosto sincera del lavoro di scrittore: mestiere di cui molti hanno un’idea abbastanza romantica e che, invece, è soggetto a necessità e compromessi del tutto prosaici, al pari di qualsiasi altra professione. 

Per chi è interessato a pubblicare o ha appena pubblicato qualcosa o comunque ambisce a un posto tra gli addetti ai lavori, il libro può avere una certa utilità. Un’utilità, per così dire, smaschera-sogni, che cinicamente decostruisce una o due centinaia di illusioni. Per questo consiglierei di prenderlo col sorriso sulle labbra, in modo da non farsi smorzare ogni entusiasmo. 

Credo che il panorama dell’editoria sia un po’ cambiato rispetto allo scenario descritto da Culicchia: oggi il canale del self-publishing, sempre più utilizzato, sta allevando scrittori (polemica: dobbiamo/possiamo definirli/ci tali?) sempre più disincantati, per i quali l’accesso al Dorato Mondo delle Lettere non è più una meta così ambita né auspicabile e che sanno per primi re-inventarsi imprenditori di se stessi. Si parte, insomma, con qualche illusione in meno, con qualche abilità in più. Se questo sia un bene o un male, non so dire: penso solo che la paura di fallire o anche un pregiudizio verso i tradizionali canali dell’editoria non dovrebbero impedirci la felice ingenuità del tentativo. E, soprattutto, niente dovrebbe intaccare la felicità di scrivere, unico motivo legittimo per “voler fare lo scrittore”.


venerdì 29 maggio 2015

Niels Lyhne, Jens Peter Jacobsen


«Era stanco di se stesso, dei suoi freddi pensieri e dei suoi sogni. La vita un poema! Non quando si passa il tempo a poetare sulla vita invece di viverla. Com’era priva di contenuto, vuota, vuota, vuota! Ah, quel continuo andare a caccia di se stesso, spiando scaltramente le proprie impronte, in un eterno girare in tondo; quell’apparente tuffarsi nel fiume della vita, e intanto starsene seduto a gettar l’amo, aspettando di pescare se stesso sotto chissà quale travestimento! Ah, se solo si fosse decisa a venire finalmente – la vita, l’amore, la passione – così che smettesse di farvi sopra della poesia, per lasciare che fosse la vita stessa a farsi poesia con lui». 



È una di quelle rare occasioni in cui credo di aver poco da aggiungere alla citazione iniziale, se non questo: mai come leggendo Niels Lyhne mi sono resa conto che in un romanzo dell’800 si può trovare tutto quel che cerchiamo, risposte a domande che non abbiamo mai osato formulare, sfumature di sentimento per le quali non siamo riusciti a trovare una corrispondenza verbale. Jacobsen, come molti colleghi del secolo, sembra possedere quella conoscenza della natura umana che ce lo rende estremamente caro e che, allo stesso tempo, lo allontana inesorabilmente da noi, figli di due secoli di dubbio e di rifiuto della conoscenza.
Niels, protagonista del romanzo, ha la grazia di un personaggio di Čechov: animato da una grandissima fame di vita, non riesce tuttavia a compiere il passo di vivere. La sua esistenza si svolge in un interminabile sogno: sogna l’amore – e non lo raggiunge che per istanti fugaci; sogna di essere poeta – ma non sente mai arrivato il momento di offrire al mondo la propria poesia. Così nell’attesa vediamo svolgersi la sua vita, vuota, sempre più vuota, coerentemente con la fede atea e nichilista che lo muove. Una rosa di delicatissimi personaggi gli fa da contorno: Bartholine, madre di Niels («In mezzo a tutta quella bellezza lei rimaneva con il suo inappagato desiderio di bellezza in cuore»); Erik, l’artista che nel rumore del mondo perde la sua musa; la signora Boye; Fennimore. Nel tratteggiare i personaggi femminili Jacobsen dà il meglio di sé, dimostrando una rara e stupefacente capacità di penetrazione, che apre nell’animo grandi squarci di chiaroveggenza. 
Se volessimo trovare un tema, dovremmo dire che Niels Lyhne è il romanzo della «nostalgia della vita: non di una sua forma particolare e determinata di cui si lamenti la mancanza, ma della vita in sé, come se essa stessa fosse assente» (Claudio Magris). Per questo non può che trattarsi di un libro doloroso, amaro, impietosamente pessimista, ove non è prevista alcuna forma di catarsi. Conoscersi non salva. 

