venerdì 18 novembre 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap.13

William Turner, Moonlight A study at Millbank

Per un breve istante tutto restò sospeso, cristallizzato, sfaccettato in tante superfici scivolose. Negli occhi di Irene c’era un muro di ghiaccio e le sue unghie grattavano via trucioli d’acqua gelata. Era incantata ed eterna come una statua. Poi parlò con quella voce di bambola, tra il disincanto e la fiaba, quella voce rauca e ingenua di giovane vecchia. Parlò e parlò, e la sua voce ancora mi rintrona nell’orecchio. Qualche volta è il vento, e i suoi accenti come foglie trascinate via. Qualche volta è la pioggia, e allora le sue parole piombano contro l’ombrello con un suono di finitudine. La sento in ogni bambino e in ogni ticchettio d’orologio. È strano come funzionano queste cose.
Disse che era felice che io l’avessi vista. Era felice. Così felice che non si poteva dire. Ma questo non cambiava le cose, non cambiava né gli anni né i mesi né i giorni che era stata sotto gli occhi della gente e nessuno l’aveva guardata. Anche se non era per questo, non era per questo che… E tuttavia era vero, era vero che per anni, per mesi, per giorni si era preoccupata che nessuno la vedesse.
« No, non preoccupata. Perché uno è preoccupato se non sa il perché delle cose, giusto? »
Era triste, solo triste, perché lei il perché delle cose lo sapeva. Lei sapeva perché nessuno la guardava.
« Perché io sono una cosa così orribile. »
Detto da lei, con quella faccia bianca, con quegli occhi spalancati come biscotti, era così orribile davvero.
Disse che c’era un sogno che faceva sempre. Mi chiese se avevo voglia di ascoltare, poi prese a parlare senza che le avessi risposto. Ma io non sapevo se avevo ancora voglia di ascoltarla.
Era seduta di fronte ad uno specchio, voltata di schiena con le spalle scoperte e appena una porzione di pelle illuminata. Il volto nel riflesso si dilatava e tremolava come l’apice di una fiamma, contorto in una vampa di fumo. Poteva vedere il suo viso. Il suo viso? Lo era davvero? Era così bianco, così bianco, bianco come la neve come latte come luce, bianco dal mento alla fronte e dalla fronte al mento, bianco fino all’attaccatura dei capelli. E gli occhi invece erano così neri, un decoro di trucco grigio che si allungava sulle tempie come le ali di un cigno. E la bocca era così viola, le labbra così turgide e dischiuse. Era lei, non era lei. Come poteva saperlo?
E poi tutto cambiava, e non c’era più nessuno specchio, ma un vasto letto al centro di una vasta stanza piena di luce. La luce filtrava dalle pareti, perché le pareti erano di vetro. Era una luce bianca e verde, come se filtrasse attraverso il fitto d’un fogliame. E lei era al centro del letto con le gambe piegate da un lato, e un cerbiatto in grembo. Un cerbiatto? Così sembrava. Era morbido tra le orecchie e aveva il naso bagnato. Vedeva se stessa dall’esterno, riusciva a spiarsi da ogni angolatura. Si guardava da fuori, dalla porta della stanza, attraverso il buco della serratura. L’inquadratura era verticale, poi muoveva a sinistra ed eccola ribaltata in orizzontale, come se qualcuno stesse aggiustando l’obiettivo, come se qualcuno volesse scattarle una foto.
Poi il cerbiatto sollevava le orecchie e il suo naso si dilatava a un odore che lei non sentiva. Ma non era più un cerbiatto, era un cane, un cane con un buffo naso da cerbiatto; e il cane saltava giù dal letto, usciva dalla stanza piena di luce verde e lei lo seguiva attraverso un giardino ch’era tutto verde, attraverso un prato che digradava in discesa. Il cane-cerbiatto si muoveva furtivo, sempre fiutando una traccia che lei non poteva avvertire ma che aveva chiara ai sensi come una tensione, una scossa elettrica di cui vibrava l’aria e di cui aveva vibrato il riflesso nello specchio e che ora era fuoco liquido e pericolo nelle vene.
E poi il cane trovava la sua preda, e la vedeva anche lei, una grossa belva irsuta che balzava fuori da dietro un cespuglio. Una voce fuoricampo urlava cose orribili nella testa. La bestia era enorme, pelosa, marrone. E il cane-cerbiatto era piccolo e spaventato. E lei era così impietrita dall’orrore che non poteva fare niente proprio niente per fermarli. I due animali si avventavano l’uno contro l’altro e in una zuffa di pelo e di urla rotolavano giù per il pendio. E lei guardava quella bestia orribile, quella bestia orribile tutta unghie e tutta denti e la pelle del cerbiatto fatta a brani. Lei guardava l’orribile bestia, e una voce dentro e fuori le diceva:
« Questa cosa orribile sei tu. »

