venerdì 23 settembre 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap. 9

Ophelia, di John Everett Millais (particolare)

« È pronto il caffè! »
Che volete che me ne importasse se era pronto il caffè? La scoperta, la verità erano a pochi passi da me, su quella bacheca di compensato. Lì era Irene, lì era il mio posto. Si era data tanta pena per non svelare niente di sé, e adesso mi si rivelava con un’ingenuità disarmante.
Mossi rapidi passi verso la parete e presi a scorrere freneticamente con gli occhi tutte le foto, gli appunti, i post-it, i biglietti del cinema sotto le puntine da disegno. Avevo solo pochi secondi per ricollegare tutti i fili, per formarmi in testa un disegno coerente. Perciò dovevo fare in fretta. Perciò dovevo farlo bene.
Ma fu un fallimento. Un totale, colossale fallimento.
Tanto per cominciare, Irene non aveva appeso sue foto in bacheca. Neanche una. Non c’era un’Irene in costume da bagno sdraiata su qualche lido cristallino. Non c’era un’Irene bambina che imparava a camminare. Non c’era un’Irene che soffiava sulle candeline, con la mano di un padre o di una madre sulla spalla. Se Irene aveva un passato, se aveva avuto una storia, adesso non li voleva più davanti agli occhi.
C’erano in compenso cinque grossi ritratti fotografici, di gente che non conoscevo, ma che chiaramente non aveva nulla a che fare con lei. Erano stampati su carta lucida, pregiata, come stampe da collezione. Li osservai uno ad uno, ma non seppi decidermi se mi fossero familiari. Erano due donne e tre uomini. Le donne erano entrambe bruttine, non proprio il mio tipo. Non che avessi un tipo preciso di riferimento, ma erano certo troppo anonime per far voltare una testa qualsiasi. In questo, somigliavano a Irene.
La prima signora era ritratta di tre quarti, in una foto in bianco e nero. Aveva capelli scuri, raccolti sulla nuca, e occhi assorti, tristi. Aveva anche delle belle labbra, dischiuse, e un collo diritto, che terminava in un vestito bianco increspato. Il naso lo trovai un po’ troppo grande, squadrato: a un viso così elegante sarebbe stata meglio una forma meno pronunciata.
L’altra donna aveva una faccia più rustica, dai tratti indelicati. Ma gli occhi avevano la stessa sfumatura di concentrazione, le labbra socchiuse svelavano la dentatura. Che strane donne: sembrava stessero pensando a qualcosa di tremendamente importante.
Uno degli uomini era un vecchio in un maglione a collo alto. Barba e capelli erano bianchi, la fronte solcata da rughe, lo sguardo languido. Dava l’impressione di essere un lupo di mare.
Il secondo uomo era chiaramente un pazzo: solo un pazzo avrebbe portato dei baffi come quelli, grossi, nerissimi ed uncinati. Per di più, indossava un ridicolo cappello di paglia decorato da un fiocco.
Per quanto non fosse una bellezza, l’ultimo signore era più rassicurante: faccia squadrata, occhialetti rotondi, capelli scuri, corti, mal pettinati.
Ma tutti, tutti e cinque, avevano quegli sguardi persi e concentratissimi, un po’ come lo sguardo di Irene, quando rifiutava di posarsi su qualcosa. Sembravano chiusi, autosufficienti, sguardi di chi basti a se stesso, di chi non cerchi un contatto, di chi non voglia tirarti in ballo. Erano anche familiari – sì, in fondo erano familiari. Chissà se li avevo già visti da qualche parte. Chissà se qualcuno al posto mio avrebbe saputo riconoscerli.
Di una cosa ero certo. Quella gente era tutta morta. Non perché ce l’avessero scritto in faccia o cosa, niente di simile. Ma quelle foto erano vecchie, scattate con apparecchi antiquati, erano in bianco e nero o color seppia. Avrebbero potuto essere vivi, chi lo nega, ma in questo caso erano vecchi anche loro, come i nostri nonni e bisnonni, come quei ritratti. Erano vecchi o erano morti, c’è una qualche differenza?
Le cinque grosse foto occupavano la parte superiore della bacheca, disposte una accanto all’altra, perfettamente allineate. Come delle lapidi, delle solide pietre sepolcrali, prive di nome ma con quelle immagini abbastanza esplicative per tutti. Non per me. Quei morti non erano i miei morti.
Parenti di Irene? Scartai l’ipotesi. Tranne lo sguardo, non avevano niente di lei. Tranne lo sguardo, non avevano niente in comune l’uno con l’altro. E allora perché Irene li aveva disposti vicini? E allora perché voleva tenerli sempre d’occhio?
Dannazione, ci avesse scritto almeno un nome. Sembrava non sapesse tenere in mano una penna, ragazzetta detestabile. Eppure ricordavo tutti quei numeri, l’accuratezza con cui li aveva tracciati. Cos’avevano le parole di sbagliato? Perché le parole le facevano male?
Post-it gialli e verdi si attaccavano al compensato come erbacce, insidiando quegli uomini e quelle donne. Erano conti, ancora conti, o appunti, liste della spesa, una volta una frase. Una frase! Mi gelò il sangue!

“Morire
è un’arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale.

Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho la vocazione.”