Di Chiara Pagliochini

martedì 12 maggio 2015

Un'altra Penelope. Capitolo 2



L’altro giorno ho fatto leggere alla psicologa queste mie pagine. Scorreva le righe dietro le lenti degli occhiali quadrati: un sorriso tenue, vagamente ironico, le macchiava le labbra. Le ho chiesto che cosa ne pensasse. Ha sollevato lo sguardo e ha risposto:
« Penso che ci sia molta verità, ma anche molta bugia ».
« Come in un qualsiasi libro », ho osservato.
« Non le avevo chiesto di scrivere un libro. Volevo che scrivesse per conoscersi, per ricostruirsi ».
Per un paio di minuti siamo rimaste in silenzio. Indubbiamente ha ragione. Come posso sperare di rimettere in ordine i tasselli della mia vita, se mi ostino a sottrarre le tessere?
« Tuttavia, trovo in queste pagine un certo atteggiamento costruttivo », ha aggiunto poco dopo, restituendomi le carte, « Nella descrizione di questi luoghi e di sua nonna emerge un sentimento come di autenticità, una vera partecipazione emotiva, che mi sembrano molto diversi dagli stati d’animo emersi finora. Quanti anni sono trascorsi dalla morte di sua nonna? »
« È stato circa vent’anni fa ».
« Ed è da vent’anni che non torna laggiù? »
« No, fino ai quattordici andavo una volta al mese, poi è morto anche mio nonno e sono rimasti soltanto gli zii. Una zia. Sono quattro anni che non la vedo ».
« Non vorrebbe andare a trovarla? »
« Non siamo mai state molto legate ».
La psicologa si è tolta gli occhiali e li ha puliti con l’orlo della camicetta.
« Credo che le farebbe bene un weekend fuori, da quelle parti », ha ripreso, come seguendo una sua linea di pensiero, per niente scalfita dalle mie risposte, « Potrebbe riportare alla luce certi altri ricordi di questo genere, certe emozioni… Un’altra Penelope, da tempo dimenticata».
« Non penso che i miei mi lascerebbero andare ».
« Non credo che possano trattenerla, alla sua età. A meno che non sia lei a volerlo ».
Ho visto una corda, una cordicina sottile avvitarmisi su per la caviglia come un pampino. Nessuno la vedeva, a parte me. Nessuno sentiva il suono dello sfregamento.
« Ha fatto l’esercizio che le ho chiesto? »
« Quale? », ho domandato, non priva di una certa ironia. Infatti, non passa incontro senza che mi assegni uno o due paia di esercizi, tra i quali questa trascrizione dei miei ricordi.
 « Quello di immedesimazione: provare a guardarsi come pensa che la guardino i suoi genitori ».
« No, non ancora ».
« Sarebbe il caso che provasse », ha detto, maestra esigente, « Questo e il suo weekend fuori ».
Devo preparare bene il terreno. Dopo cena – come quando, al cinema, un ragazzo ti fa cadere la mano sul ginocchio o come si attinge a un cioccolatino da un vassoio – devo affrontare l’argomento, infilare nella conversazione quel piccolo indizio, l’idea di un weekend fuori, da sola, dalla zia. La zia Nadia che non vedo da tanto tempo.
Le facce dei miei genitori sono un film già visto. Mia madre, le labbra semi-aperte su un rifiuto gentile, ragionevole. Mio padre, fronte e sopracciglia aggrottate. Mia sorella che sbatte la porta: sta uscendo. Esercizio di immedesimazione.