Mi guardò. Aveva parlato tenendosi la gola con le mani, scegliendo le parole una ad una, come se le sue mani fossero un canale in grado di dividere una parola dall’altra, di mandar fuori le più dure e ricacciare indietro le meno efficaci. Ogni parola emessa era una staffilata, ogni parola respinta una breccia sulla parete dello stomaco. Pensai che fosse completamente pazza.
« Capisci? » domandò.
No, non capivo. Non capivo niente.
« Capisci? Come si può vivere così? »
« Così come? »
« Così. Sapendo che tu sei quella cosa orribile. »
« Ma non è vero. »
« Certo che lo è. Lo è per me. Se io sogno me stessa come una cosa orribile, se penso a me stessa come a una cosa orribile, come posso ancora sopravvivere? Dov’è finito l’istinto di conservazione? Dov’è finita la mia dignità? Non ci sono più, capisci? Io sono arrivata a un’idea così orribile di me stessa che non posso più neanche sopravvivere. »
Che si poteva dire? Come si poteva rispondere? Era come infilare la mano in una bacinella di schegge di vetro.
« Tu sei una persona migliore di quello che credi. »
« Tu dici? »
« Sicuro. »
« E cos’ho fatto di buono per te? Cos’ho fatto di buono? Sentiamo. »
« Tu hai… preso in custodia Ryanair… »
« Non mi sembravi così contento quando sei venuto a riprenderlo. »
« Ma cosa c’entra. Che c’entra. »
« Neanche tu puoi dire che io abbia fatto una sola cosa buona. E io ti dico di non averne fatte mai. E non è una cosa di cui meravigliarsi che la gente non si volti a… »
« Ma alla gente non importa niente di quello che fai. Non gli importa di quello che sei. »
« E cosa importa alla gente? »
« Senti, la gente non si volta. La gente non si volta quasi mai. Non è una cosa di cui preoccuparsi. »
« Cosa importa alla gente? »
« Se hai… una bella faccia? »
« Ho una bella faccia? »
« Tu non… »
« Puoi dirlo. »
« Tu non hai una faccia. »
« E lo sai perché non ho una faccia? Lo sai perché non guardo in faccia la gente? »
« No. »
« Perché vedrei la loro faccia contorcersi d’orrore alla vista di una cosa così orribile. »
« Tu sei pazza. »
La vidi prendere fiato. Il petto si alzava e si abbassava, fasciato dal lenzuolo che era tutto un’onda. Una sottile striscia di luce sbatteva su di noi dalla finestra, tagliando la sua faccia a metà. Sembrava una creatura di un altro mondo, sembrava un mostro rannicchiato su se stesso. Io avevo paura.
Mi alzai e camminai verso la finestra, tanto per fare qualcosa. Le suole delle mie scarpe facevano rumore, un rumore di gomma da cancellare.
Irene si alzò e appoggiò la schiena contro la parete, le gambe che penzolavano giù dal letto. Nel buio potevo vedere solo il bianco delle sue pupille.
« Mi dispiace di averti spaventato » disse, con una voce rassicurante di madre.
« Non mi hai spaventato. È solo che… no, non so spiegartelo… »
« Provaci. »
« Mi sento da schifo per te. »
« Ma io sto bene, non devi preoccuparti. Andrà tutto a posto. »
« Non è così che deve andare. Non… non ha semplicemente senso. »
« Cosa non ha senso? »
« Quello che tu dici, quello che pensi. Niente. »
« Non deve avere senso. È solo quello che penso. »
« Ma tu non sei quello che pensi di te. »
« Se non sono come mi pensano gli altri e non sono neanche quello che penso di me, allora chi sono, che sono? »
« Devi proprio essere qualcosa? »
« Dicono così. »
Si alzò dal letto e i suoi piedi nudi scivolarono sul pavimento come una carezza. Mi poggiò una mano sulla spalla, con fare tranquillo, così tranquillo, come se non fosse successo niente.
« Vieni » disse. Poi spalancò la finestra e una grande luce bianca filtrò per tutta la stanza. Uscì sul terrazzino, si appoggiò alla ringhiera e disse di nuovo:
« Vieni. »
Guardai le sue gambe, guardai i suoi fianchi, la sua schiena, i suoi capelli. Era così piccola e la notte così grande. Mossi due passi e la raggiunsi, schiacciai la pancia contro la ringhiera. Non c’era più niente da dire.
Una luna bianca enorme era sospesa sopra di noi e la sua luce era sfumatura di gessetto sulle cose, tutte così irreali, tutte così vibranti. La strada deserta, i palazzi, i davanzali delle finestre, i lampioni, le panchine, la strada che si perdeva lontano, sotto la luce arancione dei lampioni e le panchine d’acciaio che scintillavano. E non una sola voce, non un solo movimento in tutto il mondo. C’eravamo solo noi.
« Non avere paura. È così bello » disse Irene. 

Di Chiara Pagliochini

sabato 12 novembre 2011

Il buon soldato, Ford Madox Ford


“Questa è la storia più triste che io abbia mai sentito. […] Mia moglie ed io conoscevamo il Capitano e la signora Ashburnham così bene com’è possibile conoscere chiunque eppure, in un certo senso, non sapevamo proprio niente di loro.”

