venerdì 29 luglio 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap. 1

Cat in the Grass by *sesfitts
Una grossa goccia di caffè cadde sulla prima pagina, diluendo la faccia di un primo ministro. La grassa M del titolo di testa sbiadì e si contorse come un lombrico, colando lieve ai lati. Mi affrettai a togliere la tazzina dal giornale, confinandola nell’angolo più lontano del tavolo. Asciugai la chiazza, ma non ci fu verso. Il primo ministro era e restava leggermente beige. Pregai che non lo venisse a sapere.
Ogni mattina facevo colazione in un piccolo bar di Piazza Tre Venti, cornetto e caffè o cornetto e cappuccino. La proprietaria non era una bellezza, ma ci sapeva fare col gomito, quando lucidava di forza il bancone. Mi divertivo ad osservarle i seni costretti dentro la camicetta bianca.
Compravo un paio di quotidiani nell’edicola a cento metri da casa e una copia del giornale locale, per tenermi aggiornato. Li sfogliavo distratto piluccando un croissant o leggevo qualche paragrafo tra un sorso e l’altro di caffè. I quotidiani non mi interessavano, ma leggerli bisognava leggerli, almeno per sapere di cosa parlare durante il giorno. La gazzetta locale, invece, era tutto colore, dall’articolo sugli allevatori di conigli a quello sulla raccolta differenziata.
La proprietaria venne a portar via la tazzina e, guardandomi coi suoi occhi di gatta, chiese implorante:
« Ti porto altro? »
« No, no grazie » sorrisi di rimando.
Non mi piaceva, ma volevo tenermi aperto uno spiraglio, nel caso un giorno avessi avuto bisogno di contatto umano.
Spolverai dalla tovaglia le briciole di cornetto, piccoli ritagli di pasta sfoglia e un puntino di crema, poi aprii il giornale locale e ne distesi pian piano le pagine. Ogni momento andava gustato fino in fondo. Il cinema aveva aumentato di un euro il costo del biglietto. La moglie del sindaco era stata vista a spasso con un altro. Una signora si lagnava della fossa settica intasata. A marzo uno scrittore dava una conferenza. Andavo fuori di testa per la sezione degli annunci. Cercasi badante automunita. Cedesi attività commerciale ben avviata in Via Bramante. Laureanda in Lingue e Lettere Straniere offre ripetizioni di tedesco a prezzi modici. Regalasi cuccioli di pastore tedesco. Vendesi autoradio con ingresso mp3 quasi nuova. Una volta avevo composto il numero scritto in grassetto per il solo gusto di sentire quanto volevano per un’aquila reale impagliata.
C’erano anche riquadri pubblicitari, sgraziati box celesti o gialli in cui campeggiavano lettere minute. Pizzeria Da Massimo. Vanni Autobus a Nolo. Il Serraglio Verde, lo spaccio per mangimi in cui lavoravo. Le loro grafie contorte o avvitate come pampini mi erano ormai familiari: era raro che un nuovo spazio pubblicitario si andasse ad aggiungere a quelli degli storici commercianti locali. Ma quel giorno una piccola nuvola violetta in alto a destra di pagina 6 attirò la mia attenzione. Ero sicuro, totalmente sicuro che quella fosse la sua prima comparsa. Come ero sicuro di essere il primo, forse il primo in tutta la città, in tutta la provincia, ad averla notata. Agenzia Persefone, Agenzia Persefone, pensate! Che delicata sfumatura e che promessa di sicuro successo commerciale.
Avevo bisogno di un’Agenzia Persefone? Cosa poteva offrirmi la loro nuvola paffuta? Lessi la dicitura sotto il nome, scritto a caratteri cubitali. “Tutto il conforto che avete sempre desiderato nei vostri momenti difficili. Assistenza terapeutica e sostegno psicologico sempre a portata di cornetta. Chiamateci e fissate un incontro con i nostri operatori: saremo ben lieti di porgervi orecchio”. Seguiva un numero verde.
Doveva essere una di quelle discrete, moderne macchine succhia-soldi. Si cominciava con un piccolo amuleto, poi un mucchietto di sale, qualche mazzetta dentro una busta da lettere, una pacca sulle spalle. Mi chiedevo perché il Comune autorizzasse simili scempiaggini. Di lì a un mese ci saremmo trovati sul collo tutta la troupe di Striscia la Notizia, ne ero certo.
Richiusi il giornale e lo arrotolai insieme cogli altri, cacciandoli sotto al braccio, poi mi avvicinai alla cassa stringendo tra le dita una banconota da cinque euro. La proprietaria mi fece scivolare nel palmo un paio di monete di resto.
Quando non pioveva raggiungevo a piedi l’ufficio e difatti quella mattina non pioveva. Via Bramante era deserta, salvo pochi passanti. Una signora coi capelli raccolti aveva portato fuori il cane. Un ragazzo sui sedici avviava il motorino. Qualcuno faceva uscire da un garage una Panda celeste. L’orologio segnava le otto e mezza: l’assenza dei miei sonnacchiosi compaesani era giustificabile. Difficile da giustificare era invece il mio datore di lavoro. Non capivo perché si dovesse aprire così presto, visto che non c’era un cliente prima delle dieci.
