Andrew Wyeth |
Faceva chiaro. La Lena disse che se ne andava
al fiume a lavare i panni.
« Ti accompagno » seguì Antonia, che quei
giorni non poteva staccarle gli occhi di dosso.
« Valle dietro » disse sua madre, squadrando la
Lena con aria di disapprovarla. La Lena ricambiò lo sguardo come una gatta in
calore, orgogliosa e cattiva, e non rispose niente. Raccolse d’accanto alla
porta la conca con il lenzuolo del corredo. A stare nella cassapanca per tant’anni
aveva preso di stantio e c’era bisogno di una rinfrescatina prima di stenderlo
sul letto. La Lena si contemplò in testa l’immagine di quel letto, strinse le
cosce e aprì la porta. Antonia la seguì.
In un canto del cortile, davanti al pero, Nino
e Armando si litigavano la palla. Era un pallone vecchio, racconciato, che
aveva visto più giorni brutti che giorni buoni. Nino diceva di averlo trovato
lui, Armando gli diceva di giocarci anche col Giulio e con Carlotta.
« Se s’incapricciano della palla e ce la
rubano? »
« Allora li meniamo, non c’è problema. »
Questo sembrò rassicurare Nino, che, messosi il
pallone sotto il braccio, s’avviò con Armando verso casa dei Massenzi.
« I soliti deficienti » disse Antonia,
vedendoli che si allontanavano.
« Dici così solo perché non ci puoi giocare più
».
« E chi l’ha detto che non ci posso giocare
più? »
La Lena si voltò e le rivolse un sorriso di
presa in giro. Antonia avvampò e si zittì. Due giorni prima, quando s’era tolta
le calze, aveva visto rosso lungo le cosce. E le calze e la sottana erano tutti
intrisi di una cosa che pareva… « Sto morendo! ». La Lena l’aveva guardata allo
stesso modo dalla soglia della stanza da letto: « Non morrai ». Antonia s’era
portata le calze alla bocca e aveva respirato l’odore aspro del suo sangue. La
Lena aveva aperto il cassetto del comò e ne aveva cacciato le sue pezze
mensili. « Ti serviranno », aveva detto nel passargliele. All’Antonia era morto
qualcosa nel cuore.
Adesso, sentendo il fischio di Nino che
riempiva l’aria, le veniva voglia di gettare alle ortiche quella sua nuova
condizione e andare anche lei a giocare a pallone e fare quello che aveva sempre
fatto. Ma la Lena seguitava a guardarla, come per vedere se lo faceva davvero.
Antonia si morse la lingua e disse: « Andiamo ».
Faceva caldo quel giorno. Marilena si tergeva
il sudore dalla fronte e cambiava spesso braccio per la conca. Gli aveva detto,
« Alle tre al fiume », ma quel salame poteva anche non capire niente. Avesse
capito o meno, doveva studiare un modo per liberarsi dell’Antonia. La nostalgia
sembrava non fosse servita a niente. Sapeva che non l’avrebbe lasciata da sola
un secondo e questo avrebbe mandato all’aria tutto, ma non poteva permettere a
sua madre di castrarla. Se aveva tanta voglia di pararla, venisse almeno lei anziché
Antonia. Con Antonia era pietoso, perché non capiva niente. E poi… mancavano
sei giorni allo sponsale. Che differenza poteva fare? Chi ci avrebbe badato? La
Lena era furiosa, si stizziva. Le venne voglia di tramortire l’Antonia, una
botta in testa e trascinarla nella macchia. Il sole le faceva ribollire il
sangue e il desiderio era così forte che si sentiva girare la testa. Le gambe
la reggevano a malapena. Sentiva che avrebbe potuto uccidere qualcuno. Se Stefano
non veniva, era lei che moriva.
***
Stefano tirò su i pantaloni e si grattò una
guancia con due dita. L’orologio che gli aveva regalato il babbo faceva le due
e mezza. Gli aveva insegnato la Lena a leggere l’ora, la lancetta più lunga e
la lancetta più corta, e le sue dita fine e pulite, con le unghie corte, gli
indicavano i numerini nel quadrante.
« E quando la stanghetta grande è più o meno
qui, diciamo… ti conviene avviarti, così non fai tardi. E vedi di non far
tardi, ché t’ammazzo. Guardami negli occhi, m’hai capito? »
Gli aveva posato una mano sulla coscia, vicino
all’abbottonatura dei calzoni, e Stefano s’era spostato per tirarla via. « Io
vengo, ma adesso ferma, c’è la mamma ». La Lena l’aveva guardato come se lo
disprezzasse e, anche se Stefano sapeva che non era vero, s’era sentito in quel
momento proprio un verme. Si era sporto per baciarla sulla guancia, ma il suo
bacio era stato mal accolto.
« Tesoro, tu non porti pazienza ».
« Ne ho portata pure troppa, se è per questo. »
« Ma sei giorni… »
« Non capisci che mi sento di morire? »
« Che ti credi, che io no? Che non ti voglio? »
« Non mi vuoi » disse la Lena, risentita.