Mi congedo da questo libro con una tristezza incredibile, resa tanto più grande dalla costatazione che non avrei mai conosciuto questo romanzo se non fossi stata obbligata a leggerlo. Certe volte fioccano libri che sembrano darti le risposte che cercavi e allora resti lì a chiederti com’è che non li conoscessi prima, com’è che non ti siano caduti addosso da uno scaffale. La risposta, io credo, è piuttosto semplice: sia Il buon soldato sia Ford Madox Ford, il suo autore, non sono decisamente molto conosciuti. Non possono pioverti addosso da uno scaffale semplicemente perché non sono sullo scaffale. Non è la storia più triste che abbiate mai sentito?
La vicenda narrata gioca su una domanda fondamentale, una domanda contro la quale prima o poi tutti veniamo a sbattere la testa. Quanto bene è possibile conoscere la persona che abbiamo di fronte? È possibile conoscere una persona al di sotto della più bieca scorza superficiale? Si può andare oltre le chiacchiere di cortesia, le partite di cricket e il tè delle cinque e conoscere quella persona nella sua essenza, nell’anima nuda che ci si rivela? Ford risponde subito, e la sua risposta è “no”. Non si può conoscere niente di ciò che ci accade mentre ci accade, non si può conoscere nessuno quando lo abbiamo di fronte: si può solo indagare a posteriori, nel ricordo, quando sappiamo incastrare i pezzetti con la giusta concentrazione e il giusto spazio di tempo in mezzo.

Il buon soldato è la storia di un pentagono amoroso. Non un triangolo. Non un quadrilatero. Quattro dei cinque vertici ci vengono presentati fin dall’incipit e sono “mia moglie”, “io”, “il Capitano”, “la signora Ashburnham”. Procediamo con ordine.
“Io”, ovvero la voce narrante, è John Dowell, un ricco Americano senza alcun interesse nella vita, il cui unico scopo è fare da infermiera alla moglie malata in tutti i centri termali dell’Europa. Siamo molto indecisi su come valutare questo “io”. È un uomo? È una donna? È un alieno? La sua identità sessuale e il suo livello di intelligenza vengono continuamente messi in discussione dal lettore. Certe volte si crede che sia un genio del crimine, un furbone, certe volte non si può non vedere come un idiota, un deficiente, un folle, un assoluto asino patentato. Perché John Dowell non capisce nulla, assolutamente nulla di quello che gli accade intorno. Non capisce quando la gente gli mente. Non capisce se le persone che ha di fronte sono brave persone oppure no. Nulla. È un imbecille completo.

Oppure finge. Oppure finge così bene che inganna il lettore. Perché facendo finta di non sapere, di non aver mai capito cosa gli accadeva intorno, John Dowell ci tiene incollati alle pagine del suo romanzo. Lo conosciamo nove anni dopo l’inizio di questa storia, proprio mentre si accinge a raccontarla. John Dowell è lì di fronte a noi e ci chiede, “com’è meglio che io racconti?”, “secondo voi come dovrei fare?”. E allora costruisce tutta un’immagine, si inventa di essere un uomo che parla accanto a un caminetto e che noi siamo lì che lo ascoltiamo. Ma non è vero niente. Non è vero perché lui sta scrivendo. Eppure scrive come se parlasse. Questa è la grande forza, l’ingranaggio davvero rivoluzionario del romanzo. John Dowell, con la sua finzione del “raccontare a voce”, inventa il più grandioso narratore in prima persona che io abbia mai conosciuto. Non segue un ordine cronologico, non segue un ordine tematico, non segue nulla, procede alla deriva, così come ricorda le cose, proprio come un uomo che parla accanto al fuoco. Dice una cosa, si corregge, va a ritroso quando si accorge di non averla spiegata bene, fa continui salti avanti e indietro, tiene viva la tensione come se stessimo leggendo un thriller.
Ma il vero colpo di maestro sta in questo. Sballottato qua e là dai ricordi e dalle rettifiche di John, il lettore non ha per niente la sensazione di star leggendo un romanzo. Non pensa di essere di fronte a una storia inventata e a personaggi inventati. È come se un nostro amico ci dicesse, “ieri sera ho visto Marco, siamo andati al cinema. Prima siamo andati a mangiare la pizza. No, non è vero, che cretino che sono. A mangiare la pizza ci siamo andati ieri l’altro, ieri sera abbiamo cenato al ristorante cinese”. Avete motivo di dubitare che dica il falso? No. Avete motivo di dubitare che Marco esista? No. Il vostro amico vi dà dei fatti, vi cita delle persone, e voi date tutto per scontato. Allo stesso modo nessuno mette in dubbio che “io”, “mia moglie”, “il Capitano”, “la signora Ashburham” esistano. Ci sono. Il lettore lo sa. Sono da qualche parte nel mondo ed esistono anche se noi non li conosciamo. Perché sono troppo veri per essere finti.

Io non lo so. Non so come Ford sia riuscito a scrivere questo libro. I suoi personaggi/persone hanno la psicologia più contraddittoria, incoerente e dunque umana che io abbia mai visto. Non sono una somma di tratti. Non sono un’accozzaglia di piccoli dettagli comici. Sono come me e come te, tutto un tondo, stupendamente vividi. Parlano come me e come te, come parlano le persone. Hanno lo stesso guazzabuglio di sentimenti che abbiamo noi, e li esprimono come li esprimiamo noi. Ovvero? Hanno un bordello in testa, un vero bordello.
“Mia moglie” è Florence Dowell, bellissima donna malata di cuore. Oppure bellissima donna senza cuore. Oppure bellissima donna senza cuore e neanche malata di cuore. Perché “cuore” è la parola chiave attorno alla quale ruota tutto il romanzo. Non “dammi tre parole, sole cuore amore”. È come se fossimo di fronte a un indovinello che dice: “ci sono 5 persone, e due di queste hanno problemi di cuore, decidete voi quali sono”. Ma è un indovinello molto difficile. Perché si può essere malati di cuore nel senso di avere una malattia cardiaca o si può essere ammalati in senso metaforico, ovvero soffrire per amore. Senza considerare che in inglese “to have a heart” significa sia “avere una malattia cardiaca” sia “essere una persona sensibile e generosa”. Chi “has a heart” in questo romanzo? È davvero una risposta difficile.