La serranda del Serraglio era già sollevata. Un operaio stava scaricando da un furgoncino bianco dei sacchi di becchime per polli. Il proprietario sovrintendeva allo smistamento nei vari reparti del locale.
« Attento, se mi butti giù quei vasi li paghi, eh! » ringhiava, senza muovere un passo « Dì là, di là, quello è dei conigli! Ma non avevo ordinato questa qualità, che roba sarebbe, con cosa la fanno? Non vogliamo grane, noi! »
Il proprietario era grosso, scorbutico, una palla al piede. Per fortuna io lavoravo in ufficio, un piano sopra il negozio: rispondevo al telefono, mi occupavo degli ordini, contrattavo sul prezzo. Non lo vedevo che all’entrata e all’uscita.
Lo salutai con un cenno, poi mi fiondai su per le scale, gettando appena un’occhiata al vasto intrico di scaffali e di sacchi, grosse teste di animale che gongolavano dagli incartamenti, una pila di voliere accatastate. Al secondo piano c’erano due uffici e un bagno. Un ufficio era il mio, l’altro di Greta, la contabile. Mi affacciai sulla porta per salutarla e la trovai dietro la scrivania, come di consueto, i grossi occhi nei grossi occhiali rotondi fissi sul monitor del pc. Alzò la testa, facendo ondeggiare la coda di cavallo, e disse:
« Buongiorno! »
« Problemi con gli ordini? » chiesi, indicando col dito un piano sotto.
« Al solito. S’è svegliato male » fece lei, rilassando le spalle.
I suoi occhi a palla non erano belli sul viso sottile, dal mento allungato, ma erano rassicuranti. Rassicurazione, ecco cosa si poteva sempre trovare in Greta.
La lasciai che si accaniva sulla tastiera con le unghie laccate di rosa e aprii la porta del mio ufficio. La stanza aveva il familiare odore di mangimi che filtrava dal piano di sotto. È difficile descrivere di che odori si tratti a chi non l’abbia mai avvertito di suo. È un odore di animali ma neanche poi tanto, l’odore dei campi concimati quando è piovuto, quel pizzicore alle narici. Penserete che, sentendolo tutti i giorni, uno dovrebbe esserci abituato, così abituato da non farci più caso. In realtà non è facile abituarsi a un odore, quando si vive in più odori allo stesso tempo. La mia cucina sapeva di cavolo, il bagno di dopobarba, il bar di caffè espresso, l’ufficio di mangimi. Nel passare dal tanfo di cavolo a quello di mangimi si coglie sempre la differenza e, nel breve lasso di tempo in cui l’avverti, rimpiangi sempre l’odore che c’era prima.
Il pianale della scrivania era disseminato di carte: carte appallottolate, pile di carta, un aeroplano di carta, una carta di caramella. Far pulizia non era propriamente il mio forte. Anche il cestino della carta straccia traboccava e dovetti esercitare una certa pressione per persuaderlo ad accettare nuovi occupanti. Quando lo schermo del pc risultò visibile al di sotto della montagna di spazzatura, giudicai che fosse il momento di sedermi.
Impiegai circa mezzora a riordinare le fatture che si erano accumulate tra lunedì e martedì. Badai che non me ne sfuggisse nessuna e le catalogai per entità dell’importo. Non mi piaceva che Greta pensasse che ero trascurato. Feci qualche telefonata: dovevo informarmi sul prezzo di una marca di lettiera profumata al limone e fissare una consegna per il giorno seguente.
Verso le dieci e dieci risposi a una chiamata del canile. Una donna dalla voce monotona ordinò venti sacchi di croccantini per cani da 3 euro e 99 l’uno, sette nuove ciotole di plastica blu, dieci ossi finti e dodici confezioni di crocchette per gatti. Trascrissi tutto su un post-it, poi chiesi:
« È sicura sulle crocchette per gatti? »
« Certo, sicura, dodici pacchi. »
« Ma davvero sicura? »
« C’è qualche problema? »
« No, no, nessun problema. La consegna è domani col resto. Ma mi chiedevo se... » prolungai volutamente la pausa, in modo da accrescere la sua curiosità. E difatti la signora non smentì la sua natura di Pandora.
« Che cosa? » domandò, un tono sopra il normale.
« Ho sentito storie sulle crocchette per gatti che la farebbero rabbrividire. »
« Oh bella, che storie? » adesso aveva una voce da sorcetto.
« Uno che le produce lo raccontava il mese scorso. Contengono degli additivi chimici che provocano assuefazione. Come una droga, capisce? »
« E poi? »
« Eh, poi i gatti non possono mangiare altro che quelle. Sono come in astinenza. »
«Oh, povere creature. Che si fa dunque? »
« Disdico l’ordine? »
La donna ci pensò su un secondo. La sentii respirare all’altro capo della cornetta.
« No, no » disse lentamente « Non saprei che altro dar loro da mangiare. »
A malincuore rinunciai a tracciare una riga sopra la dicitura “Croccantini Miau dodici pacchi”. Riepilogai il tutto, ringraziai e riagganciai. Mi sentivo pesante.
Greta sbirciò dalla soglia con un sorriso.
« Di nuovo la storia dei croccantini » mi canzonò.
Io le sorrisi in risposta, incerto. Nessuno voleva mai prendermi sul serio.