Questa è mia figlia Penelope a cinque anni. Indossa lo scamiciato che le ha cucito zia Nadia, a quadrettini bianchi e neri. Non è molto diversa da adesso: sempre magrolina è stata e il petto non le è cresciuto più di tanto, perché ha sviluppato presto. I capelli hanno lo stesso taglio, lunghi alle spalle, con la frangia sugli occhi. Era biondina, poi con gli anni ha cominciato a tingersi; adesso, da un paio di mesi, ha un rosso bordò che fa a pugni col suo incarnato: sotto la frangia, nell’alone delle occhiaie, gli occhi sembrano due perle che stanno per rotolare fuori. Stringe fra le braccia il suo giocattolo preferito, un cavallino di legno a rotelle con una cordicina per trascinarlo.
Spesso, quando aveva dieci mesi, la lasciavamo da sola nel box. Era una bambina molto tranquilla, non piangeva mai e non faceva capricci. Sapeva come distrarsi da sola, coi giocattoli che coprivano il fondo del box, i suoi pupazzi e anche quel cavallino che le aveva regalato nonno Antonio. Ma un giorno era troppo quieta. La trovai con la corda del cavallino intorno al collo. Per gioco, per disgrazia o già per volontà precisa, ci si era arrotolata dentro. Non respirava quasi più. La corsa in ospedale. L’angoscia. Il darsi già vinta come madre, così tanti anni fa.
Ci sopravvisse, forse solo per lo sfizio di darci altri dolori. Come quella volta, a quindici anni, che tornava da una festa. Le avevamo dato il coprifuoco, mio marito ed io: non sarebbe dovuta rientrare più tardi dell’una. All’una e cinque sentii la chiave girare nella toppa; era la prima volta che stava fuori fino a tardi e non ero riuscita a prendere sonno. Mi infilai le ciabatte e percorsi il corridoio d’ingresso, per assicurarmi che stesse bene. Si era tolta gli stivali di camoscio e vomitava sul tappeto. Per un attimo restai immobile, sospesa nella luce soffusa del corridoio, e non dissi niente. La osservai piegata in due, coi capelli spostati da un lato, un nuovo conato che le usciva di bocca. Corsi a prendere degli stracci, della carta da cucina. Mi avvicinai, le tirai su la testa e le pulii gli angoli della bocca. Inaspettatamente, mi sorrise. Un sorriso così volgare, maligno, che sembrava compiangere la mia innocenza.
« Ti senti male? Tanto male? », le chiesi, tenendola piano per una spalla. Lei fece di sì con la testa. « Cosa hai mangiato? Hai mangiato qualcosa che ti ha fatto male? »
Ancora di sì con la testa.
« Ho mangiato… troppo », rispose con voce incerta, strascicata.
« Ti senti di vomitare ancora? »
« No, no ».
« Allora vieni a stenderti un po’ sul divano ».
Mi seguì docilmente, per mano. La aiutai a distendersi e la coprii con un plaid a quadretti.
« Vuoi qualcosa di caldo? Ti farà stare meglio ».
« No, grazie. Puoi tornare a dormire, mamma, sto bene, tanto bene », disse, guardandomi coi suoi occhi sporgenti.
Girai l’angolo che separava la sala dalla zona notte e mi appoggiai alla parete, a occhi chiusi. Qualsiasi altro genitore, mi dicevo, avrebbe fatto lo stesso: ignorato i segnali, soccorso un figlio che stava male, qualunque fosse il motivo, riservandosi altre domande per il giorno seguente e punizioni all’occorrenza. Ma era la prima volta che mi sentivo tradita da mia figlia, la prima volta che i suoi occhi e le sue labbra non mi si rivolgevano con sincerità, ma si aprivano, sincronizzati, a una bugia. Una pessima bugia, che io stessa le avevo servito perché ne facesse uso nel momento del bisogno. Non abbiamo parlato il giorno seguente, né quello dopo. La sua prima sbronza, la sua prima volta, la sua prima canna: sono cose che non ha mai voluto condividere con me. Metti al mondo un figlio ed è orribile che in certi punti le vostre strade divergano, che ci siano dei coni d’ombra.
Certi problemi mio marito non se li pone. Vuole proteggere, ma non conoscere. Ai suoi occhi, Penelope è sempre stata una cosa fragile, innocente, un soprammobile che può andare in pezzi al primo alito di vento dalla finestra aperta. Eppure, il suo compito come genitore sembra quello di renderla più forte. « Vammi a comprare le sigarette, Penelope. Sei grande abbastanza, Penelope. Puoi fare qualsiasi cosa tu voglia, Penelope ». Così, a me tocca proteggerla, da se stessa e da lui: da questa corazza impenetrabile, color arancio, che si è costruita su un’ossatura di vetro. Perché io so che mia figlia è meno forte, meno capace di quanto le abbiamo insegnato a credere. Io so che quella finestra è aperta e resterà sempre aperta e non ci sarà nessuno, fuori di me, a proteggerla da quella folata.