“Il Capitano” è Edward Ashburnham, il buon soldato del titolo. Noi sappiamo quanto portare il nome Edward sia impegnativo. C’è un passaggio in cui la luce del sole al crepuscolo (“twilight”) si riflette sul suo volto e allora uno dice, “adesso comincerà a brillare”. Chiamarsi Edward in un’epoca come la nostra e risultare credibili è davvero molto difficile. Questo Edward (e non l’altro, non l’altro) è l’uomo dei miei sogni, perché se siete una ragazza carina e state piangendo su un treno lui si siederà al vostro fianco, vi abbraccerà la schiena e vi bacerà per consolarvi. Vi bacerà anche se non vi conosce, anche se siete una cameriera. Tutto ciò che importa a Edward è che voi siete tristi e lui può consolarvi. E la stessa cosa fa con i bambini orfani, la stessa cosa fa con le povere famiglie di contadini. Edward ha davvero un buon cuore. Insomma, sarebbe l’uomo perfetto se non fosse anche un perfetto fedifrago, un perfetto alcolizzato e un perfetto scialacquatore di patrimoni.
“La signora Ashburnham” è Leonora, moglie di Edward, la quale deve convivere con questo marito perfetto fedifrago, perfetto alcolizzato e perfetto scialacquatore di patrimoni. Leonora è l’unico uomo di questo romanzo e certamente il personaggio più forte della narrazione. È un perfetto economista, un perfetto sacerdote, un perfetto diplomatico. Leonora è sempre lì a curare la propria immagine e l’immagine pubblica del marito, come se fosse un personaggio deviato dei romanzi di Jane Austen. Leonora mi ha davvero ricordato un personaggio di Jane Austen, ma vent’anni dopo: vent’anni dopo, quando Elizabeth è un po’ invecchiata e Darcy scialacqua i patrimoni e ha almeno 3 amanti. C’è un motivo per cui i romanzi di Jane Austen si fermano sempre al matrimonio: perché è dopo il matrimonio che iniziano i veri casini.

Abbiamo dunque questi personaggi, John – Florence – Edward – Leonora, e li vediamo interagire fra di loro. Li vediamo alle prese con scambi di coppia, relazioni extra-coniugali, bancarotte, suicidi. Poi abbiamo il quinto vertice, che per la prima metà del libro si chiama solo “the girl” e che poi scopriamo chiamarsi “Nancy”, ed è davvero una delle creature più commoventi che mano maschile abbia mai creato. Ciascun personaggio ama ciascun altro personaggio e ciascun personaggio odia ciascun altro personaggio, perché in geometria ci sono i lati che uniscono i vertici ma ci sono anche le diagonali. Ciascun personaggio ha un cuore ma non si capisce bene in che senso. Per non metterci ad affrontare quel delizioso tasto che riguarda i rapporti sessuali e di cui vi dirò solo questo: abbiamo almeno due vergini di cui una è certamente frigida/o, abbiamo una frigida che non credo sia vergine, abbiamo due personaggi dalla vita sessuale piuttosto intensa. E non vi dirò chi sono. Assolutamente no. Non vi dirò neanche se sono uomini o donne. È troppo divertente tirare le conclusioni da soli.
Il romanzo alterna momenti di grande comicità a momenti di grande tragedia, ma si chiude con una nota di fondo che non può non essere tragica e che Ford esprime così:

“È un mondo assurdo e fantastico. Perché le persone non possono avere ciò che desiderano? Le cose sono tutte qui, a nostra disposizione, e bastano a soddisfare tutti; tuttavia ogni persona finisce per avere la cosa sbagliata. […] C’è da qualche parte un paradiso terrestre dove, tra il sussurro dei rami d’ulivo, una persona possa stare con chi vuole stare e avere ciò che desidera e sentirsi a proprio agio stesa all’ombra e al fresco? O la vita di tutte le persone è come la nostra – come la vita degli Ashburnham, dei Dowell, dei Rufford – una vita rotta, tumultuosa, agonizzante, priva di romanticismo, una vita punteggiata di urla, di imbecillità, di morti, di agonie? Chi diavolo lo sa.”
Eh sì, è veramente la storia più triste che io abbia mai sentito.

