martedì 12 maggio 2015

Un'altra Penelope. Capitolo 2



L’altro giorno ho fatto leggere alla psicologa queste mie pagine. Scorreva le righe dietro le lenti degli occhiali quadrati: un sorriso tenue, vagamente ironico, le macchiava le labbra. Le ho chiesto che cosa ne pensasse. Ha sollevato lo sguardo e ha risposto:
« Penso che ci sia molta verità, ma anche molta bugia ».
« Come in un qualsiasi libro », ho osservato.
« Non le avevo chiesto di scrivere un libro. Volevo che scrivesse per conoscersi, per ricostruirsi ».
Per un paio di minuti siamo rimaste in silenzio. Indubbiamente ha ragione. Come posso sperare di rimettere in ordine i tasselli della mia vita, se mi ostino a sottrarre le tessere?
« Tuttavia, trovo in queste pagine un certo atteggiamento costruttivo », ha aggiunto poco dopo, restituendomi le carte, « Nella descrizione di questi luoghi e di sua nonna emerge un sentimento come di autenticità, una vera partecipazione emotiva, che mi sembrano molto diversi dagli stati d’animo emersi finora. Quanti anni sono trascorsi dalla morte di sua nonna? »
« È stato circa vent’anni fa ».
« Ed è da vent’anni che non torna laggiù? »
« No, fino ai quattordici andavo una volta al mese, poi è morto anche mio nonno e sono rimasti soltanto gli zii. Una zia. Sono quattro anni che non la vedo ».
« Non vorrebbe andare a trovarla? »
« Non siamo mai state molto legate ».
La psicologa si è tolta gli occhiali e li ha puliti con l’orlo della camicetta.
« Credo che le farebbe bene un weekend fuori, da quelle parti », ha ripreso, come seguendo una sua linea di pensiero, per niente scalfita dalle mie risposte, « Potrebbe riportare alla luce certi altri ricordi di questo genere, certe emozioni… Un’altra Penelope, da tempo dimenticata».
« Non penso che i miei mi lascerebbero andare ».
« Non credo che possano trattenerla, alla sua età. A meno che non sia lei a volerlo ».
Ho visto una corda, una cordicina sottile avvitarmisi su per la caviglia come un pampino. Nessuno la vedeva, a parte me. Nessuno sentiva il suono dello sfregamento.
« Ha fatto l’esercizio che le ho chiesto? »
« Quale? », ho domandato, non priva di una certa ironia. Infatti, non passa incontro senza che mi assegni uno o due paia di esercizi, tra i quali questa trascrizione dei miei ricordi.
 « Quello di immedesimazione: provare a guardarsi come pensa che la guardino i suoi genitori ».
« No, non ancora ».
« Sarebbe il caso che provasse », ha detto, maestra esigente, « Questo e il suo weekend fuori ».
Devo preparare bene il terreno. Dopo cena – come quando, al cinema, un ragazzo ti fa cadere la mano sul ginocchio o come si attinge a un cioccolatino da un vassoio – devo affrontare l’argomento, infilare nella conversazione quel piccolo indizio, l’idea di un weekend fuori, da sola, dalla zia. La zia Nadia che non vedo da tanto tempo.
Le facce dei miei genitori sono un film già visto. Mia madre, le labbra semi-aperte su un rifiuto gentile, ragionevole. Mio padre, fronte e sopracciglia aggrottate. Mia sorella che sbatte la porta: sta uscendo. Esercizio di immedesimazione.