Distolsi gli occhi in fretta, credo per evitare di capirla. Come quegli sguardi, come quei ritratti, non aveva nulla a che fare con me. Era troppo lontana o concentrata o lugubre. Ma Irene poteva essere quella ed essere la stessa che preparava il caffè? Perché io preferivo di gran lunga la mia, quella un po’ scontrosa, quella che mi aveva preso la mano, quella che cercava di disfarsi di una scatola di croccantini premendola a lungo e ridicolmente nella pattumiera. Della mia Irene io non avevo paura, ma di quella sì. L’Irene della bacheca non era solo un mistero, era un tunnel. Una sorta di tunnel scuro che portava sempre più avanti e sempre più al buio. E io non volevo incamminarmi. Avevo paura? Paura, non credo. Ma le mie gambe non ce l’avrebbero fatta ad arrivare in fondo.
Il vero centro, il cuore pulsante della bacheca era la stampa di un dipinto famoso, disposto subito sotto i ritratti, come un filo conduttore col resto, come ciò che dava dignità all’insieme. Io sapevo che era un dipinto famoso, perché l’avevo già visto da qualche parte. Forse l’avevo persino studiato a scuola, anni e anni addietro. Ma adesso per me non era altro che un disegno: il suo nome e il suo autore erano lo stesso che i ritratti – un buco nell’acqua.
E dell’acqua c’era davvero in quel quadro tutto placido e luminescente. C’era l’acqua di un fiume che scorreva. Capivo che era acqua perché una donna ci galleggiava sopra, non perché ne avesse il colore e la trasparenza. Più che azzurra era marrone e più che marrone era verde. Era acqua ma era come se non ci fosse, tranne per il fatto che la donna sprofondava. La donna aveva un viso bianco, gli occhi aperti, vacui, labbra spalancate su un qualche borbottio o bisbiglio, forse una canzone. Un vestito lunghissimo e bianco le impacciava i movimenti, tirandola a fondo. Ero stato bianco, ma adesso era giallino, perché tutto bagnato, perché così pesante e così inutile, in tutte quelle trine. Teneva le mani aperte sul petto, aperte coi palmi rivolti all’insù, come a chiedere scusa di qualcosa o a dire, “non sono stata io” o “eccomi”. Con la mano destra stringeva dei fiori, le dita contratte, li stringeva per i gambi ed erano fragili fiorellini bianchi e rossi e gialli e fucsia. E c’erano altri fiori, fiori che aveva perduto e le erano sfuggiti dalle dita, un papavero, delle violette. Ma verde e fiori erano ovunque, ovunque intorno a lei e all’acqua che scorreva con lei sopra. C’erano rami e c’erano cespugli, cespugli fioriti di boccioli bianchi, e c’erano muschi e piante acquatiche e muffe. E non si sapeva se i suoi capelli rossi fossero davvero capelli oppure pesci oppure onde oppure alghe. Non si sapeva più se fosse una ragazza o un tutt’uno che fluiva via col mondo verde.
Ma la cosa più singolare era il suo sguardo, quello sguardo. Lo sguardo che aveva Irene quando mi volsi e lei era lì che mi fissava e disse:
« È pronto il caffè. »

Sfilando via per la camera, con lei che mi precedeva e apriva la porta, gettai un’ultima occhiata alla stanza e alla bacheca. Sulla scrivania mi parve di individuare la sagoma nera del diario. Ma fu giusto un flash, perché dovevo far finta di non badarci.
« Mi piaceva il dipinto, tutto qui » avevo detto a Irene, e non era completamente falso.
Ma perché lei capisse che non avevo capito e non si sentisse minacciata da me e non pensasse che io volevo interpretarla, mi ero prodotto in un sorriso stolido, banale, di circostanza.
« Mi piaceva il dipinto » avevo detto. Tutto qui.
Irene non ne aveva fatto un dramma.
« Andiamo, è pronto il caffè » aveva ribadito, come se solo questo contasse.
E adesso mi portava via dalla parete e da lei e dalla ragazza sull’acqua, e il mio sguardo vagava ancora un po’ qua e un po’ là, registrando quegli elementi che finora non avevo notato. Il diario, appunto. Un vaso di fiori secchi. Dei barattoli di vetro sulla scrivania, colmi di piccoli petali rossi. La luce che si affievoliva alla finestra.
« Hai una bella stanza » dissi, tanto per dire qualcosa.
Irene mormorò:
« Grazie. »
« E sono belle quelle... foto. »
Vidi le sue spalle irrigidirsi, contrarsi come in un gesto di difesa. Come se stesse ritraendo le ali.
« Sì » rispose.
« E… »
« E cosa? »
Si voltò. Eravamo ancora sul pianerottolo. Si voltò ad affrontarmi con gli stessi occhi inceneritori di quando le avevo reso il diario. Avevo osato troppo.
« Cosa vuoi sapere? » chiese, tutto d’un fiato.
Era il momento. O ora o mai più.
« Perché scrivi solo numeri? »
« Perché voglio sapere quanto tempo mi resta. »
« E quanto tempo ti resta? »
« Troppo, un tempo insopportabile. »
« Ma quelle non sono… ore. »
« No, sono soldi. I soldi che mi restano. Per vivere fino a quando vivrò. Devo fare economia. »
« Tu studiavi Economia. »
« Grazie di avermelo ricordato. »
« E i soldi? »
« I soldi sono quelli della mia borsa Erasmus, quelli con cui dovevo andare in Islanda a studiare, sei mesi lontana da casa e da tutti. Ma non ci sono arrivata in Islanda, ovvio. Non ci sono arrivata perché non sono partita. »
« Perché non… ? »
« Ci sono arrivata all’aeroporto, che credi? Ci sono arrivata. Ed era così grande e c’era così tanta gente che mi sono sentita morire. Mi sono sentita le gambe bloccate e non riuscivo a trascinare la valigia. E ho capito che non potevo andare avanti. Potevo solo tornare indietro. Potevo stare lì a sentirmi morire o decidere di fare qualcosa. »
« E hai deciso… »
« Di morire. Qualcosa in contrario? A chi interessa? Nessuno lo sa. I miei genitori pensano che sono in Islanda. Ogni tanto li chiamo e faccio finta di essere in Islanda. E all’università se ne fregano. Mi hanno già chiamata cento volte, ma non mi troveranno. Nessuno sa dove sono. A nessuno importa. Nessuno noterà se… »
« Ma… ? »
« Non lo saprà nessuno, nessuno. Se anche i miei scoprissero che non sono in Islanda, se anche all’università ne avessero la conferma, ecco, chi se ne importa. Ho questi seicento euro in tasca e ne rimangono appena la metà. L’anticipo per la soluzione finale l’ho già pagato. E mi rimane qualcosa per altre lezioni, il mangiare, l’affitto. E Marika mi aiuta con la spesa. A lei non importa quello che faccio. A nessuno importa quello che faccio. Io faccio quello che mi pare. »
E in quel momento, se non l’avessi guardata in viso, non avrei capito che aveva vent’anni. Aveva il tono di una bambina capricciosa. Fosse stata mia figlia, l’avrei schiaffeggiata. L’avrei schiaffeggiata lì, in mezzo al pianerottolo, uno schiaffo da rovesciarle il labbro, da sbilanciarla e farla crollare contro la ringhiera, afflosciata. Lei che mi guarda coi capelli davanti agli occhi ed ansima e mi odia. Ma se lo merita un manrovescio del genere, egoista com’è, il campione dei Narcisi. Ma non ero sua madre o suo fratello o un suo professore. Ero uno che la conosceva così, nel suo sfogo e nel suo dolore, e non potevo accampare pretese.
Tranne che chiedere timidamente e con la voce che trema, appena, un’increspatura appena:
« Il caffè? »
« Si sarà freddato tutto. »