martedì 8 novembre 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap.12

Marcella, Ernst Ludwig Kirchner

Tante cose, tante frasi corsero tra noi che non correvamo, così sdraiati vicini. Così tante che forse ne ricordo la metà. Così tante che forse una metà le ho inventate. Quello che posso fare è raccontarle così come ricordo, per quanto imperfette o forse abbellite nella memoria. Chissà, forse sono persino tutte vere.
« E la tua famiglia? »
« Che c’entra la famiglia? »
« Quanto sanno di quello che stai facendo? »
« Niente, te l’ho detto. Loro pensano che sono in Islanda. »
« Sei tu che vuoi che lo pensino. Che razza di genitori pensano che la figlia è in Islanda e non si danno la pena di controllare? »
« Sono grande. »
« Ah, anch’io. Ma c’è sempre mia madre che mi rompe i coglioni.»
Irene mandò un risolino forzato, di quelli che tiri fuori soltanto per cortesia. Non potevo vedere la sua faccia, perché entrambi fissavamo il soffitto come se fosse interessantissimo, ma immaginai una ruga raggrinzirle la fronte spaziosa, la mascella contrarsi in uno spasimo breve.
« Saranno preoccupati a morte » rispose finalmente.
« Saranno pure morti. »
« Non scherzare. »
« Non sto scherzando. Di dov’è che sei tu? Nessuno ti cerca? »
Irene bisbigliò qualcosa. Appena un fruscio, niente affatto distinguibile. Le chiesi di ripetere.
« Hanno denunciato la scomparsa. Mi stanno cercando. E sanno che non sono in Islanda. »
« E tu? »
« Che potevo fare? Li ho chiamati. Ho detto loro che sto bene, che non posso tornare. »
« E loro hanno capito? »
« Certo che no. Ma mi cercano a Pisa. Era lì che stavo l’anno scorso. Non lo sa nessuno che sono qui. »
« E non vuoi rivederli? »
« No. »
« Perché? Sono così… ? » incespicai, cercando le parole. Ma non vennero. Quanto male poteva aver fatto una famiglia per spingere una ragazza a… ? Neanche nei pensieri mi venivano le parole.
« Perché mi farebbero cambiare idea. Loro sono sempre stati così semplici. Sono sempre stati così buoni. Mi hanno sempre voluto bene. E io neanche un po’. »
« Non ci credo. »
« Fai pure. Ma è l’evidenza dei fatti. Io sono qui e loro mi cercano di là. Io voglio morire e loro vogliono che viva. È così. Non ci sono vie di mezzo. Amare loro significa amare la vita. E io non amo la vita. Quindi non amo neanche loro. »
« Sei troppo radicale. Non è perché ti vuoi… non è perché cerchi di… »
« Perché non riesci a dire ammazzarti? »
« È tanto pesante. »
« Io sono pesante. »
« Il fatto che ti vuoi… ammazzare… non significa che non gli vuoi bene. »
« È quello che direbbero loro. Perché loro sono così semplici. »
« Tutti i genitori sono semplici. Anche i miei. Le famiglie sono così. Esistono per questo. Perché così tutti i problemi sembrano semplici e stupidi. No? »
« È per questo che sono andata via. Non voglio essere semplice, non voglio essere stupida. Voglio essere pesante e… radicale. »
« Parli come una bambina. »
« Senti chi parla. »
Mi girai su un fianco, dandole le spalle. Con la coda dell’occhio spiavo la bacheca. La sentivo respirare piano, tranquilla, come una lenta melodia di pianoforte. Era una canzone malinconica ma tenace, che crescendo e crescendo si affermava, affermava su tutto e tutti il suo messaggio, riverberando da una parete all’altra della stanza, facendo cadere i ventagli delle signore, tremare gli sgabelli degli spettatori col cilindro. Ed io mi sentivo tutto scosso, come liquefatto, impotente. C’era solo da togliersi il cappello ed uscire.
« Ma perché? » domandai, e fu un atto di ribellione istintiva.
« Perché lo faccio? »
« Sì » risposi a voce bassissima.
« Perché non c’è niente per cui valga la pena di. »
« Di cosa? »
« Di tutto. Non c’è niente per cui vale la pena di. »
Mi voltai di scatto. Sentivo che mi tremava il mento. Tremavano i denti negli alveoli. Tremava il sopracciglio. Tremavano le nocche bianche delle dita.
« Ma non ha senso! »
Lei era calma come melodia di pianoforte, calma come acqua stagnante.
« Ecco. Non ha senso. Proprio questo. »
Sorrideva ancora di quel sorriso sottile, un po’ ironico, un po’ altezzoso, come se non potesse essere capita da nessuno. Come se avesse il diritto, la pretesa di comprendersi lei sola. Nessuno poteva dirle cosa fare. Nessuno poteva correggere una cosa quando lei l’aveva detta. Era come una sacerdotessa delirante e le sue parole erano profezia e foglie e un refolo di vento spazzava il pavimento del tempio, e io ero lo stupido venuto a chiedere all’oracolo.
« Ma ci sarà qualcosa che vuoi! Qualcosa che volevi! Qualsiasi cosa! Qualcosa che è successo! »
« Qualcosa che non è successo. Vent’anni, sette mesi, ventisette giorni. »
« Piantala di fare la scema! »
« È come parlare col muro. »
« È come parlare con una deficiente. »
« Se stai qui per insultarmi te ne puoi anche andare. »
« E se io devo stare qui a deprimermi vado a casa e ci penso da me. »
« La porta è quella. »
Ma non mi alzai. E non andai verso la porta. Tanto sarebbe stato meglio se l’avessi fatto.