« Amore, io ti prego… »
« Vieni alle tre ».
« Fammi vedere, ti prego ancora, la lancetta ».
***
Quando il pallone aveva raggiunto il punto più
alto della sua parabola, su nel cielo schiantato d’azzurro, Carlotta aveva
fatto un’O con la bocca. Adesso, mentre riscendeva e travolgeva nel tragitto la
finestra del piano di sopra, il vetro che era chiuso, chissà perché, la sua O
riprese forma in uno strillo. E non sappiamo se fu prima lo strillo o prima il
gracchio dei frammenti di vetro e la palla che sul pavimento della stanza
rimbalzava cupamente una volta ancora.
« L’avete combinata grossa » disse
lamentosamente – ma anche divertita – a Nino. Armando si mise le mani nei
capelli.
« Vi conviene scappare, prima che chiamino i
carabinieri » disse Giulio, battendo sulla spalla di Armando. Un angolino della
sua mente adocchiava la palla di là della finestra rotta, tutta soletta e
racconciata. Sarebbe stata loro, se Nino e Armando se la battevano. Perciò
bisognava convincerli. Intercettò con lo sguardo Carlotta, per vedere se gli
avrebbe retto il gioco. Carlotta annuì.
« È già successo sette volte! Papà ha detto che
all’ottava… »
« … sparava o chiamava i poliziotti » disse
Giulio.
Nino e Armando si scambiarono un’occhiata. I piccoli
pomi d’Adamo scattarono contemporaneamente. Si levò un polverone per l’aia. Si videro
le loro zampe che correvano. Giulio e Carlotta se ne ridevano della grossa.
***
« Sbatti più forte » gridava la Lena, sbattendo
il lenzuolo contro l’argine levigato. Lo sciacquio della stoffa zuppa contro la
pietra era un rumore chiaro che dava vertigine. Aveva le maniche rimboccate e l’orlo
della gonna, tirato su, scopriva polpacci bianchi e forti. Antonia sbuffava.
« Devo fare pipì » disse a un tratto la Lena «
Tu non ti muovere, capito? »
« Mi sento anche poco bene » aggiunse « Tu non
ti muovere, mi ripiglio ».
Antonia la guardò come si guarda un tavolo
vuoto. Se sospettava qualcosa, non dava a vederlo e comunque non sembrava così
intelligente. Ancora con la gonna sollevata, la Lena saltò su un sasso piatto e
passò, di sasso in sasso, oltre il torrente. Arrivata sull’altra sponda, si
sciolse la gonna, salutò Antonia con la mano e gridò ancora di non
preoccuparsi, che sarebbe tornata subito. Poi si voltò e si incamminò verso il
fitto della macchia di noccioli.
Non aveva fatto che pochi passi quando sentì un
fischio più avanti. Aguzzò la vista e distinse una sagoma acquattata dietro un
cespuglio. Il cuore le scoppiò a battere in mezzo alle gambe. Era il caldo,
forse, o la certezza isterica che Stefano stava acquattato dietro un cespuglio
ad aspettarla che le faceva venire le palpitazioni. Scrollò la testa a destra e
a sinistra, come per travasare le idee da una parte all’altra e fare ordine nei
propri pensieri. E sembrava in qualche modo una papera patetica, che avanzava
goffamente ma impettita. Sotto le suole, scricchiolavano le foglie.
Stefano si alzò in piedi. Stava zitto.
Lei disse, un po’ commossa, « Sei venuto », e
gli passò la mano bagnata sulla guancia e sentì il ruvido sotto e le fece
piacere. Stefano la baciò piano sulla bocca.
« È così stupido che dobbiamo così… Siamo
fidanzati » boccheggiò la Lena, rossa in viso.
« Se non vuoi, aspettiamo soltanto altri sei
giorni ».
« Ma io voglio, è così stupido, non credi? Come
a dire, adesso no, poi fate pure. E la mamma mi fa sentire un’assassina. L’Antonia
che vorrei prenderla e strozzarla. Mi guardano in un modo così stupido. Le odio.
E sì che sono donne pure loro. »
« I vecchi ci tengono a queste sciocchezze. Ma
l’Antonia, poveretta, non ha colpa. »
« Non m’importa. »
« Non facciamo grossa colpa neanche noi » disse
Stefano, facendola ridere. Poi la prese tra le braccia. La Lena si lasciò
andare.
***
« Non potremo tornare a casa mai più » disse
Nino, tutto contrito.
« Ma perché? » chiese Armando, tirandolo per la
manica.
« Perché ci cercheranno a casa prima di tutto.
E se ci trovano lì ci arrestano. E pensa come sarebbero dispiaciute la mamma e
l’Antonia. E c’è pure la Lena che si sposa. È un casino ».
« Ma non ci cercheranno se scappiamo? »
« Che ci cerchino pure » disse Nino e nella sua
voce risuonò la prima nota dell’età adulta « Non ci troveranno mai ».