Quando rientrai a casa erano le cinque e trentacinque. Ryanair mi accolse con uno zampettare deciso sul pavimento bianco, i cuscinetti adiposi che attutivano il rumore. Mi si strusciò contro le gambe e prese a miagolare. Io appesi la giacca a un gancio, poi mi chinai per accarezzarlo tra le orecchie. Il pelo era ruvido: aveva bisogno di un bagno. Anch’io avevo bisogno di un bagno, decisi, avvertendo il discreto odore di cavolo della cucina.
In camera mi spogliai e gettai i pantaloni nella cesta della biancheria, che traboccava quanto quella della carta. Era ora di passare in lavanderia. Aprii la finestra per arieggiare la stanza, coperta e lenzuolo ancora abbracciati l’uno all’altra, spossati come dopo un lunghissimo amplesso. Ero disordinato, disordinato da morire.
Riempii la vasca fino a metà, saggiando la temperatura dell’acqua di tanto in tanto. Versai una generosa quantità di bagno schiuma e restai ad osservare le bolle che scoppiavano allegre. Ryanair allungò una zampetta per ghermirne una.
« Adesso fuori! » tuonai. Non so perché, ma spogliarmi davanti a lui mi imbarazzava.
Il gatto filò via a coda dritta.
Scavalcai la vasca con una gamba e mi accasciai contro lo smalto bianco, le mani che penzolavano fuori. Fissavo il tubo dello scaldabagno, facendo il punto della situazione. La fornitura per il canile. La lavanderia. Telefonare alla mamma. La cena. Doveva esserci del prosciutto avanzato. Forse era rancido. L’avrebbe mangiato Ryanair. Carciofi sott’olio? Decisamente no. Decisi che era meglio una spaghettata.
L’acqua mi puliva il corpo dagli odori. L’aiutai con la spugna e mi feci uno shampoo. Quando non rimasero più bolle e le mie gambe furono tutte visibili sotto la superficie crespa, mi alzai e mi avvolsi nell’accappatoio. Dopo sarebbe toccato a Ryanair.  
Mi frizionai i capelli con l’asciugamano e uscii dal bagno, trascinando a penzoloni la cintura dell’accappatoio. Ryanair cercò di acchiapparla mentre strisciava sul pavimento. In frigo c’era effettivamente del prosciutto. Aprii l’involto e lo annusai: mandava ancora un buon odore. Lo tagliai a striscioline sottili e riempii la ciotola di Ryanair, che si mise a masticare con avidità. Quando ebbe finito, guardò in su attraverso gli occhi gialli e si leccò i baffi.
« Dopo la pasta » dissi.
Composi dal fisso il numero di mia madre. Stava facendo le tagliatelle per domenica.
« Il pranzo, te lo ricordi? » mi chiese in apprensione.
« Sì, certo » mentii convincente.
« Viene anche Raffa. »
« Anche i bambini? »
« Dove pensi che li lasci? »
« Certo. »
Mia sorella si trascinava sempre dietro un chiassoso stuolo di marmocchi, età imprecisata tra gli otto e i tre. Non che non mi piacessero, no, ma non ero abituato ad averli attorno. Il più piccolo mi si arrampicava sulle ginocchia e pretendeva di giocare a un gioco che non conoscevo, cavallino cavallino o qualcosa del genere. Era seccante fare brutte figure con un bambino.
La mamma mi chiese se mangiavo, come stava Greta, se sarebbe venuta, se il lavoro andava bene, e il gatto?
« Devo fargli il bagno. »
« Non si fa il bagno ai gatti! » protestò.
« Solo perché tu non glielo fai. »
La gente dalle mie parti era disgustosamente pragmatica.
Fu un sollievo quando potei lasciar cadere la cornetta e sprofondare nel divano, telecomando alla mano.
E fu in quel momento, mentre alla tv andava la striscia quotidiana del Grande Fratello e Ryanair premeva la testa contro le mie gambe nude e l’accappatoio mi si incollava freddo alle scapole, fu in quel momento che tutta la giornata mi cadde addosso, come faceva quasi sempre a quell’ora. Era uno strano precipitare su se stessa, un accartocciarsi del tempo, un contrarsi delle distanze. Spezzoni di ore mi ripassavano davanti agli occhi, insignificanti, neppure troppo umoristici. Potevo passare dall’uno all’altro proprio come cambiavo canale col telecomando, ma non cambiava la sostanza delle immagini, come il tg di Italia Uno non era migliore di Pinco Pallino al Grande Fratello. Le inquadrature erano piatte ed irritanti. La mia vita e la mia giornata non avevano un senso, ecco cosa dicevano i primi piani. Ieri era uguale a oggi che sarebbe stato uguale a domani. Tanto valeva spegnere la tv e spegnersi lì, in quel momento, sul divano, con l’accappatoio addosso e Ryanair che miagolava per le stanze vuote, cercando qualcuno che gli riempisse la ciotola.
Tutto il conforto che avete sempre desiderato nei vostri momenti difficili. Come aveva ragione quell’Agenzia Persefone. Certi momenti erano davvero difficili. Ma non perché succedeva qualcosa di brutto. La verità è che non succedeva niente.
Saremo ben lieti di porgervi orecchio. Davvero, volete davvero ascoltare la mia voce? Le vostre orecchie si staccherebbero per la noia, i vostri operatori si appisolerebbero sulla cornetta.
Ebbene, se siete così gentili e disponibili, tanto vale provare. Un numero verde non costa niente e Ryanair ha sempre fame.
Trascinai di una ventina di centimetri il tavolinetto del telefono, per averlo a portata di mano senza alzarmi dal divano. Ryanair mi fissò con aria sospettosa.
« Zitto » lo liquidai.
Composi il numero controllando dal giornale. Sbagliai a digitare e ricominciai da capo. Gli otto e i tre mi si confondevano negli occhi, completandosi o dimezzandosi a vicenda. Tu-tu-tu. Tre tu, poi lo scatto.
« Risponde l’Agenzia Persefone! »
Mi affrettai a riagganciare. Ryanair mi saltò in grembo e cominciò ad arrotare le unghie sull’accappatoio, come se volesse punirmi per quella stramberia. Gli accarezzai la testa e ricomposi diligente il numero.
« Risponde l’Agenzia Persefone. »
Meno squillante di prima, forse rattristata di aver perso un potenziale cliente.
« Buonasera » dissi, imbarazzato.
« Buonasera, in cosa possiamo esserle utili? »
Silenzio. In cosa potevano essermi utili? Pensavo che mi avrebbero chiesto di scegliere un piano tariffario. La voce era quieta, ma affabile: cercava di mettermi a mio agio. In cosa potevano essermi utili? Cosa facevano esattamente?
Ma sembrava che il mio silenzio fosse abbastanza esplicito per l’interlocutore.
« Ci ha già provato? »
Provato? Non sapevo.
« Sì » risposi, dandomi un tono deciso.
« Quante volte? »
« Una. »
« Come? »
Di nuovo silenzio.
« Non importa, non importa, non si preoccupi. Ora come sta? »
« Meglio. »
« È già qualcosa. Ha parenti, amici che possano aiutarla? »
« No, non vicino. »
« Ne ha parlato con altri? »
« No. »
« Non le fa bene. Dovrebbe parlarne con qualcuno. Scriva, almeno. »
« Ho un gatto. »
« Ne parli con lui. Verbalizzare fa sempre bene, anche se non c’è nessuno ad ascoltarci. »
La voce era tesa. Ho già detto che era una voce femminile? Non particolarmente acuta, non brillante come quella di Greta, della barista, della donna-canile, ma certo femminile, dal tono materno. Più materna della voce di mia madre.
« Ha pensato di riprovare? »
« Sì…no. »
Qual era la risposta corretta?
Ma la donna all’altro lato non sembrò preoccuparsene:
« La capisco, mi creda, la capisco. In entrambi i casi, sappia che può sempre contare su di noi. Deve imparare a fidarsi del suo prossimo, ad aprirsi al mondo, a costringerlo a piegarsi alle sue decisioni. Le sue decisioni sono importanti, capisce? Lei è importante. Le sue decisioni devono essere rispettate. »
Il tono era in qualche modo alterato, ora:
« E non creda a quello che le diranno. Il potere di decidere spetta soltanto a lei. Ma dev’essere una decisione consapevole, non la risposta a un impulso. E noi siamo qui per questo, per aiutarla ad attuare la sua decisione nel miglior modo possibile e guidarla attraverso questa fase delicata. »
« Certo » risposi stupidamente « E vi ringrazio. »
« È il nostro lavoro » si giustificò lei, vergognosa.
« Vuole che le fissi un appuntamento? » chiese.
« Sì. »
« Va bene domani? »
« Sì. »
« In che fascia oraria lo preferisce? L’agenda è sgombra. »
« Nella pausa pranzo, possibilmente. Tra l’una e le tre. »
« Le due va bene? »
« Perfetto. »
« Perfetto. Allora a domani, signor… »
Ryanair miagolò di rabbia. Lo stavo ignorando da troppi minuti. Strisciò deciso il muso contro il mio torace.
« Signor Ryan Air. »
« A domani, signor Air. E si ricordi, verbalizzi! »
Il tu-tu cadde sulla voce di mia madre. La cornetta mi sfuggì dalle mani e cadde sulla testa del gatto, che saltò giù dal divano.
« Dove vai? » dissi piano « Dobbiamo parlare. »
Per tutta risposta Ryanair alzò la coda e orinò contro il divano.

