giovedì 25 febbraio 2016

Il GGG, Roald Dahl

«Io è un diverso! Io è un gentile gigante confusionato! Io è il solo gentile gigante confusionato in tutto il Paese dei Giganti! Io è il GRANDE GIGANTE GENTILE! Io è il GGG. E qual è il tuo nome?»


Vi confesso un segreto. Questo è il mio primo Roald Dahl. Scandaloso, lo so: vero che non lo direte a nessuno? Conoscevo due storie di Dahl attraverso il filtro del cinema (Matilda sei mitica aka la mia infanzia & La fabbrica di cioccolato), ma non avevo mai letto niente di suo, pertanto era arrivato il momento di colmare questa vergognosa lacuna. Meglio tardi che mai, no?

Il GGG è la storia dell’amicizia tra l’orfanella Sofia e un Grande Gigante Gentile, che una notte rapisce la bambina dal dormitorio dell’istituto dove vive. Sofia è trasportata di peso nel Paese dei Giganti, i quali sono esattamente come la tradizione li dipinge: altissimi, mostruosi e ghiotti di esseri umani (popolli, per dirla come il GGG). Per la fortuna di Sofia, il GGG è l’unico gigante “vegetariano” di quella terra, anzi, un gigante buono, il cui lavoro consiste nel soffiare sogni nelle camere dei bambini addormentati. Superate le reciproche diffidenze, Sofia e il GGG si coalizzeranno per neutralizzare gli altri giganti e impedire loro di continuare a divorare indisturbati i popolli della terra.


Di questa storia ho apprezzato particolarmente l’ironia e il linguaggio. Ho trovato davvero buffa e divertente la strampalata lingua in cui il GGG si esprime, fornendo spunti per simpatiche gag. Avendo letto il libro in italiano, non so esattamente che lingua Dahl abbia immaginato per il suo personaggio, ma la traduzione di Donatella Ziliotto è spassosa, e tanto mi basta.

Credo che, al di là della sua destinazione infantile, il romanzo si presti a sottili spunti di riflessione. Mi ha particolarmente colpito un dialogo tra Sofia e il GGG, che scelgo di riportare per intero:

«Tu non dimentica» l’interruppe il GGG «che tra i popolli c’è tanta gente che scompare di continuo, anche senza che i giganti se li ciuccia. I popollani si fa fuori l’un l’altro molto più spesso di quanto i giganti li divora».
«Ma gli uomini non si mangiano reciprocamente» disse Sofia.
«Anche i giganti non si mangia tra loro» disse il GGG. «E loro nemmeno si uccide! I giganti non sarà educati, ma non si uccide tra loro. E neanche i cocodrindilli si uccide l’un l’altro, e i gattini non uccide gli altri gattini».
«Però i topi sì».
«Sì, ma lascia stare i loro concugini. I popolli della terra è i soli animali che uccide i suoi concugini». […]
«Io non riesce a capire i popollani» riprese il GGG; «tu per esempio è una popollina e dice che i giganti è abominoso e monstrevole perché mangia la gente. Chiaro o scuro?»
«Chiaro».
«Ma i popollani si imbudella tutto il tempo tra loro, si sparapacchia coi fucili e va sugli aeropalmi per tirarsi bombe sulla testa ogni settimana. I popollani uccide per tutto il tempo gli altri popollani».
Aveva ragione. Era evidente che aveva ragione, e Sofia lo sapeva. Stava cominciando a chiedersi se davvero gli uomini fossero migliori dei giganti. «Tuttavia» disse, cercando di difendere nonostante tutto i suoi simili, «ciò non impedisce che sia riprovevole che quegli orribili giganti se ne vadano ogni notte a mangiare gli esseri umani. Gli uomini non hanno mai fatto loro nulla di male».
«È quello che dice ogni giorno anche il porcellino. Dice: “Io non ha fatto mai nulla di male agli uomini e allora, perché loro mi mangia?”»
«In effetti…»
«I popolli inventa regole che gli va bene, ma sue regole non va bene al porcellino. Chiaro o scuro?»
«Chiaro» ammise Sofia.
«Anche i giganti inventa regole, e le sue regole non va bene ai popolli. Ognuno fa regole che va bene solo a se stesso».


Chiaro o scuro?


martedì 23 febbraio 2016

Sette minuti dopo la mezzanotte, Patrick Ness

«Le storie sono fra tutte le cose le più selvagge, tuonò il mostro. Le storie inseguono, predano e mordono».


 A un paio di settimane di distanza dal termine di questa lettura, mi rammarico di non aver scritto un rigo di commento. In realtà, questo romanzo di Patrick Ness merita più di un apprezzamento positivo. Innanzitutto per la delicatezza mai banale con cui affronta il tema della malattia di una persona cara, con grande sincerità e senza l’urgenza melodrammatica di trasformare il lettore in una valle di lacrime. L’ho trovata una scelta rispettosa e onesta.

Il protagonista, Conor, sa guadagnarsi la simpatia di chi legge, perché risulta ben delineato, complesso e, fino alla fine, indecifrabile. Il segreto che il bambino nasconde non è poi un colpo di scena, ma una conclusione naturale: non un fuoco d’artificio nella trama, quanto piuttosto un fiume che sfocia lento e fangoso ad estuario. È una bella vista.

Conor affronta da qualche tempo la malattia della madre, assistendola passo passo nelle cure. Questa assistenza e la condizione “speciale” di lei hanno però finito per emarginarlo, incastrandolo in una bolla di “specialità” – un velo di pietà attraverso cui tutti gli altri hanno cominciato a guardarlo, e a evitarlo di conseguenza. A scuola, il suo unico contatto rimasto è il bullo che lo ha preso di mira, a cui Conor si aggrappa come per avere la rassicurazione di esistere. Tutte le notti Conor fa un incubo, ma ecco che arriva una notte speciale: sette minuti dopo la mezzanotte, il tasso davanti casa sua prende vita e annuncia di avere tre storie da raccontargli, in cambio di una quarta, che sarà Conor a narrare. È qui che Ness fa del suo meglio, impedendo che l’albero scada nello stereotipo del vecchio saggio e che le storie siano bonarie favolette moraleggianti. Sia l’albero sia le storie raccontate possiedono un attraente cuore nero, che rende il romanzo davvero peculiare.

Regalerei questo libro a persone che stanno vivendo esperienze simili a quella di Conor. Credo che le parole di Ness possano, se non lenire il dolore, almeno far sentire meno soli.