***
Altro che non allontanarsi, la vescica le
doleva da scoppiare. L’Antonia mollò il lenzuolo sulla pietra e seguì la
Marilena oltre il torrente. Aveva ancora su le pezze e le faceva disgusto che
qualcuno potesse vederla e, a dire la verità, le faceva disgusto vedersi. S’inoltrò
nel boschetto finché non fu sicura che non ci fosse nessuno. Ogni scricchiolio di
ramo le dava un sobbalzo. In una zona sgombra si piegò sulle gambe e tirò su la
sottana e la gonna. Il terreno sotto i suoi piedi si intrideva di rosso. Ad
Antonia veniva lo stupore del sangue. Nel guardare la macchia che si allargava
c’era qualcosa di schifoso e di attraente, l’attrazione che si prova verso una
carcassa, verso un feto, una passione di creazione e decomposizione. Per la
prima volta Antonia si sentiva proprio viva, viva come se avesse coscienza dei propri
pensieri. Ed era, in un certo senso, così brutto.
Poi
sentì un rumore alla sua destra. In fretta e in furia s’aggiustò le gonne, si
rizzò sulle gambe. Seguì un rumore, un altro rumore, quasi un miagolio. Si mosse
nella direzione da cui veniva. E restò a guardare il rumore a bocca aperta.
***
« Non mi fa così
male » disse la Lena, aggiustandosi le dita meglio dentro.
« Ma sicura? » Stefano la guardò da sotto in
su, più morto che vivo. Era rosso, sudato, sbuffava.
« No, no… La
miseria! »
« Vedi, allora, che ti fa male? »
« Non è come pensi… così, ti prego continua… »
Strinse le cosce contro le dita di lui e si
mosse di quel movimento incerto, improvvisato, come chi vuole qualcosa che non
sa. Le sfuggivano, dai denti, piccoli ansiti.
Di botto Stefano disse, « Mi fa male ». Lena
sbatté quelle palpebre di farfalla e lo fissò interrogativa. Stefano si mise
una mano sul cavallo dei calzoni. La Lena avvampò, diede un colpo di reni, si
tirò via. Stefano asciugò le dita sull’erba schiacciata.
« Tu mi dici che devo fare e io lo faccio »
disse la Lena, senza staccare le parole. Non lo guardava. Il suo sguardo bucava
il tessuto dei calzoni di lui, pochi centimetri di stoffa che non erano mai stati
così spaventosi. Il palmo le si modellò sulla sagoma estranea. Guardò su. Stefano
chiuse gli occhi e disse, « Sì ».
Con le dita fine e pulite sganciò i bottoni
dall’asola. Quello in mezzo le diede più che un patema. Sospirò. Fu piena di
paura.
Stefano disse « Tranquilla » e le guidò la
mano.
***
Così era per
questo tutto quel sangue? Per condurla, un giorno simile, in un posto
simile, per sotterfugi e inganni così lontani dalla palla con cui aveva giocato
fino a due giorni prima? Ne ebbe una rabbia così grande che avrebbe voluto
mettersi a urlare. Ma no, non gliel’avrebbe data vinta. Non avrebbe dimostrato
a Lena di essere la bambina che lei credeva che fosse. No, tutto quel sangue
strillava che non era più una bambina, non era neanche una donna, non era che
una cosa malformata, rovinata, bloccata e sporca. Una cosa che un giorno si
sarebbe riscattata da quel sangue come Lena si riscattava dal suo. Il sangue
era la sola via per accedere a meccanismi biologici ben più complicati. E benché
nessuno le avesse mai spiegato queste cose, Antonia sentiva di penetrare a
fondo nei misteri dei grandi. Sentiva che la palla non era niente in confronto
al gioco che si spiegava ai suoi occhi. Ma di quella palla, solo di quella
palla, aveva una grande nostalgia.
***
« Che diavolo
ci fate là sopra? » gridò, spiando i rami nodosi che si dipanavano sopra la sua
testa. La cesta col lenzuolo, gonfio d’acqua, le appesantiva il fianco.
« Zitta, zitta! » strillò Nino.
« Zitta che ci trovano! » strillò Armando.
« Scendete o vado di corsa a chiamare la Lena ».
Il nome della Lena, chissà perché, aveva sempre un certo effetto sui bambini.
« Ma Tonia, Tonia… » pigolò Nino, scivolando un
ramo più in basso. Antonia lo guardò dondolarsi come una scimmietta, che aveva
visto soltanto nei libri di scuola.
« Dov’è la Lena? » chiese Armando, come per
assicurarsi che la minaccia fosse vera.
« Ancora al fiume. Ma sta tornando » disse
Antonia, alzando le spalle senza guardarli.
« Ma dobbiamo proprio scendere? Ci vogliono
arrestare » piagnucolò Nino.
« Abbiamo perso la palla » piagnucolò Armando.
Antonia ricambiò lo sguardo dei suoi occhietti
nel fogliame, grossi e neri come ciottoli tondi.
« Lo so » disse piano « Abbiamo perso la palla ».
Di Chiara Pagliochini
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