« Non mi sembra una buona idea », ha detto mia madre, leggendo dal suo copione. Ho infilato in bocca una forchettata d’insalata, come se le sue parole non mi colpissero troppo.
« Sarebbero solo un paio di giorni », ho risposto lentamente, scegliendo con cura le parole, « Ma se non vi fidate di me… »
« Ma certo che ci fidiamo di te », è intervenuto mio padre, a quel punto. Ho premuto il tasto giusto.
« Certo che ci fidiamo di te », mia madre, la sua voce bugiarda, il tono ridicolmente basso, quasi un fruscio, « Non si tratta di questo. È che mi fa stare in ansia il pensiero di te, in viaggio da sola, dopo quello che è successo. Spero mi capirai ».
« Ma non sarà da sola. Mia sorella baderà a lei ».
Era il momento buono: ero riuscita a metterli l’uno contro l’altra e non mi restava che attendere l’esito dello scontro, in silenzio, concentrata sull’insalata. Intanto mia sorella si è affacciata in cucina, tutta agghindata, e ha salutato.
« Dove vai? », ho chiesto, improvvisamente molto interessata a lei.
« Esco con Marco », ha risposto, mentre si chinava ad allacciarsi un sandalo.
È uscita sbattendo la porta: non avevo bisogno d’altro.
« Come mai », ho buttato lì, « mia sorella non deve mai rendere conto a nessuno, mentre io sì? »
Mia madre è diventata rossa, non ha retto più:
« Tanto per cominciare, non ha provato ad impiccarsi! »
Mi sono alzata e sono andata in camera mia.
Al mattino, la valigia era pronta. Ho messo per ultimo lo spazzolino da denti e chiuso la zip. Mamma era in cucina a fare colazione: quando mi ha vista trascinare il trolley, il cucchiaino ha tintinnato contro il bordo della tazza.
« Fai sul serio? »
« Sì, mamma ».
« Per favore, non partire ».
Nei suoi occhi ho visto il guizzo del cordone ombelicale, allacciato intorno al mio collo. Saliva spiraliforme, stringendo, mozzandomi il fiato.
« Ci vediamo lunedì », ho mormorato. Ora non ne sono più così convinta.

Questa è mia figlia Penelope a venticinque anni. Trascina la valigia per il corridoio, prende in mezzo il tappeto e non perde tempo a sistemarlo. Sbatte la porta. Questa è mia figlia Penelope mentre mi uccide. Arriva per tutte le madri il momento di essere uccise: ma una figlia, un’altra donna, uccide più lentamente e più subdolamente di un maschio. Le piace prolungare l’agonia. È un veleno che goccia nel sangue dal momento in cui la metti al mondo e che diventa letale dopo dieci-ventimila dosi, finché non si è tutto sostituito al tuo sangue, e sei solo veleno.


