venerdì 18 novembre 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap.13

William Turner, Moonlight A study at Millbank

Per un breve istante tutto restò sospeso, cristallizzato, sfaccettato in tante superfici scivolose. Negli occhi di Irene c’era un muro di ghiaccio e le sue unghie grattavano via trucioli d’acqua gelata. Era incantata ed eterna come una statua. Poi parlò con quella voce di bambola, tra il disincanto e la fiaba, quella voce rauca e ingenua di giovane vecchia. Parlò e parlò, e la sua voce ancora mi rintrona nell’orecchio. Qualche volta è il vento, e i suoi accenti come foglie trascinate via. Qualche volta è la pioggia, e allora le sue parole piombano contro l’ombrello con un suono di finitudine. La sento in ogni bambino e in ogni ticchettio d’orologio. È strano come funzionano queste cose.
Disse che era felice che io l’avessi vista. Era felice. Così felice che non si poteva dire. Ma questo non cambiava le cose, non cambiava né gli anni né i mesi né i giorni che era stata sotto gli occhi della gente e nessuno l’aveva guardata. Anche se non era per questo, non era per questo che… E tuttavia era vero, era vero che per anni, per mesi, per giorni si era preoccupata che nessuno la vedesse.
« No, non preoccupata. Perché uno è preoccupato se non sa il perché delle cose, giusto? »
Era triste, solo triste, perché lei il perché delle cose lo sapeva. Lei sapeva perché nessuno la guardava.
« Perché io sono una cosa così orribile. »
Detto da lei, con quella faccia bianca, con quegli occhi spalancati come biscotti, era così orribile davvero.
Disse che c’era un sogno che faceva sempre. Mi chiese se avevo voglia di ascoltare, poi prese a parlare senza che le avessi risposto. Ma io non sapevo se avevo ancora voglia di ascoltarla.
Era seduta di fronte ad uno specchio, voltata di schiena con le spalle scoperte e appena una porzione di pelle illuminata. Il volto nel riflesso si dilatava e tremolava come l’apice di una fiamma, contorto in una vampa di fumo. Poteva vedere il suo viso. Il suo viso? Lo era davvero? Era così bianco, così bianco, bianco come la neve come latte come luce, bianco dal mento alla fronte e dalla fronte al mento, bianco fino all’attaccatura dei capelli. E gli occhi invece erano così neri, un decoro di trucco grigio che si allungava sulle tempie come le ali di un cigno. E la bocca era così viola, le labbra così turgide e dischiuse. Era lei, non era lei. Come poteva saperlo?
E poi tutto cambiava, e non c’era più nessuno specchio, ma un vasto letto al centro di una vasta stanza piena di luce. La luce filtrava dalle pareti, perché le pareti erano di vetro. Era una luce bianca e verde, come se filtrasse attraverso il fitto d’un fogliame. E lei era al centro del letto con le gambe piegate da un lato, e un cerbiatto in grembo. Un cerbiatto? Così sembrava. Era morbido tra le orecchie e aveva il naso bagnato. Vedeva se stessa dall’esterno, riusciva a spiarsi da ogni angolatura. Si guardava da fuori, dalla porta della stanza, attraverso il buco della serratura. L’inquadratura era verticale, poi muoveva a sinistra ed eccola ribaltata in orizzontale, come se qualcuno stesse aggiustando l’obiettivo, come se qualcuno volesse scattarle una foto.
Poi il cerbiatto sollevava le orecchie e il suo naso si dilatava a un odore che lei non sentiva. Ma non era più un cerbiatto, era un cane, un cane con un buffo naso da cerbiatto; e il cane saltava giù dal letto, usciva dalla stanza piena di luce verde e lei lo seguiva attraverso un giardino ch’era tutto verde, attraverso un prato che digradava in discesa. Il cane-cerbiatto si muoveva furtivo, sempre fiutando una traccia che lei non poteva avvertire ma che aveva chiara ai sensi come una tensione, una scossa elettrica di cui vibrava l’aria e di cui aveva vibrato il riflesso nello specchio e che ora era fuoco liquido e pericolo nelle vene.
E poi il cane trovava la sua preda, e la vedeva anche lei, una grossa belva irsuta che balzava fuori da dietro un cespuglio. Una voce fuoricampo urlava cose orribili nella testa. La bestia era enorme, pelosa, marrone. E il cane-cerbiatto era piccolo e spaventato. E lei era così impietrita dall’orrore che non poteva fare niente proprio niente per fermarli. I due animali si avventavano l’uno contro l’altro e in una zuffa di pelo e di urla rotolavano giù per il pendio. E lei guardava quella bestia orribile, quella bestia orribile tutta unghie e tutta denti e la pelle del cerbiatto fatta a brani. Lei guardava l’orribile bestia, e una voce dentro e fuori le diceva:
« Questa cosa orribile sei tu. »