Di Chiara Pagliochini

mercoledì 27 luglio 2011

Furore - John Steinbeck


Se vi dicono che Furore è un libro sulla Grande Depressione Americana, credeteci, ma non del tutto.  Siamo dopo il tracollo finanziario del ’29, storico giovedì nero. Ci sono il Presidente Roosevelt e la sua politica per risollevare gli USA dal tracollo, il celebre New Deal. E c’è nel vostro libro di storia un minuscolo paragrafo che dice così: “la riduzione della produzione agricola prevista dall’Agricultural Adjustement Act arrestò la caduta dei prezzi, ma causò l’espulsione dalle campagne di vaste masse di contadini senza lavoro”. Ecco, in questo paragrafo da libro di storia, che nemmeno avete evidenziato di giallo tanto è anonimo, germogliano le quasi 500 pagine di Furore.
Se vi dicono che Furore è un libro sull’odissea della famiglia Joad, contadini dell’Oklahoma che si trasferiscono avventurosamente in California, credeteci, ma non del tutto. L’Odissea è quella di centinaia di migliaia di contadini in marcia attraverso il continente americano alla ricerca di una nuova Terra Promessa, con le casette bianche e i frutti che pendono dai rami pronti ad essere colti. L’Odissea è quella dell’Umanità in viaggio, di qualunque fetta di Umanità costretta a migrare per sottrarsi alla miseria ed approdare forse a una miseria maggiore. L’Odissea è quella dei barconi libici che approdano sulle coste di Lampedusa. L’Odissea è quella dei nostri trisnonni che si accalcavano sui parapetti per spiare la statua della Libertà.
In Furore vedo sì il romanzo simbolo della Grande Depressione Americana, ma vedo tanto altro e quel tanto altro è più rilevante dell’effettivo contesto storico di riferimento. Altrimenti non mi spiegherei  perché questo libro possa parlare a me attraverso il tempo, me che la Grande Depressione Americana non ha sfiorato di pezzo, me che nemmeno ho studiato con interesse il libro di storia. E, per smentire Wikipedia, Furore non è neanche “un’opera a sostegno della politica del New Deal di Roosevelt”. Davvero? E dove? È mica nominato Roosevelt in questo libro? E all’Umanità allo sbaraglio, all’Umanità che non ha da mangiare, interessa per caso l’aspetto tecnico del New Deal? E un qualunque americano medio, leggendo questo romanzo, avrebbe forse dovuto sentirsi rincuorato sulle sorti del proprio paese? Decisamente no.
Furore è un romanzo imbevuto di tematiche sociali e, più che sociali, socialiste. Il rapporto ricchezza/povertà, schiavo/padrone, la logica del profitto, le minacce del progresso, le istanze rivoluzionarie, l’arma dello sciopero, l’egoismo e la solidarietà di classe, la presa di consapevolezza dei propri diritti di lavoratore ed essere umano. Sono solo alcune delle tematiche che percorrono l’opera, esplorate con straordinario acume e lucidità, senza risparmiare nulla, senza censura, spietate che siano.
Le due istituzioni capitali del romanzo, intorno alle quali tutto ruota, sono la terra e la famiglia. La terra, un pezzo di terra, un proprio pezzo di terra, è per i Joad quello che la Provvidenza è per i Malavoglia, il collante dell’unità familiare, il centro focale, la chiave di volta. Quando viene a mancare la terra, tutto si sfalda, la famiglia si disperde e la disgregazione del nido è quanto di più atroce possa capitare a chi non ha che quello. Simbolo della famiglia è mamma Joad, pronta a tutto pur di arrestare lo sfaldamento, persino a minacciare figli e marito con tanto di spranga di ferro. Mamma Joad è la madre per eccellenza, la madre come cuore pulsante della famiglia, perché gli uomini la vita la portano “dentro la testa” mentre le donne “noi, la vita ce la portiamo sulle braccia”.
Altro cenno merita la figura di Casy, ex predicatore, l’anti-Dimmesdale, se così possiamo chiamarlo. Casy è uno per cui le nozioni di virtù e di peccato non hanno più senso, perché “esiste solo quello che si fa e che è parte della realtà, e tutto ciò che si può dire con sicurezza è che la gente fa delle cose che sono simpatiche, altre che non sono simpatiche”. Casy è uno che ha smesso di amare Dio per amare esclusivamente il prossimo, perché “mai conosciuto io uno che si chiami Gesù. So un mucchio di storie sulla faccenda, ma amo solo il mio simile”. Casy  è uno che è stato nel deserto, “era andato per cercarvi la sua anima, e aveva scoperto che non aveva un’anima che fosse sua, ma che era solo un pezzo di un’altra anima immensa. E aveva capito che non bisogna andare a vivere nel deserto, perché lì il nostro pezzo di anima non può servire da sola, serve soltanto quando sta con gli altri pezzi dell’anima grande, e cioè quando si vive in mezzo agli uomini”.
Per quanto riguarda i modi della scrittura, posso solo dire che Steinbeck è magistrale, che la sua prosa è splendida, ricca, evocativa (e per capirlo basta leggersi anche solo il primo capitolo). Quando è così, credo che il merito sia da attribuire tanto all’autore quanto al traduttore. Tutto in questo libro è mostrato e solo poco è raccontato, tutto è immagine e solo poco è spiegazione, e il paesaggio si costruisce intorno a voi nei suoni, nei colori, negli odori. I personaggi sono cumuli di gesti e di sguardi. La sofferenza è negli atti, non nella retorica. Se cercate una trama brillante e dei dialoghi forzati e ad effetto, cercate altrove. Questi personaggi parlano come persone e non fanno nulla che una persona non farebbe. Il realismo di questo romanzo è perfetto.
Riporto una scena apparentemente insignificante. La famiglia Joad ha appena cominciato il suo viaggio verso la California. La loro auto allestita a casa mobile si ferma presso una stazione di rifornimento. I componenti della famiglia scendono per sgranchirsi le gambe e scende con loro anche il cane, che hanno portato con sé. Passa un’auto di lusso – un’auto di lusso accanto alla vettura dei Joad, una carretta, un pila di mobili e materassi e miseria – e trancia in due il cane. Ruth e Winfield, i bambini della famiglia, si avvicinano ai resti dell’animale.
“Aveva ancora gli occhi aperti, hai visto?” Winfield sapeva di aver visto una cosa grandiosa: illustrò la scena con abbondanza di gesti. “Visto gli intestini? Schizz…schizzati dappertutto, schizz…” Non poté finire: fece appena in tempo a sporgersi all’infuori e vomitò. Ma si ricompose subito, e cogli occhi ancor lagrimosi e il naso gocciolante cercò di giustificarsi dicendo: “Non è come ammazzare il maiale.”
Ecco, io credo che Furore stia tutto qui, in quei resti di cane abbandonati e in questo bambino che vomita, nel dover soffocare e dissimulare il dolore di lasciare indietro la propria terra, nel dover mostrarsi fiduciosi ad ogni costo, perché si deve pur vivere, si deve pur trovare qualcosa da mangiare, non importa quanti cadaveri lasciamo sul nostro cammino, non importa quante umiliazioni dovremo sopportare. Quei resti di cane non ci riempiranno lo stomaco, quei resti di cane sono solo una zavorra per la nostra coscienza. Dimentichiamoli. Dimentichiamo che siamo esseri umani, perché la miseria non ci consente di esserlo. Siamo animali anche noi, animali come gli altri, e prima di tutto dobbiamo riempirci lo stomaco.
Ecco, Furore è un romanzo che vi fa rimproverare la cena che state consumando, che vi fa venir voglia di imbracciare un fucile, tanto è assurdo e disperato e desolante il tutto, il mondo, il futuro, il sistema.