Per un po’ restai così, senza sapere che dire né che fare. Era così testarda. A qualsiasi mia domanda avrebbe sempre risposto così, con la pretesa di avere ragione. Non si poteva farle cambiare idea. Allora forse si poteva provare a… A capirla? Ma come si poteva capirla? Era così lontana, così lontana da tutto quello che io ero e da quello che pensavo di essere. Irene era oltre. Allora perché volevo trapanare quel muro, il muro che ci divideva e che sempre ci avrebbe diviso? Per stringerle le dita quando il buco fosse stato abbastanza grande? E che senso avrebbe avuto? Era solo un piccolo foro, erano solo piccole dita, era poco più che niente. Perché volevo quel niente? Non si poteva scavalcare il muro, non lo si poteva abbattere, non si poteva scavare un sottopassaggio. Solo stringere quelle dita lievemente contratte con la punta delle proprie dita lievemente contratte. E forse era questo che io volevo. Un contatto, pure brevissimo, una scintilla, sapere che c’era effettivamente qualcosa dall’altra parte del muro. Far sapere a lei che c’ero anch’io. Farle sapere che c’era un muro, di cui senza di me non si sarebbe mai accorta. Ero folle? Ero un idiota senza speranza?
« Cos’è che non è successo? » mi sforzai.
« Niente. »
« Smettila di fare così, per favore, smettila. »
« Così come? »
« Così vaga. Finta. Artificiale. Parla con me. Per favore. »
« Niente. Non è successo niente. Tutta la vita è stata sempre uguale. E io ho sempre avuto un’ansia di fare qualcosa, di avere un senso, capisci? Ma non ho fatto mai niente e un senso non c’è. »
« Cosa volevi fare? »
« Qualcosa di bello. »
« Cristo, Irene! »
« Volevo che qualcuno mi volesse bene e volere bene a qualcuno. »
« Ma hai… »
« Non dire quelle stronzate. Non dire gli amici. Non dire i parenti. Tu lo sai che cosa vuol dire. Lo sai anche tu. Non fare il moralista del cazzo. »
« Sei tu che non devi dire stronzate. Non fare l’angelo del Paradiso. Un ragazzo? È di questo che stiamo parlando? Stiamo davvero parlando di sesso? »
« Tu lo dici. »
Era molto pallida e adesso un po’ chiazzata di rosso. Ed era tanto più rossa quanto più era pallida. E io stavo quasi per picchiarla. Era buffo guardarla in viso, buffo perché era così imbarazzata, e anche così arrabbiata. Aveva gli occhi liquidi e neri neri, spalancati come gli occhi di un cerbiatto. Si mordeva coi denti il labbro inferiore. E non sapevo se stesse per piangere o per mettersi a ridere. Ma non avrebbe risposto, questo lo sapevo. Perché non ero stato gentile a domandare.
Ma poi… non era tutto lì? Quell’ansia metafisica che diceva lei, quell’ansia per niente. Cosa? Questione di sentirsi vivo per qualche mezz’ora ed avere caldo senza avere le coperte. E quando ci si svegliava al mattino un paio di mutande sulle piastrelle e il bagno occupato. Tanto rumore per nulla.
Oppure ero io, io che non avevo mai capito cosa ci fosse di bello in un bagno occupato, io che alla frase “quando?” rispondevo sempre “non lo so”, io che volevo essere felice per mezz’ora e non mi importava affatto di tutta la vita. Chi voleva il bagno occupato? Chi voleva un bagno occupato per tutta la vita? Si poteva avere qualche mezz’ora ogni tanto e il bagno sempre sgombro. No, non ero così cinico, non ero così freddo, ma loro mi raffreddavano, loro coi loro artigli di mogli e fidanzate e tutto il resto. Si installavano in casa tua, dormivano nel tuo letto, occupavano il tuo bagno, dicevano “mi presenti ai tuoi?”. Perché dovrei? Loro mi spaventavano, perché volevano qualcosa da me. Ma alla fine capivano, lo capivano tutte. E Maria e Nadia e Rebecca, sfilate via come ballerine di carillon, coi loro mariti in qualche parte del mondo, adesso, e un bello stuolo di marmocchi. “Non è questo che vuoi anche tu?”, no, non è questo che voglio. “Allora hai paura”, paura di cosa? Paura di cosa? Di essere libero, di avere la mia indipendenza? Era bellissimo e niente affatto pauroso.
Così non potevo capire Irene. Non potevo capire Irene come nessun uomo poteva capire nessuna donna. Ma forse io ero tanto più speciale da non poterla capire neanche un po’.
« Non è questo » disse lei, dopo un po’ che stavamo zitti.
« Sapevo che l’avresti detto. »
« Non è questo perché non è solo questo. Perché quello che dici tu si può sempre avere. Se uno si accontenta. Se uno abbassa gli standard. Ma quello che voglio io non è una cosa che si può avere sempre. »
Leggevo la bugia che barcollava nei suoi occhi.
« Hai mai avuto l’occasione di accontentarti? »
« Che vuoi dire? »
« Voglio dire… ti è mai stato proposto di accontentarti e tu hai rifiutato? »
« No. »
« E allora come fai a sapere che non è solo questo? »
« Se fosse così avrei un altro motivo per ammazzarmi. Perché non c’è davvero niente, davvero niente che…  »
Lasciò cadere la frase, e quella cominciò a fluttuare tra noi come se fosse una piuma. Non c’era bisogno che io la raccogliessi, perché sapevo cosa portava scritto. Così quella ci sorvolò e restò ad alleggiare sospesa, senza che nessuno sentisse davvero il bisogno di completarla.
« E se fosse solo così? Se tu volessi ammazzarti solo perché nessuno si è mai voltato a guardarti per strada? »
« Non è così. »
Abbassò gli occhi e fissò il lenzuolo e le sue piccole unghie si artigliavano come tante conchiglie con la bocca spalancata.
« Perché se è così stai sbagliando tutto, Irene. Perché io mi sono voltato. »