Mi guardò. Aveva parlato tenendosi la gola con le mani, scegliendo le parole una ad una, come se le sue mani fossero un canale in grado di dividere una parola dall’altra, di mandar fuori le più dure e ricacciare indietro le meno efficaci. Ogni parola emessa era una staffilata, ogni parola respinta una breccia sulla parete dello stomaco. Pensai che fosse completamente pazza.
« Capisci? » domandò.
No, non capivo. Non capivo niente.
« Capisci? Come si può vivere così? »
« Così come? »
« Così. Sapendo che tu sei quella cosa orribile. »
« Ma non è vero. »
« Certo che lo è. Lo è per me. Se io sogno me stessa come una cosa orribile, se penso a me stessa come a una cosa orribile, come posso ancora sopravvivere? Dov’è finito l’istinto di conservazione? Dov’è finita la mia dignità? Non ci sono più, capisci? Io sono arrivata a un’idea così orribile di me stessa che non posso più neanche sopravvivere. »
Che si poteva dire? Come si poteva rispondere? Era come infilare la mano in una bacinella di schegge di vetro.
« Tu sei una persona migliore di quello che credi. »
« Tu dici? »
« Sicuro. »
« E cos’ho fatto di buono per te? Cos’ho fatto di buono? Sentiamo. »
« Tu hai… preso in custodia Ryanair… »
« Non mi sembravi così contento quando sei venuto a riprenderlo. »
« Ma cosa c’entra. Che c’entra. »
« Neanche tu puoi dire che io abbia fatto una sola cosa buona. E io ti dico di non averne fatte mai. E non è una cosa di cui meravigliarsi che la gente non si volti a… »
« Ma alla gente non importa niente di quello che fai. Non gli importa di quello che sei. »
« E cosa importa alla gente? »
« Senti, la gente non si volta. La gente non si volta quasi mai. Non è una cosa di cui preoccuparsi. »
« Cosa importa alla gente? »
« Se hai… una bella faccia? »
« Ho una bella faccia? »
« Tu non… »
« Puoi dirlo. »
« Tu non hai una faccia. »
« E lo sai perché non ho una faccia? Lo sai perché non guardo in faccia la gente? »
« No. »
« Perché vedrei la loro faccia contorcersi d’orrore alla vista di una cosa così orribile. »
« Tu sei pazza. »
La vidi prendere fiato. Il petto si alzava e si abbassava, fasciato dal lenzuolo che era tutto un’onda. Una sottile striscia di luce sbatteva su di noi dalla finestra, tagliando la sua faccia a metà. Sembrava una creatura di un altro mondo, sembrava un mostro rannicchiato su se stesso. Io avevo paura.
Mi alzai e camminai verso la finestra, tanto per fare qualcosa. Le suole delle mie scarpe facevano rumore, un rumore di gomma da cancellare.
Irene si alzò e appoggiò la schiena contro la parete, le gambe che penzolavano giù dal letto. Nel buio potevo vedere solo il bianco delle sue pupille.
« Mi dispiace di averti spaventato » disse, con una voce rassicurante di madre.
« Non mi hai spaventato. È solo che… no, non so spiegartelo… »
« Provaci. »
« Mi sento da schifo per te. »
« Ma io sto bene, non devi preoccuparti. Andrà tutto a posto. »
« Non è così che deve andare. Non… non ha semplicemente senso. »
« Cosa non ha senso? »
« Quello che tu dici, quello che pensi. Niente. »
« Non deve avere senso. È solo quello che penso. »
« Ma tu non sei quello che pensi di te. »
« Se non sono come mi pensano gli altri e non sono neanche quello che penso di me, allora chi sono, che sono? »
« Devi proprio essere qualcosa? »
« Dicono così. »
Si alzò dal letto e i suoi piedi nudi scivolarono sul pavimento come una carezza. Mi poggiò una mano sulla spalla, con fare tranquillo, così tranquillo, come se non fosse successo niente.
« Vieni » disse. Poi spalancò la finestra e una grande luce bianca filtrò per tutta la stanza. Uscì sul terrazzino, si appoggiò alla ringhiera e disse di nuovo:
« Vieni. »
Guardai le sue gambe, guardai i suoi fianchi, la sua schiena, i suoi capelli. Era così piccola e la notte così grande. Mossi due passi e la raggiunsi, schiacciai la pancia contro la ringhiera. Non c’era più niente da dire.
Una luna bianca enorme era sospesa sopra di noi e la sua luce era sfumatura di gessetto sulle cose, tutte così irreali, tutte così vibranti. La strada deserta, i palazzi, i davanzali delle finestre, i lampioni, le panchine, la strada che si perdeva lontano, sotto la luce arancione dei lampioni e le panchine d’acciaio che scintillavano. E non una sola voce, non un solo movimento in tutto il mondo. C’eravamo solo noi.
« Non avere paura. È così bello » disse Irene. 

Di Chiara Pagliochini

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