lunedì 25 luglio 2011

Le atroci conseguenze dello Show, don't tell

Oggi è stata una giornata importante per me, sebbene la maggior parte delle persone sane di mente (leggi, i miei genitori) non ne capisca il perché.
È cominciato tutto stamattina, quando ho letto quest’articolo di Gamberetta:
Giacché non penso che la maggior parte delle persone sane di mente (ovvero chi leggerà questa mia ciancia) desideri spendere 30 minuti ad analizzare l’articolo, riassumo brevemente. La gente insana è invece pregata di andarselo a consultare. Gamberetta parla del principio di “Show, don’t tell” applicato alla narrativa, ovvero come in un contesto letterario mostrare un’azione o il personaggio in azione o sceneggiare certe sue caratteristiche sia più efficace che raccontare un’azione, raccontare che il personaggio compie un’azione, attribuire al personaggio certe caratteristiche. Secondo l’esempio di Gamberetta, il fatto che la fidanzata di Luca debba alzarsi in punta di piedi per baciarlo è più incisivo del semplice “Luca era alto”, in quanto la scena mostrata colpisce l’immaginario del lettore più di quella raccontata.
Ebbene, come può tale constatazione rendere una giornata importante? Facendo capire che il capitolo postato subito sotto è un’autentica schifezza, per esempio. Facendomi capire che se voglio scrivere di un circo dovrò informarmi sulle dimensioni di un circo, sui materiali, sulle dinamiche di certe evoluzioni dei contorsionisti. Baggianate, dice la gente piena di buonsenso (leggi, di nuovo i miei genitori). Ma no. Assolutamente no. Adesso ho chiaro il motivo per cui rigetto tutto ciò che ho scritto nell’ultimo periodo. Perché è tutto tell e niente show. Non sono abbastanza dentro i personaggi. Mi diverto a guardarli dall’esterno e a imbastire qualche frasetta ironica. Non è così che si fa. Ho anche stampato il mio ultimo lavoro di senso compiuto e impugnato la matita. Mi proponevo di demolirlo, invece ho tirato un sospiro di sollievo. Ho capito la sostanziale differenza tra QUEL lavoro e questi presenti. Ho ricordato il travaglio compositivo, lo sforzo per incastrare ogni dannata parola, lo stordimento seguente la composizione di un paragrafo, il cancellare e il riscrivere. È stato difficile scrivere QUELLO, è troppo facile scrivere il capitolo sotto. Perché l’una è cosa di una certa qualità, l’altra no.
Complessivamente, ho capito di saper mostrare, ne ho la capacità. Ne ho la capacità ma sembra che non mi stia impegnando abbastanza per applicarla. Non sto scavando abbastanza. Non riesco a uscire dai rottami dell’autobiografia.
Basta, ora basta. È ora di darci un taglio. È ora di smettere di scrivere pagine di banalità. Ci vuole che mi impegno su un soggetto e mi impegno seriamente o non avrò più rispetto di me stessa.
Ebbene, concordo con i miei genitori. La mia sanità mentale è a rischio. Ma cazzo, perché loro non capiscono che l’insania è l’unica cosa importante per me, l’unica che mi permetta di lavorare? Io non voglio stare bene, voglio scrivere. Voglio scrivere bene, punto.

sabato 23 luglio 2011

Il circo Minosse. Capitolo primo.

Come ogni anno, verso la metà di giugno, vennero e piantarono le tende. Piantavano prima dei paletti di legno, ispidi, insignificanti, che non ti persuadevano di un futuro sviluppo. Poi dai pali fiorivano le corde e dalle corde le grandi volute del pesante tendone centrale; i modesti carri sverniciati aprivano i loro coperchi, svelando alla luce un caravanserraglio di meraviglie: il rettilario con i suntuosi pitoni albini, il ranch dei pony, la macchina dello zucchero filato. 

Ogni anno, da diciotto anni, aspettavo con trepidazione quel momento. Già dalla sera prima mi appostavo sul campo e spiavo con gli occhi le curve fin sotto la collina, fin dove potevo arrivare, nel caso i fari dei furgoni squarciassero d’un tratto la notte. Era un appuntamento cui non potevo mancare. Mi dicevo che se lo avessi fatto, che se mi fossi distratto o dimenticato del giorno, il circo non sarebbe arrivato. Sentivo di avere un ruolo in quel rito, mi credevo privilegiato ed importante. 

Quando poi arrivavano non potevo fare a meno di gironzolare tra i carri. Da piccolo gli addetti ai lavori mi scacciavano e Dedalo mi appioppava un lecca-lecca, perché li lasciassi fare. Col tempo ero diventato loro amico e mi buscavo persino delle commissioni: spostavo casse, disfacevo corde, ammucchiavo legna. Gli operai sapevano di poter contare su di me e ormai mi chiamavano per nome. 

Quell’estate il campo era una distesa di stoppie riarse. Le cornacchie si sollevavano in grandi crocchi neri e bisognava gettar loro dei sassi per scacciarle. Col caldo il sangue ribolliva nelle vene e non si riusciva a trovar posa. Sembrava che il meriggio tremolasse di una sua tensione invisibile, come una guancia che cerca il fresco sul cuscino. Non m’ero mai sentito tanto forte o tanto vivo come quell’estate. 

La scuola s’era chiusa ai primi del mese. Tutti i giorni saltavamo sulle vespe e davamo gas fino al mare, che era a un paio di chilometri dal paese. Le mamme ci strillavano dalle soglie delle case che non facessimo tardi per pranzo. Sulla spiaggia le ragazze si distendevano al sole come tante lucertole, luccicanti di pomate. Erano fresche e rotonde come non le avevamo mai viste, abituati alle gonne lunghe della divisa. E tutti pensavamo che quell’estate finalmente si sarebbe goduta a fondo la gioventù.
“Ci daremo dentro come maiali!”, esclamava Gino, assestandomi delle gran pacche sulle spalle.
Io non avevo occhi che per Elena, la bionda. Ma lei di teste ne faceva voltare così tante che non si capiva proprio chi guardasse. Alla spiaggia non veniva mai da sola e stava sempre nascosta dietro gli occhiali grandi. 

L’arrivo del circo era il culmine di ogni estate. Una scossa di adrenalina attraversava la cittadinanza, sollevandola da stuoie e sedie a sdraio, per collaborare con l’allestimento. I vecchi sbuffavano dalla pipa che quella corda non era abbastanza tesa; i bambini infastidivano i coccodrilli nelle teche; le comari offrivano il vino e affettavano salami. Gli operai si tergevano il sudore dalla fronte e scambiavano quattro parole, raccontando dov’erano stati tutto l’anno e che in nessun posto si sentivano più a casa di qui. Era una piccola bugia che non faceva male a nessuno. 