Di Chiara Pagliochini

domenica 18 settembre 2011

Inferno

hell woman by ~myiu14

Sono sbucata sulla sala e d’un tratto non sapevo dove mi trovassi. Una luce rossa intermittente, la grande palla stroboscopica, quel cerchio impazzito senza un centro. Sono sbucata sulla sala dal corridoio buio e quella luce rossa e il fumo e i corpi che si muovevano e le mani che oscillavano dalla balaustra in alto e io che le guardavo, mani e mani negli occhi, un paesaggio che oscilla, una luce che oscilla, a scacchi, a fasce, e il fumo, l’odore di fumo e di sudore e gli sguardi spenti, vuoti, che neanche soffrono, quegli sguardi che non comunicano nulla, come se non ci fosse nulla da comunicare, come se il mondo non fosse comunicazione ma movimento, mera oscillazione, andare avanti e avanti e avanti senza andare in alcun luogo, senza un centro, un punto fermo, un’idea. L’inferno, questo luogo è l’inferno.
Questi ragazzi e queste ragazze che si muovono a ritmo di musica e fumano sigarette e bevono da bicchieri di plastica hanno il mio sangue nelle vene e sono vivi tanto quanto me, eppure riconoscere che sono come me, riconoscere che siamo entrambi umani è difficile. Non perché io li condanni, questo no. Ma perché io mi sento condannata. Mi sento condannata da questo luogo e questa luce, mi sento minacciata e vulnerabile, come se chiunque potesse farmi del male. Basta poco perché mi facciano del male. Basta che mettano un piede in fallo o mi assestino una gomitata tra le scapole, basta anche che mi prendano per mano. Qualunque cosa facciano queste persone mi fanno del male, queste persone senza faccia. E mi fanno del male perché ho paura, ho paura di loro e di tutto. Mi sento di morire.
Prendo un respiro, ma non funziona. Devo sorridere. I miei amici vogliono che sorrida. Hanno detto, cerca di divertirti. Cerco, ma devo trovare un punto, un centro, un senso. Devo far defluire la paura. Devo capire che queste persone non mi minacciano, che i ragazzi che sniffano dalla cartina non sono lì per ammazzare me, che le ragazze col reggiseno indosso non sboccheranno sui miei sandali neri. E anche se lo facessero, anche se mi facessero del male, io devo fingere che non sia niente, devo fingere perché devo sopravvivere. Sopravvivere è più importante di tutto.
Posso ancora salvarmi. Posso essere forte. Io sono Dante al centro dell’inferno.
Allora comincio ad imitarli. Comincio ad oscillare anch’io con la testa, comincio a sciogliermi nel ritmo della musica, il corpo che si affloscia piano, le spalle che si alzano e si abbassano, una mano si solleva e ricade. Un passo a destra e uno a sinistra, l’importante è non fermarsi, non far vedere che sei ferma, non far vedere che sei debole. Se ti fermi ti attaccheranno. Se ti fermi sarai perduta. Se ti fermi la tua coscienza ti sommergerà. Bevi cuba libre da un bicchiere col ghiaccio, solo coca-cola, dolce come il veleno. Ti fai largo a forza di spinte e se ti spingono non te la prendi, va bene così, tu muoviti addosso a loro che loro si muovono addosso a te, è un abbraccio universale, una lotta sul fondo della bolgia. Non hai qualche centimetro per te. I tuoi centimetri sono anche i loro, tu non li possiedi. Non possiedi neanche il tuo corpo, che fa tutto lui, ma possiedi il pensiero e quel pensiero è il tuo centro e il tuo senso e la tua salvezza. Il tuo corpo si può muovere e si può ferire e tutto intorno a te può vomitare o esplodere, ma se sei presente a te stessa allora sei beata, sei salva, immacolata. E per fortuna che il cuba libre fosse solo coca-cola, altrimenti questo centro l’avresti mancato, e avresti avuto quegli occhi vuoti, quegli occhi vuoti anche tu, della gente che non sembra viva e tu pensi non si possa più salvare.