martedì 5 maggio 2015

Un'altra Penelope. Capitolo 1


« Ti abbiamo riacciuffata per i capelli », è la seconda cosa che mi ha detto mio padre, quando mi sono svegliata nel letto dell’ospedale. La prima, « Penelope », il mio nome, pronunciato piano, più come una madre che come un padre.
Intanto, il mio corpo riprendeva coscienza di sé. Avevo un tubicino infilato nella narice destra. Papà mi ha fatto segno di non toccarlo: era fissato al naso con un cerotto. Nell’altra estremità del sondino gocciolava del liquido da una sacca sospesa a un trespolo. La stanza era bianca, quadrata: a destra e a sinistra, come due ladroni, altre persone giacevano in altri letti. Avevo vergogna di guardarle, ma avvertivo la loro presenza e quella di molteplici altri che si affaccendavano intorno a quei letti. Davanti al mio, solo mio padre, nei cui occhi scuri e fissi cercavo un appiglio. La sua mano ha trovato la mia sotto il lenzuolo di cotone; le nostre dita si sono strette. Mi è sembrato un gesto antico, a cui non ero più abituata. Mi sono sentita come il relitto di un’altra epoca, naufragata tra quelle lenzuola per uno scherzo del tempo. E forse era proprio così.
Adesso, anche l’ospedale è un ricordo, uno di quei ricordi che la psicologa mi incoraggia a trascrivere « con metodo e onestà ». Ma che onestà ci può mai essere nel racconto della propria vita? Eppure, secondo lei, ricostruire la catena di azioni e di pensieri che mi hanno portata in quel letto d’ospedale può servire. Alla comprensione, se non all’accettazione del mio stato. Alla rassegnazione, io credo. Mi devo rassegnare alla vita.
« Dovrebbe guardare alla sua vita come se fosse una storia. Ecco, lei è un personaggio di questa storia. Insieme a lei, tanti personaggi vi compaiono, personaggi il cui cammino si è incrociato e si incrocerà col suo in variabili impreviste. Se lei potesse guardare alla sua vita come a una storia, capirebbe che lì dentro ha un ruolo. In una storia non si danno personaggi inutili. Lei non è inutile, Penelope. Nessuna delle persone della sua vita lo è. E, se potesse pensare al ruolo che certe persone della sua vita hanno avuto per lei, forse capirebbe che ruolo ha avuto lei per loro. Che ruolo potrà ancora avere ».
Così, la prima storia che voglio inseguire è quella di mia nonna. L’ultimo ricordo che ho di lei è una mano grinzosa e sottile appoggiata alla carrozzina di mia sorella, nata da qualche giorno. È il 1995: la nonna sarebbe morta qualche mese più tardi. Morì con una certa grazia, una certa noncuranza. Un pomeriggio, appena tornata da scuola, mi dissero che era morta. Così, riversa sul pavimento della sua casa. Fu un dolore piccolo, com’era piccolo il mio cuore, o forse è il tempo che l’ha reso così marginale. Di lei ricordo il viso rugoso, gli occhi piccoli e infossati e un sorriso che le si apriva ai lati della bocca formando due fossette curiose. Abitava in campagna, insieme a mio nonno, nel piccolo paese umbro in cui trascorrevo le vacanze. Sono tanti anni che non ci vado – non credo tornerò – ma suppongo non sia cambiato molto. Torre Lorenzetta, si chiama: una manciata di case appollaiate su una collina. Intorno prati, campi coltivati, boschi. Tra un campo e l’altro sorgevano baracche con pochi attrezzi: una vanga, dei sacchi, una motozappa. Erano costruzioni di mattoni o di tufo, tenute insieme dalla calce viva, con una copertura di tegole o ancora di pannelli di eternìt. Ogni giorno, per tutta l’estate, un vecchio col cappello stinto accendeva un falò nella sua parte di campo, per bruciare stoppie o chissà che carcasse. Sul paesaggio si stendeva una cortina di fumo così familiare ai miei occhi da non infastidirmi più di una lente. Ed è attraverso questa lente che osservo la mia infanzia e i suoi numi tutelari: i miei nonni.