Gino mi prendeva in giro per quella passione infantile, facendomi arrossire davanti a tutti gli altri:
“Ma che ti frega di quelli? Sei rimasto il più bambinone di noialtri, che invece di goderti questo sole te ne vai a sgobbare su in collina. E con Elena come la mettiamo?”
“Il circo è solo una settimana”, rispondevo, come a giustificarmi.
“Fra una settimana si sarà scordata che esistevi”.
“Oh che lagna. Se se ne scorda, contento un altro”.
“Che gran minchione”.
Eppure il circo piaceva anche a lui, quand’eravamo bambini. Ma io sono cresciuto, diceva, cosa c’è di così straordinario? Visto un anno visti tutti, e scrollava le spalle. A me non importava quello che pensava Gino: io al circo c’ero sempre andato e ci sarei andato pure quell’anno. 

Quella notte l’aria era chiara e tiepida. Avevo tolto le scarpe e m’ero seduto su un pietrone, la vista che dava sulla vallata. Le stelle mandavano una luce tremula: non c’era luna. L’odore era quello dell’erba tagliata, della paglia che secca e crepita al sole. Gino e gli altri dovevano essere ancora al bar: li avevo lasciati nel mezzo di un giro di rum e pera. L’alcol era caldo e mi gonfiava lo stomaco, mi faceva sentire bene. Era tutto perfetto e pulito e verde. 

Da bambino non dovevo venirci da solo. C’erano tutti, persino le ragazze, e ingannavamo l’attesa facendo la caccia alle lucciole. Poi tornavamo a casa con le tasche piene di sassi e un barattolo col coperchio ermetico. La mamma mi metteva a letto. M’addormentavo felice, cogli occhi fissi sul barattolo, dove una lucetta si spegneva e si accendeva a intermittenza. 

Non ricordo di essere mai stato triste e certo non lo ero allora, con il futuro che mi luccicava davanti come una promessa. I malinconici, i depressi non li avevo mai capiti. Mi sembravano degli strani bacilli contagiosi. Arrivavano con la loro faccia lunga, ti tiravano delle occhiate ed ecco che una patina grigia scendeva sul mondo, laddove tu vedevi tutto colorato. 

L’orologio faceva mezzanotte e un minuto. Mi immaginavo il giorno in cui avrei aspettato invano: sarei stato in piedi tutta la notte, teso come un palo. E al mattino il campo sarebbe stato sgombro come alla sera. Era il mio terrore. Mi pareva che il circo volesse dire che ero vivo, che ero giovane, che avevo ancora speranze. Il giorno che non fosse venuto mi sarei svegliato più vecchio di cent’anni e profondamente scontento. Un malinconico come tanti altri.
Ma per quell’anno, un anno ancora, fui salvo. Una luce, poi due, poi tre. All’inizio non erano che puntini, scarsamente distinguibili dallo sfondo blu della collina. Ma poi si fecero sempre più tondi, rotondi, sfere, piccoli bottoni sul paltò della notte, fondi di tazzine, ombrelli aperti. Dei fari. Il primo camion ne aveva uno fulminato, così assomigliava a un dinosauro ferito. Gli altri lo seguivano tranquilli, brontoloni, lungo la strada a picco sulla valle, tutta curve, con i guardrail bassi.
Spolverai le piante dei piedi e mi infilai le scarpe. Mi rizzai sulle gambe, solo contro la collina e contro il tempo.


Il primo furgone si fermò al centro dello spiazzo, il freno che si arrendeva docile tra le dita del conducente. Gli altri tre si sparpagliarono intorno senza una logica apparente. Parecchi sportelli si aprirono all’unisono e si richiusero con uno schiocco, mentre gli occupanti atterravano con un balzello sul terreno, stampandovi orme inconsuete. Un tacco, uno stivale, un piede nudo. Accavallarsi di voci, di gente che aveva viaggiato tutto il giorno o forse più giorni e aveva tante cose da raccontarsi, tanti aneddoti tenuti in serbo per gli altri lungo la strada. I motori ancora accesi rendevano i loro toni più incalzanti e i fasci di luce percorrevano il campo in linea retta, tagliandolo in una scacchiera ordinata. 

Io ero fuori dal cono di luce. Non sapevo decidere se farmi avanti oppure scappare via, silenzioso, per ripresentarmi solo al mattino. La loro intimità mi imbarazzava.
Cercai di distinguere le sagome e di attribuire un nome a ciascuna. Riconoscevo il proprietario, Minosse, sempre più grosso di spalle e di fianchi, come un temibile Mangiafuoco. Poco distante sua moglie, tanto secca quanto il marito era grasso, e una bambina alle calcagna. Camminava a malapena, l’anno prima. C’era il fachiro e c’era la donna cannone, i saltimbanchi. C’era il domatore del leone, uno solo e spelacchiato, non più aggressivo di un gatto malnutrito. E poi c’era quella figura vestita di bianco, un vestito tutto bianco contro il nero della notte, la gonna che ruotava mossa dalla brezza. Non la riconoscevo. Volteggiava da un lato all’altro dei furgoni, muovendosi in piroette e il suo biancore era tale che cancellava tutto il resto. Era una figura senza volto e senza nome. 

Ne seguii le evoluzioni per un poco, catturato dalla leggerezza dei movimenti e delle curve, dal braccio sottile e bianco che si sollevava, dalla voce trillante, argentina come un campanello. Piano piano finii per non vedere che lei e capii che non dovevo farmi avanti. Se mi fossi fatto avanti l’incantesimo si sarebbe spezzato e il braccio sarebbe ricaduto lungo il fianco, se c’era un fianco. Le pieghe del vestito si sarebbero lisciate e non ci sarebbe più stato incanto, ma solo conoscenza. E non c’è incanto nella conoscenza. Così lasciavo che la farfalla mi si stampasse sulle retine e piroettasse sotto le palpebre, irretito dal magico movimento della gonna e dal trillo della voce e del vento. 

Una volta a casa, sotto le lenzuola, immaginai di sollevare un lembo della veste e di scoprire una gamba altrettanto bianca, di percorrere la coscia con la mano, la pelle tenera. Il fantasma aveva la faccia di Elena, che mi incitava a continuare, a salire, a salire:
“Bene così, Teseo”, aveva una voce di campanello.
Non potei far altro che togliermi i pantaloni. 