L’odore del fumo fa lacrimare gli occhi. L’odore dei cocktail, un po’ fragola un po’ limone. Il profumo forte delle ragazze, che aspiri per coprire tutto il resto. Per coprire il puzzo di sudore, come di gente che non si lava da giorni; per coprire quell’altro odore, più agro, quello dei succhi gastrici.
Calpesti la plastica dei bicchieri. Calpesti i bicchieri rovesciati. Calpesti fazzoletti molli. Calpesti caviglie e chiazze di vomito, di gente che non è riuscita ad arrivare in bagno. Davanti ai bagni, in piedi lungo una colonna, balla una ragazza sola, una ragazza un po’ svestita. Ha la pancia scoperta e si muove molto bene, sinuosa, come una gatta o un nastro, muove insieme le mani, se le porta sopra la testa. Scioglie tutto il corpo come un serpente, liquida e spenta. Spenta come i suoi occhi. Ti intristisce, ma non sai perché. Ti intristisce perché pensi è pazza è drogata è ubriaca è qui a far pompini. Ma lei non ha colpe. Sei tu che pensi questo. Magari lei è salva e tu l’hai già condannata. Ti senti ingiusta e cattiva.
Ti senti ingiusta quando respingi quella mano, quando torci quel polso che aveva avvicinato il tuo. Pensi, non mi toccare, come se fossero tutti malati, come se fossero lebbrosi e avessero la pelle coperta di piaghe. Sei ingiusta, ma non importa. Non importa perché tu sei col tuo pensiero. Il tuo pensiero ti salva e quella mano ti condanna. Lasciala perdere, respingila, torci il polso.
Ma c’è anche qualcuno che ti commuove. Ti commuovono le ragazze ubriache che chiedono scusa tre volte. Ti commuove chi si piega in due a vomitare sul divano. Ti commuove quel ragazzo strano, quel ragazzo gentile, che non hai visto in faccia, ma che invece di spingerti ti ha messo una mano sul fianco, come se ti stesse proteggendo, come se volesse spostarti ma non ce l’avesse con te. Ti commuove chi ti tocca sulla spalla per farsi avanti, e capisci che sono persone gentili. Fuori di qui sarebbero persone gentili. Ti intristisce anche di più. Ti commuove la gente che si fa largo, che cammina, che attraversa la pista da ballo come se dovesse andare chissà dove, deve raggiungere chissà chi, non va da nessuna parte eppure si deve muovere. Forse per loro la salvezza è muoversi come per te lo è il pensiero. Ti commuove quel tuo amico, sprofondato in una poltrona, la faccia tra le mani, un po’ ubriaco. Ti commuove quando si accascia sulle gambe, gli gira la testa, e vorresti portarlo fuori, fargli prendere una boccata d’aria, reggergli la testa mentre vomita. Ma lui dice, non c’è bisogno: allora non vai.
Ti commuovono le coppie che si baciano a centro pista. Ti commuovono e ti fanno rabbia. Non perché tu non baci nessuno, questo no. Ti fanno rabbia perché se tu amassi qualcuno non lo porteresti certo qui. Se tu amassi qualcuno non verresti qui. Se tu amassi qualcuno le vostre teste si basterebbero, la testa appoggiata alla testa dell’altro. Se tu amassi qualcuno non lo vorresti all’inferno. Non sareste Paolo e Francesca, e neanche vorreste esserlo.
Ma al centro di questo inferno, superato l’odio e la paura del vuoto, se non guardi nessuno negli occhi e nessun occhio guarda te, ma se osservi e sei presente a te stessa - al centro di questo inferno che centro non ha, tu puoi capire il mondo o la gente o la storia. Nel mezzo del disumano, di quello che tu condanni, puoi sempre trovare qualcosa che ti commuove e allora sei di nuovo umana, di nuovo giusta, di nuovo salva. E puoi arrivare ad ammettere che son persone come te, col tuo stesso sangue il tuo stesso stomaco i nervi e tutto. Che domattina faranno colazione come la farai tu. Che forse sono un po’ tristi quanto te, solo che hanno altri modi di dimostrarlo. Solo che non vogliono dimostrarlo, ma dimenticare. Dimenticare di essere tristi.
O forse e più probabilmente è il tuo pensiero che dice questo. Forse tu stai cercando la luce dentro Lucifero. Oppure – e questo è più vero – Lucifero sei tu.
Di Chiara Pagliochini

