«Alfine mi riconquistavo, alfine accettavo nella mia anima il rude impegno di camminar sola, di lottare sola, di trarre alla luce tutte quanto in me giaceva di forte, d’incontaminato, di bello, alfine arrossivo dei miei inutili rimorsi, della mia lunga sofferenza sterile, dell’abbandono in cui avevo lasciata la mia anima, quasi odiandola. Alfine risentivo il sapore della vita, come a quindici anni».
Ho raccolto
questo libro dallo scaffale un po’ per caso, in cerca di una lettura breve, ma
che potessi lasciarmi qualcosa. È stata una buona decisione, per quanto
inconscia. Di Sibilla Aleramo conoscevo soltanto il nome e, a dire il vero,
nemmeno quello, trattandosi di uno pseudonimo. Avevo vaghe cognizioni della sua
vita e della sua opera e anche ora posso dire di conoscerne soltanto una parte,
quella che si affaccia in questo romanzo autobiografico, che racconta i primi
anni della sua vita. Esso racconta, in effetti, di un’altra vita, quella di Marta
detta Rina, di una gemma di donna pronta a schiudersi e a sbocciare solo nelle
ultime righe del testo, staccandosi dalla pagina per librarsi e – liberarsi –
verso un’esistenza femminile più consapevole e dignitosa.
Marta detta
Rina è ragazza intelligente, caparbia, coraggiosa, intrappolata in un’esistenza
troppo stretta, costretta ad assistere al disfacimento della propria famiglia e
alla follia della madre. Vittima di una violenza carnale in giovane età, è
spinta a un matrimonio riparatore con un uomo ottuso e prepotente. Le uniche
gioie della sua vita coniugale vengono dall’amore per il figlio Walter e dal
fatto di poter in qualche modo esercitare una propria indipendenza, attraverso
la collaborazione con riviste femminili e gli studi.
E, proprio
attraverso lo studio, attraverso il contatto con un ambiente diverso da quello
famigliare, Marta detta Rina matura la lenta ma progressiva consapevolezza di
star conducendo un’esistenza ignominiosa, accanto a un marito che non ama e che
non la ama e che, per di più, la sottopone a continue violenze fisiche e
psicologiche. Marta detta Rina aspira a rivendicare la propria dignità di
donna, a rivendicare tale dignità per tutte le donne, a vivere senza rimorsi e
vergogna il suo bisogno d’amore. Questo la porta, in ultima analisi, al
sacrificio che considera supremo: l’allontanamento dalla casa coniugale e la
perdita dei diritti su suo figlio, unico legame che per tanti anni l’aveva
tenuta in vita. Il punto di arrivo della sua maturazione è estremamente
doloroso, ma ancora oggi illuminante:
«Perché nella maternità adoriamo il
sacrifizio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna? Di
madre in figlia, da secoli, si tramanda il servaggio. È una mostruosa catena. Tutte
abbiamo, a un certo punto della vita, la coscienza di quel che fece pel nostro
bene chi ci generò; e con la coscienza il rimorso di non aver compensato adeguatamente
l’olocausto della persona diletta. Allora riversiamo sui nostri figli quanto
non demmo alle madri, rinnegando noi stesse e offrendo un nuovo esempio di
mortificazione, di annientamento. Se una buona volta la fatale catena si
spezzasse, e una madre non sopprimesse in sé la donna, e un figlio apprendesse
dalla vita di lei un esempio di dignità?»
Marta detta
Rina è un’Anna Karenina in carne ed ossa, che però non finisce i suoi giorni
sulle rotaie, ma nei salotti mondani, dove allaccia avventure e storie d’amore,
con uomini e donne, e dove scrive, esprime se stessa, vive a tutto tondo. Ma ormai
non è più Marta né Rina: è Sibilla, rinata dalle ceneri della ragazza, e questa
donna io non la conosco ancora bene.
Questo romanzo,
uscito in Italia nel 1906, non è privo di difetti. Al lettore contemporaneo
potrà risultare un po’ troppo enfatico e, al tempo stesso, un po’ troppo
reticente: dettagli sui nomi, sui luoghi, persino sulle violenze sono
sistematicamente abrasi e appaiono soltanto fra le righe. È un libro, ancora,
che racconta molto, ma mostra molto poco, e oggi forse non sarebbe neanche
pubblicato. Eppure, per fortuna, fu pubblicato in un’epoca ancora oscura per la
donna com’era l’inizio del secolo scorso ed esercitò la sua influenza: forse
salvò da un’esistenza buia qualche decina di Marte e di Rine, forse aprì gli
occhi di molte altre. Certamente spalancò la strada a un tipo di scrittura
femminile schietta, intrisa di verità e di miseria, che non era fino ad allora
praticata.
«Un libro, il libro… Ah, non vagheggiavo di
scriverlo, no! Ma mi struggevo, certe volte, contemplando nel mio spirito la
visione di quel libro che sentivo necessario, di un libro d’amore e di dolore,
che fosse straziante e insieme fecondo, inesorabile e pietoso, che mostrasse al
mondo intero l’anima femminile moderna, per la prima volta».
Ieri sera,
dopo aver terminato la lettura, ho voluto fare una ricerca. Mi domandavo se
Sibilla fosse riuscita a riallacciare un rapporto con suo figlio. Ho scoperto,
purtroppo, che si rividero soltanto tre volte e che lui non le perdonò il suo abbandono.
E questa, sono sincera, è la cosa che mi ha riempito di tristezza più di tutte.
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