Di Chiara Pagliochini

giovedì 21 luglio 2011

La transizione "io" - "noi"

Un uomo spodestato, una famiglia sul lastrico, un catenaccio rugginoso che scricchiola sullo stradone che conduce nel West. Io ho perso il mio pezzo di terra; me l'ha preso la trattrice. Sono rovinato, solo, esterrefatto. E la notte la famiglia s'attenda sulla proda del fosso; e un'altra famiglia arriva e rizza la tenda. I due uomini s'accoccolano sui talloni, e le donne e i bambini stanno ad ascoltare. Il nodo è qui, o voi che avete paura del mutamento in atto, che tremate all'idea di una rivoluzione! Impedire, impedire dovete a tutti i costi, che i due spodestati s'accoccolino l'uno accanto all'altro. Instillare in ciascuno di loro l'odio reciproco, la paura, la diffidenza. Perché allora non si tratta più di "Io ho perso il mio pezzo di terra". La cellula si biparte e genera quel "Noi abbiamo perso il nostro pezzo di terra" che v'illividisce. Qui è il pericolo: perché due uomini insieme sono sempre meno perplessi di un individuo solo. E da questo primo "noi" trae origine un altro, e maggiore, pericolo, che è rappresentato dalla somma dei due termini. "Ho qualcosa da mangiare" e "Non ho da mangiare". Se il totale dà "Abbiamo qualcosa da mangiare", la valanga si avvia, il movimento prende una direzione. Ora basta una piccola moltiplicazione per far sì che questa terra e questa trattrice diventino nostre. Questo il quadro: due uomini accoccolati sull'orlo della strada, il miserabile fuoco sotto la pentola comune, la pancetta che frigge in una padella sola, le tacite donne dagli sguardi pietrificati, e i marmocchi intenti a parole che i loro cervelli non intendono. Si fa notte, il bambino ha freddo: ecco, prendi questa coperta, è di lana, era di mia madre, tienla per il bambino. Questo l'obiettivo che dovete bombardare: questa transizione dall' "io" al "noi".
Se voi, che possedete le cose che le masse hanno bisogno assoluto di detenere, poteste rendervi conto di questa realtà, allora sareste in grado di salvarvi. Se foste capaci di distinguere le cause dagli effetti, di persuadervi che Paine, Marx, Jefferson, Lenin furono effetti e non cause, allora potreste sopravvivere. Ma non ne siete assolutamente capaci. Perché il possesso vi congela in altrettanti "io" e vi aliena i "noi".

(Furore, John Steinbeck)

martedì 19 luglio 2011

Lettera di Arianna al suo Teseo

Ariadne by *pythoness

Teseo,
ti ho tanto aspettato.
Quando t’ho visto
la prima volta,
quelle vele bianche
spiegate all’orizzonte,
pensai di conoscerti
ora
e da sempre
ma, in vero,
non ti conosco,
e il giovane
che risale la china
mi è un estraneo.

Teseo,
non ho coraggio
di venirti incontro
e dire
“Buongiorno,
mi chiamo
Arianna”.

Teseo,
non ho coraggio
di guardarti,
e arrossisco.
Ma fanno guerra
i miei sensi:
troppo vile
ammettere che ho bisogno
di te
e che sei
importante.

Teseo,
la mia mente
ti costruisce
intorno
un disegno.
E ti penso
sul carro di bronzo
e i capelli al vento
e bella voce.
E ti penso
tenermi la mano
e vagare insieme,
felici,
lontano.

Teseo,
amore mio,
dovessi abbandonarmi
non mi sentirei
mai
tradita,
ma sola.

Di Chiara Pagliochini

venerdì 15 luglio 2011

Una maggiore beatitudine

Epitaffio per il mio gatto Mio, che da qualche giorno non c'è più. Tra serio e faceto, non me ne vogliate a male.


Mio,
mio come il cuscino che sempre mi volevi rubare,
mio come il vocabolario che ti cadde in testa
e io e Marta ci disperavamo
se portarti in ospedale.
Eri Mio, ma soprattutto eri suo,
giacché fu lei poi a darti il nome.
Ricordo la sera che ti portarono
e tu non piangevi
e noi ti guardavamo
e tu non piangevi
ma quando poi ci siamo ritirate
ecco che hai iniziato
a miagolare come un matto.
Avevi terrore di stare solo.
Quante ne abbiamo fatte, mio Mio:
quante sciocchezze
avrai dovuto sopportare,
come quando ti facevamo i video
cantando Laura Pausini.
Mi dicono, Mio, che noi non facevamo
cose esaltanti e io ricordo
che tu non volevi mai giocare:
le biglie, i fili
erano per te tutti un ritardo del pranzo.
Però, guardando te,
guardando quando dormivi o mangiavi,
quasi si poteva cogliere
un modo d’essere altro,
una maggiore beatitudine
di noi che invece strillavamo.
Da quanti acciacchi la mamma
ti ha guarito, quanti occhi gonfi,
quante giungle indossate
con disinvoltura:
una lumaca, persino, una volta.
Caro Mio, il tuo cuscino non c’è più.
Ora c’è soltanto il mio.
Ma è triste che nessuno
ci si voglia più sedere.

giovedì 14 luglio 2011

Manda tutto a quel paese

Another World by ~MrSithZam

Questa volta fu lui a domandare:
"Dove?"
Sorrisi. "Dove vuoi."
Dove vuoi! Nel mondo del pensiero, dove vuoi! Salta da una montagna e vinci oggi il premo per la persona più libera del mondo.
Cammina sull'acqua come fece Gesù.
Scala l'Everest.
Percorri la muraglia cinese in una giornata.
Accarezza un orso polare in Antartide o un ghepardo nella savana.
Fuma un po' d'erba, che nel mondo reale non te lo permettono. E' illegale...una pianta che cresce in natura, illegale!
Manda a quel paese la scienza; hai visto cosa è nata da essa? La bomba atomica. Manda a quel paese l'algebra. Il progresso è utile solo per far vivere meglio coloro che si sono fregati con le loro stesse mani. Manda a quel paese la letteratura; cosa te ne importa del concetto di amore di tutti quei poeti? A qualcuno per caso importa del tuo concetto di amore? No! E allora a quel paese anche quegli ipocriti! Manda a quel paese l'arte: è falsa. Vedere il mare è vedere un'opera d'arte. Osservare un quadro è osservare una tela e nient'altro. Manda a quel paese gli scultori, che producono persone false nell'impossibilità di averne di vere. Manda a quel paese il mondo, dove non potrai mai, mai, mai essere felice, se non credere di esserlo.
Sei ancora tanto piccolo, caro Thomas.
Puoi ancora farlo.
Manda tutto a quel paese.
Fallo.
Così pensavo, mentre eravamo diretti ovunque il pensiero ci avrebbe condotto.