sabato 17 settembre 2011

Sogno di fare l'amore con te in ogni luogo del mondo, in ogni anfratto. Ciascun luogo che ho visto io l'ho annotato, per tornarci con te, così che quella bellezza la si possa vedere in due.
Prima di addormentarmi penso a te, sempre. Penso a te e a come sarebbe averti qui. Ci sederemmo a gambe incrociate sul letto e guardandoci negli occhi non sapremmo che dire. Allora io allungherò una mano e ti carezzerò una guancia, come se dovessi scostarti i capelli dagli occhi, come se avessi una macchia di cioccolato. Ti carezzerò la guancia, poi avvicinerò il mio viso al tuo e ci baceremo. La fronte, gli occhi, gli zigomi, le labbra. E poi faremo quel che va fatto, io più imbranata di te, tu più imbranato di me. Troveremo i nostri gesti alla cieca, un po' goffi, un po' creativi. Rideremo di sbagliare così. Penseremo a come...e se qualcuno ci stesse guardando? Ma non c'è nessuno, possiamo sbagliare insieme, possiamo anche infischiarcene dei loro giusto-sbagliato. Che conta? Non c'è nessuno a ridere di noi.
E poi sdraiati vicini io ti carezzerò ancora le tempie, ti asciugherò il sudore dalle guance. Passerò le dita tra i tuoi capelli bagnati. E ci diremmo, perché?
Perché abbiamo dovuto aspettare così tanto?

mercoledì 14 settembre 2011

Il paese delle mele rosse

Dante Gabriel Rossetti, Venus Verticordia

Dire come fosse arrivata lì era impensabile. Era comparsa proprio in quel punto, al centro del nulla, in mezzo al campo. Sapeva che stava sognando e nei sogni non è bene chiedersi da dove si arriva.
Non sapeva chi era. Forse era bionda forse era mora. Forse era la stessa di sempre, forse un personaggio qualsiasi, senza faccia e senza gambe. Le gambe erano liquide, vaporose, prive di consistenza. Ma nei sogni andava così.
Si guardò intorno e la sua vista spaziò lontano, sul campo ondulato di solchi. Tanti solchi nella terra come se avessero appena arato, come se tanti serpenti fossero passati strisciando, come se l’orizzonte tremolasse. La terra era corposa, di un solido color castagna: sembrava la terra degli uliveti dei nonni. La immaginò bagnata, un terriccio morbido e fangoso in cui sprofondare. Si sentì come una pianta che voleva mettere radici.
Fu allora che le vide. Anche loro apparse all’improvviso, come se la terra avesse dato frutto per un suo desiderio. Ma sapeva che non era così che funzionava, almeno non nel mondo della veglia. Tante mele rosse, grosse mele rosse e succose, striate di venature gialle, coprivano il campo a perdita d’occhio. Nei solchi e lungo i pendii, alcune ruzzolavano e altre apparivano, e c’erano mele ovunque, mele da far venire l’acquolina in bocca.
Pensò – e fu un pensiero abbastanza sciocco – che se erano cadute da sole dovevano essere mature. Ma cadute da dove? Cadute da dove? Non c’erano alberi da cui potessero cadere. O meglio, c’erano dei noccioli, una macchia di noccioli alla sua sinistra, ma niente meli. Nessun albero che potesse produrre tutta quella frutta.
Pensò anche che quelle mele le somigliavano. Anche loro arrivavano dal nulla, anche loro senza faccia e senza gambe, così, all’improvviso, sul campo. Si chiese se ci fosse un mondo vero anche per loro, se quelle mele di sogno non fossero anche mele reali, mele che dormivano nei loro letti, sotto le loro coperte, appese a qualche ramo di un qualche melo nel mondo della veglia. E forse noi sogniamo le mele e anche le mele sognano noi.
Mosse qualche passo cadenzato sulla terra. Sentiva il suolo caldo contro le piante dei piedi. Il sole spandeva una luce arancione sul campo e sulle mele, laccandole di una sfumatura dorata. Forse era il tramonto, forse l’alba. Forse estate o forse primavera. In quella luce smaltata, il petto si acquietava e tutto sembrava possibile. Era il mondo primordiale, il mondo prima del mondo, prima dell’uomo, con quella nebbiolina d’oro tremolante e i tronchi delle querce che stillavano miele. La terra dava frutti da sola. Pensò che avrebbe voluto vivere in un mondo così, che non si sarebbe sentita mai sola, che non ci poteva sentire soli con tutta quella bellezza in cui spaziare. Voleva sprofondare nella luce fino al collo, voleva essere il campo che germogliava, essere la mela che scivolava per la collina, ruzzolando su se stessa in mille e mille giri, sempre più rossa e sempre più gialla, sempre più veloce, sempre più lontana.
Mosse qualche passo e si chinò. Era un sogno senza profumi, ma sapeva che la terra aveva un buon odore, secco e saporito. E anche le mele ne avevano uno, era tutta una dolcezza. Si chinò e raccolse un pomo e lo tenne sul palmo della mano, rosso e rotondo. Era come impugnare una piccola cosa perfetta.
La mela aveva un suo peso, ma nel sogno non c’erano pesi.
Rimase a contemplarla così e a chiedersi che cosa significasse. Nel mondo della veglia ad ogni simbolo corrispondeva un significato: le era sempre stato insegnato che bisognava leggere fra le righe e cercare le figure retoriche e interpretare i passi. Ma lì non c’era niente da interpretare. Quel campo era solo un campo, quella mela soltanto una mela. Non era il peccato, non era la distruzione, non era la perfezione che uccide o la possibilità da cogliere, non era il gusto del proibito, il sapore del macabro, il cedimento di Biancaneve. Quella mela non era che se stessa e non voleva essere letta in alcun modo. Ma se io interpreto la mela, anche la mela sta interpretando me? E io cosa significo per lei? Anch’io sono per lei il pericolo, anch’io sono  per lei la notte nera: io la mordo, io la incido coi denti e intacco la sua perfezione. Io sono il nemico della mela proprio come la mela è il mio nemico.
Ma adesso, su questo campo, noi ci stiamo riconciliando, perché io non interpreto lei e lei non interpreta me, ma siamo un simbolo unico, un simbolo insieme, un tutt’uno che vuol dire soltanto “possibile”.
 Ed ecco che la mela le parlò, come se l’avesse evocata dalla profondità del suo torsolo. La mela le aprì gli occhi dentro e lei vide. Vide e capì che tutte quelle mele erano lei e che lei era tutte quelle mele, perché era lei l’albero, l’albero enorme e potente e invisibile che proiettava la sua ombra sul campo. E le sue braccia erano rami, le sue mani foglie, i suoi piedi radici. Il suo viso era cerchi concentrici nel legno.
Vide e capì che niente aveva bisogno di essere interpretato perché lei viveva in tutto quel sogno e quel sogno era lei, soltanto lei, lei la mela lei il campo lei la luce. Quel sogno era vita, era un progetto per l’avvenire, era la bellezza in cui svanire quando le sarebbe mancata la forza.
Pensò che non avrebbe mai voluto aprire gli occhi, mai più, chiudere gli occhi a quella vita e riaprirli sull’abisso del nulla, il vero nulla, il vero senza-senso, il mondo vero. Il mondo in cui una mela significava peccato e cogliere una mela significava sprofondare. Rivendicava il diritto a un universo in cui a ogni simbolo corrispondessero mille altri simboli e quei mille simboli si specchiassero in altri simboli.
Poi un trillo lontano, lontano, un trillo di telefono. La mela le sfugge dal palmo e ruzzola via insieme alle altre. Tutte le mele precipitano lungo il pendio finché non ne rimane nessuna. E ritorna una persona con la faccia, una persona sveglia e disperata, di quelle che non mettono radici.