Di Chiara Pagliochini

lunedì 7 novembre 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap.11


« Vent’anni, sette mesi, ventisette giorni. »
Aveva questo modo un po’ teatrale di dire le cose, come se volesse impressionare qualcuno o recitare una parte, come se le rimuginasse tra sé e sé per giorni, prima di pronunciarne una sola. Ma io non sapevo cosa rispondere. Ero lì, sdraiato sul suo letto, faccia al soffitto, e non sapevo cosa rispondere.
Come fossi finito sul suo letto è una storia che merita di essere raccontata più distesamente. Dev’essere stato quel giorno, sì, ne sono quasi sicuro, il giorno in cui mi trovò che vomitavo nel bagno. Non avevo avuto l’accortezza di chiudere la porta ed ero lì sul pavimento, in ginocchio, piegato in due sulla tavoletta. Dovevo essere un ben misero spettacolo, grande e grosso come sono. La sua mano gentile mi si era posata sulla testa e l’avevo vista piangere, piangere da una parte sola.
« È andata » aveva detto. E poi « Puoi venire qualche ora da me, se ti va. »
Era un’offerta molto generosa da parte sua.
Aveva strappato due strisce di carta igienica e mi aveva pulito gli angoli della bocca. Dovevo essere un ben misero spettacolo.
« Va bene » avevo risposto, alzandomi in piedi. Avevo tirato lo sciacquone.
E così eravamo usciti nell’aria fredda della sera, stringendoci contro il bavero del cappotto. Il bimbo di ottone intirizziva sotto il faro sterile del lampione. Non c’era nessun altro e il silenzio rimbombava da un capo all’altro di Via Santa Chiara, rimbalzando tra le pareti di mattone. Avevamo attraversato la piazza, superato il Duomo e allora Irene s’era voltata un attimo per prendermi per mano. Non capivo perché l’avesse fatto.
« Andiamo, dai » aveva detto.
Solo allora m’ero accorto di essermi fermato, fermato così senza un motivo, fissando un punto a caso della scalinata del Duomo, e un gruppo di ragazzi mi aveva fatto ala attorno. Mi guardavano tutti. Non ci si doveva fermare così per strada.
Avevo ripreso a camminare, gettando appena un’occhiata a una ragazza con il rimmel azzurro e una birra in mano. Irene mi strattonava come se fosse mia madre. E poi non credo di ricordare più niente. Dovevo aver camminato, camminato e basta, senza dire una parola.
All’improvviso quella frase di Irene:
« Vent’anni, sette mesi, ventisette giorni. »
Io sul suo letto. Questo me lo ricordo.
Era sdraiata accanto a me, con il viso rivolto verso la parete, e mi dava le spalle.
« Cos’è? » chiesi ai suoi capelli.
« Il tempo che sono viva. E il tempo che sono sola. »
« L’hai contato? »
Era una domanda piuttosto stupida.
« No, no » la vidi stringersi nelle spalle, le scapole che si contraevano leggermente « Solo immaginato. »
« È tanto tempo. »
« Lo so. »
« È per questo che… ? »
Si voltò lentamente, rotolando su un fianco, e mi guardò cogli occhi sgranati attraverso la frangetta. Erano umidi.
« Per favore, non ora » rispose. Mi si stringeva il cuore a vederla così, e non potevo fare niente, niente per aiutarla. Non potevo chiedere. Non potevo muovermi. E non potevo neanche stringerle la mano. Qualsiasi cosa sarebbe stata troppo, troppo da fare, troppo da accettare. Allora rimasi semplicemente così, immobile, con le mani lungo i fianchi strette a pugno.
« Vuoi che vada giù a farti un… tè? »
« No, no » disse, scuotendo la testa pian piano sul cuscino.
« Allora… ? »
« Niente, non fare niente. »
Ed io feci niente per un minuto, due minuti, tre minuti. Ma quattro mi sembravano troppi. Non potevo restare così, congestionato sul suo letto come se fosse un sarcofago. E poi non c’era abbastanza spazio per entrambi. Mi alzai a sedere, le gambe che penzolavano giù, i piedi nei calzini. Non ricordavo di essermi tolto le scarpe. Mossi il pollice, così, tanto per vedere se funzionava, e non feci niente per un altro, per altri due minuti. Irene non si muoveva, il lenzuolo non frusciava, la sua gola non singhiozzava. Niente.
I grossi ritratti dagli sguardi persi e concentrati erano ancora là, paurosi come li avevo lasciati l’ultima volta. E c’era anche la ragazza distesa sull’acqua. Vederli da quella distanza, dalla sponda del letto, faceva un’altra impressione. Era come se fossero una sinfonia, come se si legassero l’uno all’altro in modo spontaneo ed immediato. Ma io non sapevo fare il collegamento.
Mi voltai verso Irene. La trovai con la testa appoggiata su un gomito, che guardava me, guardava la parete dietro di me. Non piangeva più.
Indicai i ritratti, solo questo. Lei alzò le spalle, come a dire, “pazienza” o “che vuoi farci”, anche se non c’entrava assolutamente nulla. Si distese in un sorriso piccolissimo.
« Sono i miei… spiriti guida? »