Addio, bella crudeltà
Marco Tamborrino

Recensione di Addio, bella crudeltà (Marco Tamborrino)




Vediamo un po’. È difficile dire sinceramente cosa si pensa quando si è già disposti a pensar bene di qualcosa. In realtà nel mio caso è stato più semplice del previsto.
Ero qui davanti al pc quando arrivò la donna-corriere. Mi avventai sul pacco, lo sventrai col coltello, estrassi il libro. Per il primo quarto d’ora ho avuto chiarissimo in mente il fatto che stavo leggendo qualcosa di cui ero disposta a pensar bene e di cui avrei parlato bene, in qualunque delle ipotesi.
Allora mi sono arrabbiata e mi sono fatta un caffè (che dopo aver passato la mattinata con Murakami ci voleva tutto). Ho pensato, non è giusto che io sia positivamente prevenuta. A me non piacerebbe che qualcuno fosse prevenuto su di me.
Ero a pagina 15, quando ho preso il caffè. E a pagina 25 tutto si è fatto molto più onesto, perché mi sono sinceramente scordata che stavo leggendo qualcosa di Marco Tamborrino.
Dunque, uno scrittore e un bambino. Un incontro fortuito in una circostanza non proprio fortunata. Il lanciarsi insieme verso una scoperta di sé, di quello che si è dimenticato e di quello che non si è mai voluto capire. Un viaggio nel sogno quale possibile modo di interpretare la realtà. Due righe spicciole di riassunto sono necessarie. Ora che ho assolto al mio compito, posso passare oltre.
Primo pensiero, un bambino e uno scrittore. No, io detesto i bambini (momento di sconforto).  Secondo pensiero, il bambino Thomas che si addormenta sulla spalla dell’adulto Lorenzo. Aspetta un attimo, questo mi ricorda qualcosa. Mi sono ricordata della sconosciuta bambina inglese che si è addormentata contro la mia spalla su un autobus mentre ero in vacanza. Ho ripensato a quel momento di tenerezza, la tenerezza di un bambino che si affida a te senza conoscerti, e allora ho capito. Ho capito che l’autore non stava parlando di un bambino ideale e di un adulto ideale (vale a dire gli stereotipi di bambini quali molte letture ci hanno abituati): stava in effetti parlando di due persone reali, di sensazioni vere, non artificiose non artificiali. Terzo e riassuntivo pensiero, cavolo ma come sono belli il bambino e lo scrittore in questo libro.
Andiamo avanti. Mi sono riconosciuta in quasi tutto ciò che Lorenzo dice e pensa nel corso della narrazione: la solitudine, il crogiolarsi nella malinconia senza un motivo apparente, il sostituire la letteratura alla vita, il non vivere, il non saper conciliare il sogno con la realtà o trasportare il sogno nella realtà. Il ricorrere del doppio (le due lune, le due porte), la mano di Thomas che le riunisce in una sola: è decisamente una buona trovata. Utilizzare un’immagine nuova, concretizzare in un’immagine originale qualcosa che originale non è, bensì eterno, l’eterno tema realtà/sogno che percorre da sempre la letteratura. Ciò che intendo dire è che uno dei pregi di questo libro è l’originalità delle riflessioni che si impiantano su temi vecchi quanto il mondo; lo scrittore riesce a non scadere nella banalità e, quando pensi che lo farà, quando vedi che ha un piede in fallo e sorridi con un ghigno diabolico, lui va in un’altra direzione, apporta qualcosa di nuovo, un altro angolo o un modo tutto suo di dirlo. Ti fa arrabbiare da matti.
Vale la pena di parlare ancora della costruzione delle immagini. Il romanzo è tutto percorso da un simbolismo lieve, incantevole, fitto di rimandi tra una sezione e l’altra: una immagine si innesta sulla precedente con estrema naturalezza e con estrema naturalezza sfuma nella successiva. Colpisce anche la forza evocativa di questa scrittura: che evochi una città deserta un prato un oceano lo scenario appare nitido alla mente del lettore. Non è una capacità comune: ricordo la mia difficoltà nel visualizzare la tremenda cattedrale di Ken Follett. Ok, non sto dicendo che questo scrittore è superiore a Ken Follett nella costruzione delle immagini, sarebbe un delirio di onnipotenza: dico che avere la capacità di coinvolgere il lettore nella storia e di suscitare nella sua testa l’esatta visione di quanto descrive è una capacità molto buona, che va sviluppata.
Procediamo. Considerazioni sul ritmo della narrazione: scorrevole, piacevole, fluido. Ho un debole per la pagina 53. Ognuno di noi, credo, ha una pagina preferita nei libri che legge. Mentre leggevo, mi sono sorpresa a chiedermi dove avessi già conosciuto un ritmo di questo tipo. Non me lo ricordo, non sono ancora riuscita a ricordarmelo. Solo che mi suonava all’orecchio come qualcosa di familiare e di antico. La scena del prato, ad esempio. Non saprei, le parole si incastrano naturalmente l’una all’altra, si procede senza alcuno sforzo, è come una sinfonia in cui una nota non potrebbe essere diversa da com’è. Mi colpisce molto perché per me è molto importante, sia quando scrivo sia quando leggo: devo avvertire che ogni parola è stata appositamente scelta e non è lì per caso, devo sentire la scrittura scivolare. Questa è una cosa che per esempio si perde molto nei libri letti in traduzione: ed io che leggo molti romanzi stranieri e pochi italiani sono sempre contenta quando il suono della mia lingua scivola morbido morbido nell’orecchio.
Una considerazione sul messaggio. La migliore trovata a livello ideologico in questo libro è certamente il fatto che Lorenzo si sforzi di mettere in pratica ciò che Thomas teorizza, ma che in fondo non ci riesca. Thomas è un bambino, è fresco, nulla di irreparabile nella sua vita è ancora successo. Lorenzo è un giovane scrittore, è vero, biologicamente giovane ma psicologicamente vecchio: è vissuto troppi anni in un certo sistema di vita per poterlo cambiare da un momento all’altro. Non si può cambiare se stessi. Si può sperare di cambiare, ci si può illudere e si può vivere con la speranza che un giorno si riesca. Ma cambiare effettivamente è difficile per tutti, sempre. Però si può conservare il messaggio, si può insegnare, anche ciò che non si vive si può insegnare. E Lorenzo, nonostante la solitudine in cui vive, nonostante l’impossibilità di cambiare la propria condizione, capisce che può ringraziare Thomas in un modo: tramandando ciò che lui gli ha insegnato perché qualcuno possa un giorno mettere in pratica i suoi ideali. Non Lorenzo, purtroppo, ma qualcun’altro. È la generosità, in fondo, di ogni scrittore.
Spero di non aver scritto un mare di banalità. In effetti mi sono sforzata di scrivere esattamente quello che pensavo. Quindi per essere coerente fino in fondo debbo rimproverare all’autore un cinque/sei refusi nel testo. Ma, giacché ci faccio i conti tutti i giorni e so che è impossibile rileggere con un occhio al cento per cento nitido quello che si è scritto il giorno prima oppure solo un momento fa, auspico che nel futuro abbia alle sue spalle tutto un pronto staff di correttori di bozze ed editori.
Questo libro mi ha fatto ripensare a quello che scrivevo a 17 anni e che in confronto faceva tutto sommato cagare. Ma questa è una chiusa molto ruffiana.