Di Chiara Pagliochini

domenica 11 settembre 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap. 8

Girl at the Window by *hank1

« Che cosa hai fatto? »
Sbiancai, ora lo ricordo bene. Sbiancai e per un attimo non seppi dove mi trovavo, tanto che dovetti posare la gabbietta a terra, Ryanair che si produceva in miagolii scomposti, e mi portai una mano al petto, sentendo il cuore che batteva forte, sempre più forte, sempre più forte.
« Io… »
Irene non poté non accorgersi del mio tono o del mio pallore. La vidi sgranare gli occhi, ma non la guardavo davvero. Non mi importava cosa potesse pensare di me, che ero un debole, che ero folle; non mi importava di spaventarla.
Adesso c’era solo quell’errore. E non c’era nessun modo per ripararlo.
Anzi, forse sì.
« Dobbiamo fargli la lavanda gastrica » annunciai.
Irene mi prese la mano, quella con cui mi premevo il torace, e la tenne un istante tra le sue, con una calma lieve.
« Vieni dentro » disse « Vieni dentro un momento… con me. »

Non mi capacitavo di come mi fosse sfuggito di mente. Non mi capacitavo di come non fosse venuto in mente a lei. Mi conosceva così poco? Ma come poco? Per niente, non ci conoscevamo per niente ed era del tutto legittimo che… oh, Ryanair, oh povero Ryanair, avrei potuto… se avessi saputo… se.
Quando mi spinse a sedere contro lo schienale di una sedia e mi forzò un bicchiere d’acqua tra le dita, e me le tenne strette, tutte unite, perché non lo lasciassi cadere, e io la guardai, e lei mi guardò, e ci guardammo e mi sentivo malissimo…
« Bevi, ti farà bene. Bevi che poi ne parliamo. »
L’acqua traboccava dall’orlo, me ne cadde sulla camicia, mi bagnai i polsi e il colletto, ma bevvi, glu-glu-glu, e mi sentii un po’ meglio. D’un tratto mi sentii un po’ meglio. Ryanair non si lamentava dalla gabbietta, sonnecchiava tranquillo. Forse, dopotutto, non era successo chissà cosa. Ma non mi riusciva di calmarmi.
Irene stava cercando di disfarsi dei croccantini. Pigiava la scatola nella pattumiera e quelli, come tanti mostriciattoli, facevano croc croc. Li immaginai salire lungo i bordi della scatola, uscire dal foro sulla sommità e azzannarle una mano. Bene, sarebbe stato un bene. Meritava una piccola punizione. Per cosa? Per la sua sbadataggine? O per la sua premura? Lo sapevo, era tutta colpa mia.
Quando Ryanair era ancora piccino - l’avevo preso ad una fiera, scelto tra tre arruffati fratellini, che si arrabattavano per essere notati, e lui era il più piccolo, quello calcato sul fondo - quando era ancora piccino e stava con me da una settimana neanche, mi era capitato per le mani un articolo di giornale. La fonte era un veterinario che si dava grandi arie di autorevolezza. L’articolo metteva in guardia i consumatori sulla pericolosità dei croccantini per gatti, così comuni in ogni casa e sugli scaffali dei negozi. Col tempo non ricordavo più i dettagli di quella storia, ma avevo ben impresso il senso generale. Scarti di macellazione non più buoni per gli umani, bolliti ad alte temperature ed appositamente trattati con l’aggiunta di aromi artificiali, coloranti, vitamine sintetiche e chi più ne ha più ne metta, i croccantini finivano nelle ciotole di mezzo mondo sotto forma di innocui fiocchi compatti. Ma il loro impatto sulla salute era devastante. Insufficienza renale, degenerazione dello smalto dentale, assuefazione: erano queste le conseguenze per i nostri a-mici, che ignari continuavano a leccarsi i baffi, tutti contenti e pure soddisfatti di avere dei padroni così diligenti, padroni che li nutrivano e insieme li avvelenavano col cibo.
Ricordo la mattina in cui lo dissi a Ryanair. Aveva dormito sul mio cuscino, a pochi centimetri dalla mia testa, e per tutta la notte il suo respiro e il mio erano stati accordati sulla stessa musica. Aprivo gli occhi, e lui era lì, addormentato. Rientravo dal lavoro e lui era lì, pronto a farmi le feste. E per quanto questo fosse ridicolo agli occhi di qualsiasi persona sana di mente, Ryanair era importante per me. Importante perché non c’era nessun’altro a fare la guardia sul mio sonno, importante perché non c’era nessun’altro a festeggiarmi. Ryanair era quella cosa che ti faceva dire, non sono solo, vale ancora la pena, non mollare. Era importante, importante per me. Per questo non potevo permettere che gli accadesse nulla di male e soprattutto non potevo permettere che si assuefacesse a qualcosa. L’idea di creargli una dipendenza, di limitarlo, di intrappolare la sua libertà, fosse anche colpa di stupidi croccantini per gatti, mi era insopportabile. Sapevo che lui avrebbe fatto lo stesso per me, se solo fosse stato possibile scambiarci di ruolo.
Così gli avevo detto:
« Buttiamoli, Ryanair, buttiamo quegli odiosi croccantini e facciamoci un piatto di spaghetti. »
Ma questa cosa non potevo spiegarla, questa storia non potevo raccontarla. Nessuno l’avrebbe capita. Persino uno psichiatra, se mi avesse avuto in cura, se ne sarebbe uscito con una risata.
Persino uno psichiatra, se ci avesse avuto in cura, avrebbe riso delle lezioni del Mishima.
Nessuno psichiatra avrebbe potuto capirci. Ma forse noi, forse noi… Alzai lo sguardo, incrociai gli occhi di Irene, e per un momento mi parve di sciogliere un enigma.

