« Continuarono tutti a vivere nella gran confusione e nel frastuono di quel loro presente che a noi oggi appare così silenzioso, così morto, e che rispetto al nostro presente fu soltanto un po’ meno attrezzato per produrre rumore, e un po’ più esplicito in spietatezza… Infine, uno dopo l’altro, morirono: il tempo si chiuse su di loro, il nulla li riprese; e questa, sfrondata d’ogni romanzo, ed in gran sintesi, è la storia del mondo ».
Se La
Chimera fosse il romanzo di Antonia, la giovanissima strega bruciata a
Zardino nel 1610, sarebbe davvero un fallimento. Ma dal momento che non lo è –
e forse ci ho messo 8 anni per capirlo – è bene che ne scriva per chiarirmi le
idee.
Quando ero in seconda superiore la
professoressa di italiano ci consigliò di leggere questo romanzo. Promise
efferatezza, torbidità, sofferenza garantita. La stessa che provai, qualche
anno dopo, a una mostra di strumenti di tortura, di fronte a un “semplice” palo
da impalatura. La sofferenza che ti si attacca alle ossa in risposta a tutta la
sofferenza del mondo, alla crudeltà inflitta, senza scopo e senza pentimento,
su donne il cui nome si è perso nel passato. Ma, nella Chimera, io non trovai questa sofferenza. O, almeno, non la trovai
nella forma urlata in cui speravo, la forma cui ogni lettore segretamente anela
per raggiungere quel tanto di catarsi che la letteratura consente.
Sulla sofferenza di Antonia, Vassalli
è straordinariamente parco di parole, quando non lo si voglia tacciare di
reticenza. Un po’ come quel « la sventurata rispose », dietro il quale ogni
liceale ha desiderato spiare almeno una volta, per rendersi più accattivante la
narrazione manzoniana. Ma no: c’è poco di accattivante in Vassalli come in
Manzoni. Poco sentimento, pochissimo eros, poco sangue, poca empatia. In entrambi,
il romance sparisce sotto le gride, il latinorum e la volontà documentaristica, come se non fosse altro
che un pretesto per parlare del passato che fu e far intendere il presente che
è.
Per questo l’opera di Vassalli
somiglia più a un testo di storia sociale che a un romanzo. Non che questo sia
un male. La storia di Antonia, degli abitanti di Zardino – il paese in cui
visse nei primi anni del Seicento – e di svariati altri, vescovi, prelati,
boia, camminanti, risaroli, bravi, signorotti, è troppo affascinante per non essere portata
alla luce. È la storia che ognuno di noi vorrebbe aver scoperto negli archivi
del proprio paese, non per vantarsi del male che fu, ma per puntare il dito
anche contro se stessi, contro il genere umano che sempre – in qualsiasi luogo,
con qualsiasi mezzo – fu vizioso e al tempo stesso ingenuo, ottimo e delirante,
furbo e dolcissimo.
« C’era forse un senso, una ragione in tutto questo? E se non c’era, perché accadeva? Ecco, pensava: io sto qui, e non so perché sto qui; loro gridano, e non sanno perché gridano. Le sembrava di capire, finalmente!, qualcosa della vita: un’energia insensata, una mostruosa malattia che scuote il mondo e la sostanza stessa di cui sono fatte le cose […]. Anche la tanto celebrata intelligenza dell’uomo non era altro che un vedere e un non vedere, un raccontarsi storie più fragili d’un sogno: la giustizia, la legge, Dio, l’Inferno… »
Più di ogni altra cosa, di questo
romanzo mi resteranno i paesaggi: i mutamenti della bassa al mutar delle stagioni, le inondazioni del Sesia, le risaie
a specchio, i prati infiammati di papaveri. Paesaggi così vivi da ammaliare il
lettore e da lasciarlo con un fondo inebetito di nostalgia. Nostalgia del
Seicento, degli spagnoli, dei processi per eresia? Forse, nostalgia di
autenticità.
Se non ci fosse scritto il tuo nome e cognome penserei di aver trovato una mia ex compagna di classe.
RispondiEliminaA me è stato consigliato - o meglio, imposto - di leggerlo in seconda superiore e l'ho odiato. Ricordo vagamente la storia e il disgusto di fronte a scene che probabilmente non erano adatte a quell'età.
Poi ho avuto modo di apprezzare Vassalli con "Un infinito numero", ma al momento sto sondando altri territori.