La nonna era una donna fiera, caparbia. Alla morte del padre aveva ereditato un piccolo podere, sul quale aveva edificato il suo impero: un allevamento di maiali. Una volta la settimana, mentre il nonno curava l’orto e la vigna, lei portava i maiali al mercato, per venderli. Me la vedo davanti, in coda a una processione di suini recalcitranti, che mena colpi col bastone. Al tempo della mia nascita, l’allevamento era già un capitolo chiuso della sua vita, ma fu sempre aperto per me nei suoi racconti. In passato, raccontava, i maiali si macellavano tutti lo stesso giorno, in un angolo della piazza del paese; li si sgozzava uno dopo l’altro, e il sangue defluiva giù dalla collina, usando la strada che digradava verso i campi come il letto di un fiume.
Il suo racconto più bello parlava di quando, durante la guerra, era andata a cercare mio nonno, che era partito nel ’41 lasciandola con due figli piccoli, i miei zii. Lettere ne riceveva di rado, e vaghe; alcune avevano grossi passaggi cancellati in nero dagli uomini della censura. Nell’inverno del ’43 il nonno si trovava in Grecia ed era stato preso prigioniero dagli inglesi. « Penso sempre a te in quest’isola dove si spala la nebbia », scriveva. Secondo un detto locale, « l’isola dove si spala la nebbia » è Corfù: ma questo i signori della censura non potevano saperlo, e non censurarono. Passarono i mesi e ancora nell’estate del ’45 non c’erano novità. Anzi, il nonno aveva smesso di scrivere. Angosciata, nonna decise di andare a cercarlo. Dalla fattucchiera del paese.
La fattucchiera si chiamava Atina e abitava in una catapecchia ai piedi del colle, vicino alle fontane. Era agosto inoltrato e l’aria era tutta un gracidare di rane e frenesia di cicale. Quando smettevano di frinire, sembrava che qualcuno avesse spento il giorno e ti saliva la sudarella. Atina era nell’aia, seduta su un ceppo, e intrecciava un cesto di vimini. Era una donna alta e secca, con una gran massa di capelli grigi, intricati, che la facevano sembrare un roveto. Mia nonna la salutò e scoperchiò il cestino con le vivande che aveva portato in dono. Dentro c’erano una bottiglia di vino, una di olio, cinque uova e un piatto di poltriccette, succulente frittelle di fiori di zucca. Atina approvò con un cenno del capo.
« Ti devo togliere il malocchio? », domandò.
« No, non vengo per questo ».
« Ma il malocchio ce l’hai? »
« Come faccio a saperlo? »
« Allora vieni dentro che ci guardiamo ».
La nonna la seguì oltre la porta sgangherata: la casetta si teneva su per miracolo. Alzando la testa, vide che mancavano delle tegole e la trave centrale era infiocchettata di ragnatele. In un angolo, proprio sotto il tetto, aveva fatto il nido una rondine: il pigolio dei rondinotti era stridulo, quasi assordante. Atina le indicò una sedia malferma, poi prese da una mensola un piatto fondo, miracolosamente illeso. Vi versò dell’acqua da una brocca, fino al bordo, e lo appoggiò sul tavolo, spingendolo fin sotto il naso della nonna.
« Marianna », disse e, allungandosi verso di lei, le fece tre segni di croce davanti agli occhi. Nonna li socchiuse, per non doverla guardare da così vicino, e la udì mormorare parole sconnesse. Poi Atina si allontanò e, toccando il bordo del piatto con la mano sinistra, ripeté con la destra i tre segni di croce, stavolta sulla sua fronte, mormorando le stesse, oscure parole. Quindi prese dal cesto dei viveri la bottiglia d’olio, la aprì e ne versò nell’acqua cinque gocce. Col fiato sospeso, nonna osservò quello stillicidio silenzioso: le gocce cadevano nell’acqua e vi restavano come imprigionate, galleggiando sulla superficie. Atina le appuntò in faccia uno sguardo insoddisfatto:
« Niente malocchio », disse.
« Non ero venuta per questo », ripeté la nonna.
« Potevi ben averlo ».
« Nessuno mi vuole male ».
« Dicono tutti così… Perché sei venuta? »
« Per Antonio. È sei mesi che non ricevo la posta. Magari tu riesci a vedere dove sta ».
« Certo che ci riesco. Per chi mi hai presa? », sbottò Atina, alzandosi. Prese il piatto e lo svuotò dell’acqua attraverso una finestrella, poi ne versò di nuova. Nonna osservava i suoi gesti, chiedendosi che cosa avrebbe architettato stavolta.
« Va’ fuori », disse quella, « E raccoglimi da terra tre pietruzze. Una rotonda, una quadrata e una triangolare ».
Nonna fece come le veniva detto e ispezionò l’aia fino a che non ebbe trovato delle forme soddisfacenti. Quindi rientrò e le depose nel palmo aperto della strega, che annuì con compiacenza.
« Puoi farmi solo tre domande », spiegò, « Ogni sasso è una domanda. Quando cadono nell’acqua, i cerchi che si formano ci daranno la risposta».
« L’hai già fatto altre volte? »
« Certo. Per chi mi hai presa? »
Mentre il sasso rotondo cadeva nel piatto, la nonna chiese:
« Antonio sta bene? »
Atina spiò le onde concentriche, poi il suo viso angustiato.
« Sta bene, benone », rispose.
Dal petto di nonna si alzò un sospiro di sollievo. Qualcosa le si levò dallo stomaco e poté tornare a respirare.
« Dove sta? », domandò alla pietra quadrata.
« Sta in campagna », rispose Atina, « Un posto come questo, ma col mare vicino. Si chiama Shendelli ».
« E dove si trova? »
« Questa è un’altra domanda. Devi farla all’altro sasso ».
« Non voglio farla all’altro sasso. Volevo che mi rispondessi tutto insieme».
« Purtroppo i cerchi mi hanno detto solo questo ».
Sbuffando, la nonna si concentrò sulla terza domanda. Cosa voleva sapere? Cosa l’avrebbe fatta stare meglio? Mentre la terza pietruzza colpiva la superficie dell’acqua, lo seppe:
« Cosa sta facendo? »
Atina osservò l’increspatura fino al suo morire. Quindi alzò gli occhi ed esitò un attimo prima di rispondere.
« Allora? »
« Mangia un pollo ».
« Un pollo », ripeté la nonna, incredula.
« Mangia un pollo su una cassetta ribaltata ».
Nonna si alzò urtando il tavolo e le onde nel piatto furono tante e turbolente che la visione di Atina si oscurò. Non avrebbe dovuto portarle tutte quelle uova.
Un anno e mezzo dopo, quando nonno tornò dalla guerra, ricordò che quel giorno, un anno e mezzo prima, aveva mangiato un pollo su una cassetta ribaltata. Gliel’aveva cucinato una contadina a cui aveva chiesto un posto dove stare. E quel pollo doveva essergli piaciuto proprio tanto, se s’era fermato in quella fattoria per un’altra annata, nonostante la guerra fosse finita e gli inglesi – dai quali era riuscito a scappare a nuoto, buttandosi a mare da una barca che lo stava riportando sul continente – non sentissero il bisogno di cercarlo. Quel che combinò mio nonno nei Balcani per un anno e mezzo nessuno lo sa e ormai non può più raccontarlo. La nonna sapeva che certe cose era meglio non saperle. Ma non per questo fu meno contenta che, anche in ritardo, fosse tornato. Tant’è che quasi subito concepirono mio padre. Ma una cosa, una cosa mitica e strana è certa: nell’agosto del 1945 mio nonno Antonio si trovava a Shëndëlli, in Albania, e mangiava un pollo su una cassetta ribaltata.