C’era un che di interrogativo nel tono in cui lo disse, come se non ne fosse certa neanche lei. E non potevo certo esserlo io.
« Le due donne sono Virginia Woolf e Sylvia Plath. Quello che sembra un marinaio è Hemingway, il signore con gli occhialetti è Cesare Pavese. E quello coi baffetti è… »
« Salgari » completai per lei.
« Come… ? » sembrava sorpresa.
« Ti ricordi quella volta, alla lezione di harakiri? »
« Ah, certo. »
« E sono tutti… ? »
« Già. Tutti colleghi nostri. »
« Morti. »
« Sì. »
« Non è allegro. »
« Neanche un po’. Ma poi… perché dovrebbe esserlo? »
Sorrideva più distesa adesso, come una mamma che racconta una storia. E io che potevo essere suo padre… Ma mi sentivo così annientato, così annientato quando c’era lei, così soverchiato da tutto quello che lei era che mai, mai riuscivo a comportarmi come avrei dovuto. Ero indietro di dieci, vent’anni, vent’anni sette mesi ventisette giorni. Ero un bambino curioso che chiede. Ero un bambino curioso che ascolta.
« Come? » domandai, indicando col capo la parete. Il bello è che bastavano così poche parole.
« Lei » rispose, indicando col dito la signora dal lungo collo, ed io mi mossi lungo la traiettoria del suo polpastrello « Lei è Virginia. Era un poco… non stava molto bene, ecco. Ed era infelice e tanto tanto intelligente. E scriveva come se avesse un pennello in mano. È affogata in un torrente. »
La guardavo boccheggiare, cercare le parole più adeguate, le più lievi e le più adatte per spiegarsi, proprio come se fossi un bambino da istruire. Un bambino di quelli che non devono essere feriti.
« L’altra, Sylvia, era un poeta. E non era così felice neanche lei. E aveva tanto odio e tanto amore dentro. Imburrò due fette di pane e riempì due tazze di latte da lasciare sul comodino nella camera dei bambini. Poi chiuse tutti gli spifferi della casa. Come nelle fiabe, hai presente? Quando arriva la strega cattiva e allora gli eroi si sigillano nei castelli. Lo fece anche lei. E infilò la testa nel forno. »
Rividi l’espressione ammirata di Iris, la sua sorpresa quando avevo detto che… detto che… io la testa il forno a gas. Non era andata così. Ma c’era gente che l’aveva fatto. L’avevano fatto davvero.
Gli occhi di Irene erano fissi, vitrei. Sembrava determinata ad arrivare fino in fondo.
« Cesare è il mio preferito. Non lo pensava nessuno che l’avrebbe fatto. Non lo pensava neanche lui. Perché era da tutta la vita che ci pensava, capisci? Ci pensava così tanto che era quasi sicuro che non l’avrebbe mai fatto. Ma poi… beh, l’ha fatto. Ha scritto, “non scriverò più” e “non fate troppi pettegolezzi”. E non gli piacerebbe neanche un po’ che stiamo ancora qui a parlare di lui, ma tant’è… sonnifero, comunque. Sembra quasi una morte da donna. Hemingway si è sparato alla tempia con un fucile e Salgari… »
« Ha fatto harakiri. »
« Con un rasoio in un bosco. »
Io non sapevo propriamente cosa fare. Era tutto così tragico e così comico al tempo stesso che non ti veniva voglia di far nulla. Non ridevi, non piangevi. Era solo grottesco. Grottesco che potessi stare lì a parlare di cose come queste quando potevi prenderla e schiacciarla contro il materasso e baciarla, no? Baciarla fino a farle passare la voglia di ammazzarsi. Non era forse la cosa giusta da fare?
No, non era giusto neanche un po’. Perché questo era ciò che volevo io, non quello che voleva Irene. Irene aveva la sua bacheca e il suo conto dei giorni, il suo piccolo calendario di solitudine e di morte. I suoi occhi erano proprio come i loro. Tutti quegli stupidi scrittori morti. Tutta quella banda di idioti che io odiavo e le cui foto avrei strappato brano a brano. E poi c’era la ragazza, la ragazza sull’acqua, certo.
« Ofelia » disse Irene, e io seppi che lo sapevo. Ero solo troppo stupido per ricordarmelo.
Sospirai e sentii la cassa toracica che si rilassava, si dilatava, come se un peso fosse stato appena spinto via. In realtà c’era appena caduto. Era caduto un grosso peso, come cadevano le parole di Irene, e io ero lì a ricevere entrambi.
Aveva il capo reclinato e quel sorriso impercettibile e un po’ storto, felice di una felicità malsana e irraggiungibile. Era certamente un sorriso crudele.
Restava una domanda sola. Fatta quella, non ce ne sarebbero state altre. Non ci sarebbe stato altro da dire, da chiedere, da fare. Nessuna mano da tendere oltre l’abisso. La feci. Lei rispose.
« E tu? »
« Io questo non posso dirtelo. »
« Perché no? »
« Cosa cambia? »
« Cambia. »
« Non adesso. »
« Aspetterò. »
« Va bene. »
« E adesso? »
« Vieni qui. »
Mi sdraiai di nuovo al suo fianco e restammo lì fermi, un po’ zitti e un po’ parlando, a guardare il soffitto, senza toccarci, proprio come due morti in un sarcofago vicino. Ma eravamo insieme. Ed era così strano.

Di Chiara Pagliochini