« E questo è quanto » sospirai.
Irene strinse le palpebre, come se si stesse concentrando. Sedeva di fronte a me, all’altro lato del tavolo con l’incerata a fiori. La cucina era piccola e odorava di ragù.
« Perché hai paura di dipendere da qualcosa? » domandò, senza aprire gli occhi. Le sue mani descrivevano sulle tempie timidi movimenti circolari. Mi dispiaceva, adesso, di averla così turbata.
« Io non ho paura di… »
« È evidente che sì. È una cosa che proietti su Ryanair, ma il problema riguarda te. Tu hai paura di dipendere da qualcosa o da qualcuno e, di conseguenza, non vuoi che sia il tuo gatto a… »
« Ma è ridicolo! »
« Tu bevi? »
« No. »
« Fumi? »
« Certo che no! »
« Hai mai assunto sostanze…? »
« Ma cos’è? Un interrogatorio? Sei il mio medico curante? »
« Volevo solo aiutarti. »
Volevo solo aiutarti. Solo aiutarti. Adesso ero io a rifiutare il suo aiuto.
« No » risposi, remissivo.
« Ecco, beh, è chiaro. Ti tieni lontano da cose che possono produrre una dipendenza perché hai paura che… »
« Ma è come dimostrare che non sono scozzese perché non porto il kilt! »
Irene aprì gli occhi. Le labbra le si distesero in un sorriso.
« Già » acconsentì « Non è un ragionamento che sta in piedi. Però credo che dovresti pensarci, a questa storia del dipendere da. Potrebbe esserti utile. Potresti capire perché. »
« Perché cosa? »
« Perché hai scelto di vivere da solo in compagnia di un gatto. Di avere una famiglia lontana. Di non legarti a nessuno. »
« Ma io non ho scelto! È capitato. »
« Non capita di rimanere soli. Lo si sceglie sempre, solo che non si ha il coraggio di ammetterlo. »
Il ticchettio di un orologio da parete era l’unico rumore percepibile. Nessun movimento veniva dalle altre stanze della casa, nessun fruscio di abiti, nessuna nota da uno stereo, neanche il ronzio di un pc acceso. Mi chiesi che fine avesse fatto la ragazza col pigiama. Glielo chiesi.
« Marika? È tornata a casa per il weekend. »
Buffa coincidenza, pensai. Anch’io tornavo a casa per il weekend.
Avrei voluto chiedere, indagare, saperne di più, ma temevo che Irene non l’avrebbe permesso, che l’avrebbe considerata un’intrusione. Non mi piace che si ficchi il naso nei miei affari. Ma in fondo era stata lei a dirmi di entrare, lei a mettermi in mano quel bicchiere. Era vuoto, eppure lo impugnavo ancora, come se fosse il martelletto di un giudice. Lo posai sul tavolo, avvertendo soltanto in quel momento quanto la mia reazione fosse stata spropositata e goffa. No, non goffa, ridicola. Mi ero coperto di ridicolo. Chissà cosa pensava Irene di me.
« È tua…? » azzardai.
« La mia coinquilina, Marika. Studia giurisprudenza » rispose, senza alcuna esitazione. Forse aveva previsto una mia domanda, forse si era imposta di accoglierla senza sussultare. In fondo, nel mio momento di debolezza, le avevo rivelato di me molto più di quanto sapessi di lei. Nonostante il suo diario e tutte le mie macchinazioni, aveva vinto lei.
« E tu…? »
« Io studiavo Economia. Adesso non studio più. E non lavoro, neanche. E vivo qui, e basta. »
Poteva bastare anche a me, per il momento.
« Forse è il caso che vada » dissi, alzandomi in piedi. Gettai un’occhiata a Ryanair: dormiva di un sonno limpido, privo di sospetti. Non avevo davvero intenzione di fargli la lavanda gastrica; confidavo che il sapore di una fettina di tacchino e un tuorlo d’uovo potessero riportarlo a retti sensi. Avrei sconfitto i croccantini prima che avessero il tempo di reclamare un qualche potere su di lui.