In una storia non si danno personaggi inutili, dice la mia psicologa. Ma la vita non è una storia, sebbene tendiamo a raffigurarcela come tale. Nella vita il superfluo, l’incoerente sono all’ordine del giorno e nessuno interviene mai a sfrondarli. A meno che non decidiamo di farlo noi. Io avevo deciso di farlo, nell’unico modo che conosco e che ci è dato per sottrarci alla nostra pochezza. Ma mia sorella, quella sera, aveva bisticciato col suo fidanzato, che l’aveva riportata a casa prima del previsto. Così mi ha trovata sul letto, svenuta, con accanto il flaconcino aperto dei sonniferi di mia madre. I miei genitori erano al cinema: ha chiamato loro, poi l’ambulanza.
« Prometti di non farlo più », ha detto mio padre, stringendomi la mano sotto il lenzuolo, come quando da piccola, in spiaggia, mi allontanavo dalla sua vista. Gli ho detto quello che voleva sentirsi dire, ma non sono sicura che sia la verità. Eppure lascio aperta la porta, aspetto: la storia di mia nonna insegna che la verità ti arriva per vie misteriose.

L'avversario, Emmanuel Carrère

« Sono sicuro che non stia recitando per ingannare gli altri, mi chiedo però se il bugiardo che c’è in lui non lo stia ingannando. […] Non sarà caduto ancora una volta nella rete dell’Avversario? »


La storia di Jean-Claude Romand, raccontata da Carrère in questo strano reportage, è la più autentica dimostrazione del fatto che la realtà supera di gran lunga la fantasia. Nel gennaio del 1993 Romand stermina la sua intera famiglia: padre, madre, moglie e i due figli piccoli. Non contento, cerca di uccidere anche la sua amante. Il giorno dopo gli omicidi, non prima di essere uscito a comprare il giornale e aver guardato un po’ di tv, tenta goffamente di suicidarsi appiccando il fuoco alla sua casa. Ma il tentativo è, per l’appunto, tanto maldestro – e forse neanche realmente tale – che i pompieri riescono a domare le fiamme e a salvarlo. Risvegliatosi dal coma, Romand cerca dapprima di attribuire la responsabilità delle sue azioni a un misterioso aggressore vestito di nero, poi confessa tutti gli omicidi. Ma non è tutto. Emerge, infatti, quello che è il lato più paradossale della vicenda: per diciotto anni Romand ha ingannato la sua famiglia, i suoi amici e tutti i suoi conoscenti fingendo di essere laureato in Medicina e di occupare un prestigioso posto di ricercatore presso l’OMS. In aggiunta a questo, ha simulato un cancro terminale e truffato familiari e amici per convincerli ad affidargli ingenti somme di denaro, promettendo di investirle in Svizzera e di farle fruttare e utilizzandole invece per mantenere un tenore di vita medio-alto, che non avrebbe potuto offrire alla sua famiglia in altro modo. Ma tutto questo non sarebbe davvero straordinario se nessuno – davvero nessuno in diciotto anni – avesse anche solo dubitato della sua sincerità. No, per tutto quel tempo il dottor Romand è apparso agli occhi della sua famiglia e della sua comunità come il più onesto, il più infaticabile, il più noioso uomo che ci fosse al mondo.
« Durante tutta l’istruttoria il giudice non riusciva a capacitarsi che quelle telefonate non fossero state fatte prima, non con malizia o sospetto, ma solo perché è assurdo che uno, per quanto sia un tipo “a compartimenti stagni”, lavori dieci anni senza che sua moglie o i suoi amici lo chiamino mai in ufficio, roba da non credere. Impossibile pensare a questa storia senza immaginare che sotto ci sia un mistero, una spiegazione nascosta. Il mistero, però, è che non esistono spiegazioni, e per quanto inverosimile possa sembrare, questo è ciò che è accaduto ».

Carrère ricostruisce puntualmente la vicenda, basandosi non solo sui fascicoli processuali, ma partecipando in prima persona al processo e intrattenendo una corrispondenza con lo stesso Romand. Nonostante questa sua attiva partecipazione, il personaggio Romand continua a sfuggirgli. Lo scrittore non ne fa certo un’apologia, e neanche definitivamente lo condanna. Quel che mi pare di capire è che egli – come noi, posti davanti a certi efferati fatti di cronaca – non lo capisca. Talmente contradditorio, beffardo, straordinario e irritante è Jean-Claude Romand, non un uomo con una personalità ben formata, ma piuttosto un individuo nudo, privo di una psicologia decifrabile, rivestito solo di bugia. Il lettore segue la storia di Jean-Claude con un certo interesse, misto anche di stupore e di raccapriccio. Questo impedisce, certo, che si senta qualche legame emotivo con la scrittura e, in questo caso, è bene così. Un buon Carrère, il mio primo, e credo non sarà l’ultimo.