Questa è mia figlia Penelope a cinque anni. Indossa lo scamiciato che le ha cucito zia Nadia, a quadrettini bianchi e neri. Non è molto diversa da adesso: sempre magrolina è stata e il petto non le è cresciuto più di tanto, perché ha sviluppato presto. I capelli hanno lo stesso taglio, lunghi alle spalle, con la frangia sugli occhi. Era biondina, poi con gli anni ha cominciato a tingersi; adesso, da un paio di mesi, ha un rosso bordò che fa a pugni col suo incarnato: sotto la frangia, nell’alone delle occhiaie, gli occhi sembrano due perle che stanno per rotolare fuori. Stringe fra le braccia il suo giocattolo preferito, un cavallino di legno a rotelle con una cordicina per trascinarlo.
Spesso, quando aveva dieci mesi, la lasciavamo da sola nel box. Era una bambina molto tranquilla, non piangeva mai e non faceva capricci. Sapeva come distrarsi da sola, coi giocattoli che coprivano il fondo del box, i suoi pupazzi e anche quel cavallino che le aveva regalato nonno Antonio. Ma un giorno era troppo quieta. La trovai con la corda del cavallino intorno al collo. Per gioco, per disgrazia o già per volontà precisa, ci si era arrotolata dentro. Non respirava quasi più. La corsa in ospedale. L’angoscia. Il darsi già vinta come madre, così tanti anni fa.
Ci sopravvisse, forse solo per lo sfizio di darci altri dolori. Come quella volta, a quindici anni, che tornava da una festa. Le avevamo dato il coprifuoco, mio marito ed io: non sarebbe dovuta rientrare più tardi dell’una. All’una e cinque sentii la chiave girare nella toppa; era la prima volta che stava fuori fino a tardi e non ero riuscita a prendere sonno. Mi infilai le ciabatte e percorsi il corridoio d’ingresso, per assicurarmi che stesse bene. Si era tolta gli stivali di camoscio e vomitava sul tappeto. Per un attimo restai immobile, sospesa nella luce soffusa del corridoio, e non dissi niente. La osservai piegata in due, coi capelli spostati da un lato, un nuovo conato che le usciva di bocca. Corsi a prendere degli stracci, della carta da cucina. Mi avvicinai, le tirai su la testa e le pulii gli angoli della bocca. Inaspettatamente, mi sorrise. Un sorriso così volgare, maligno, che sembrava compiangere la mia innocenza.
« Ti senti male? Tanto male? », le chiesi, tenendola piano per una spalla. Lei fece di sì con la testa. « Cosa hai mangiato? Hai mangiato qualcosa che ti ha fatto male? »
Ancora di sì con la testa.
« Ho mangiato… troppo », rispose con voce incerta, strascicata.
« Ti senti di vomitare ancora? »
« No, no ».
« Allora vieni a stenderti un po’ sul divano ».
Mi seguì docilmente, per mano. La aiutai a distendersi e la coprii con un plaid a quadretti.
« Vuoi qualcosa di caldo? Ti farà stare meglio ».
« No, grazie. Puoi tornare a dormire, mamma, sto bene, tanto bene », disse, guardandomi coi suoi occhi sporgenti.
Girai l’angolo che separava la sala dalla zona notte e mi appoggiai alla parete, a occhi chiusi. Qualsiasi altro genitore, mi dicevo, avrebbe fatto lo stesso: ignorato i segnali, soccorso un figlio che stava male, qualunque fosse il motivo, riservandosi altre domande per il giorno seguente e punizioni all’occorrenza. Ma era la prima volta che mi sentivo tradita da mia figlia, la prima volta che i suoi occhi e le sue labbra non mi si rivolgevano con sincerità, ma si aprivano, sincronizzati, a una bugia. Una pessima bugia, che io stessa le avevo servito perché ne facesse uso nel momento del bisogno. Non abbiamo parlato il giorno seguente, né quello dopo. La sua prima sbronza, la sua prima volta, la sua prima canna: sono cose che non ha mai voluto condividere con me. Metti al mondo un figlio ed è orribile che in certi punti le vostre strade divergano, che ci siano dei coni d’ombra.
Certi problemi mio marito non se li pone. Vuole proteggere, ma non conoscere. Ai suoi occhi, Penelope è sempre stata una cosa fragile, innocente, un soprammobile che può andare in pezzi al primo alito di vento dalla finestra aperta. Eppure, il suo compito come genitore sembra quello di renderla più forte. « Vammi a comprare le sigarette, Penelope. Sei grande abbastanza, Penelope. Puoi fare qualsiasi cosa tu voglia, Penelope ». Così, a me tocca proteggerla, da se stessa e da lui: da questa corazza impenetrabile, color arancio, che si è costruita su un’ossatura di vetro. Perché io so che mia figlia è meno forte, meno capace di quanto le abbiamo insegnato a credere. Io so che quella finestra è aperta e resterà sempre aperta e non ci sarà nessuno, fuori di me, a proteggerla da quella folata.

« Non mi sembra una buona idea », ha detto mia madre, leggendo dal suo copione. Ho infilato in bocca una forchettata d’insalata, come se le sue parole non mi colpissero troppo.
« Sarebbero solo un paio di giorni », ho risposto lentamente, scegliendo con cura le parole, « Ma se non vi fidate di me… »
« Ma certo che ci fidiamo di te », è intervenuto mio padre, a quel punto. Ho premuto il tasto giusto.
« Certo che ci fidiamo di te », mia madre, la sua voce bugiarda, il tono ridicolmente basso, quasi un fruscio, « Non si tratta di questo. È che mi fa stare in ansia il pensiero di te, in viaggio da sola, dopo quello che è successo. Spero mi capirai ».
« Ma non sarà da sola. Mia sorella baderà a lei ».
Era il momento buono: ero riuscita a metterli l’uno contro l’altra e non mi restava che attendere l’esito dello scontro, in silenzio, concentrata sull’insalata. Intanto mia sorella si è affacciata in cucina, tutta agghindata, e ha salutato.
« Dove vai? », ho chiesto, improvvisamente molto interessata a lei.
« Esco con Marco », ha risposto, mentre si chinava ad allacciarsi un sandalo.
È uscita sbattendo la porta: non avevo bisogno d’altro.
« Come mai », ho buttato lì, « mia sorella non deve mai rendere conto a nessuno, mentre io sì? »
Mia madre è diventata rossa, non ha retto più:
« Tanto per cominciare, non ha provato ad impiccarsi! »
Mi sono alzata e sono andata in camera mia.
Al mattino, la valigia era pronta. Ho messo per ultimo lo spazzolino da denti e chiuso la zip. Mamma era in cucina a fare colazione: quando mi ha vista trascinare il trolley, il cucchiaino ha tintinnato contro il bordo della tazza.
« Fai sul serio? »
« Sì, mamma ».
« Per favore, non partire ».
Nei suoi occhi ho visto il guizzo del cordone ombelicale, allacciato intorno al mio collo. Saliva spiraliforme, stringendo, mozzandomi il fiato.
« Ci vediamo lunedì », ho mormorato. Ora non ne sono più così convinta.

Questa è mia figlia Penelope a venticinque anni. Trascina la valigia per il corridoio, prende in mezzo il tappeto e non perde tempo a sistemarlo. Sbatte la porta. Questa è mia figlia Penelope mentre mi uccide. Arriva per tutte le madri il momento di essere uccise: ma una figlia, un’altra donna, uccide più lentamente e più subdolamente di un maschio. Le piace prolungare l’agonia. È un veleno che goccia nel sangue dal momento in cui la metti al mondo e che diventa letale dopo dieci-ventimila dosi, finché non si è tutto sostituito al tuo sangue, e sei solo veleno.


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