Quando mi voltai verso Irene, vidi che si mordeva le labbra. Era impaziente. Mi chiesi se fosse impaziente che me ne andassi.
« Resta » disse.
Preso alla sprovvista, non seppi che fare. Non trovai di meglio che riaccomodarmi sulla sedia e portare il bicchiere vuoto alla bocca.
« Un tè? Un caffè? »
« Un caffè, grazie. »
« Ah, cadiamo sulla caffeina, signor Air? Non lo sa che è una droga anche quella? »
« Ma devo pur restare sveglio. »
« E non ha trovato un valido sostituto che non provochi assuefazione? »
La guardai male. Molto male. Ma anche con bontà. Ero davvero impressionato dal fatto che si stesse prendendo gioco di me.
Irene si alzò e si avvicinò al lavandino. Svitò la caffettiera senza sforzo, senza un solo borbottio. Certe volte mi chiedevo dove fosse la sua parte di donna. Non erano così, le donne che avevo immaginato al mio lavandino. Fece scorrere l’acqua e riempì il passino con decise cucchiaiate di caffè in polvere. Da ogni suo gesto emanava una sicurezza misurata, pulita, un calcolo attento. Non un solo granello di caffè rimase sui bordi o sul piano del lavello. Tutto finì nel passino o restò nel barattolo. Nessuna concessione allo spreco.
« Puoi fare un giro della casa, se vuoi » disse, voltandosi appena.
Arcuai un sopracciglio. Era come se mi avesse detto, che so, di sbatterla sul tavolo. Eravamo forse parte di un gioco dal titolo, dammi una tua debolezza che ti do una delle mie?
Per la verità, la casa era abbastanza piccola da limitare la mia esplorazione. Oltre alla cucina, c’erano soltanto un bagno e un ripostiglio al piano inferiore. A metà del corridoio d’ingresso mi imbattei in una scalinata, che dava su un pianerottolo. Due camerette, un altro bagno, uno studiolo. Per essere studentesse, non se la passavano affatto male.
Mi schiarii la gola, tentando di raggiungere Irene fino in cucina.
« Posso…? »
« La mia camera è la prima che incontri! »
Diavolo. Avevo la sudarella.
La porta era socchiusa. Dallo spiraglio veniva luce sul corridoio semi-buio e nella luce mulinavano minuscole particelle di polvere. Afferrai la maniglia e la luce si accrebbe e il corridoio fu tutto illuminato. La grande finestra dava sulla strada: era chiusa. Mi avvicinai e picchiettai contro il vetro, osservando di sotto, ma non c’era niente di bello da guardare. Uscire sul terrazzino, angusto e arrugginito, non avrebbe migliorato di molto la visuale.
Mi voltai verso il letto, un letto con la trapunta viola. C’erano un armadio, una cassettiera e una scrivania. Le penne nel barattolo, i fogli fascicolati, i libri allineati al millimetro sullo scaffale alla sinistra del letto. Sulla parete opposta alla finestra, investiti dal fascio di luce, erano appesi uno specchio rettangolare e una grande bacheca di compensato, con tante foto e tanti foglietti attaccati. Un’occasione troppo ghiotta per andare sprecata.
Nella luce, ebbi una visione che mi intontì. Irene mi stava davanti, nuda, con una mano appoggiata sulla mia spalla, e diceva, eccomi.
Fu in quel momento che urlarono:
« È pronto il caffè! »

Di Chiara Pagliochini

martedì 6 settembre 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap. 7


Eco e Narciso, Waterhouse

Dopo l’episodio del diario, i miei rapporti con Irene andarono un po’ migliorando. Certo, non diventammo grandi amici, ma arrivai a poterle dire “ciao” e “arrivederci” senza che lei si voltasse o scappasse. E talvolta, pensate, rispondeva pure. Erano piccole sviste, le falle della sua corazza, ma mi riempivano di una grande gioia, il trionfo di un bambino che vince la sua caramella, successo infimo, quasi miserevole.
Cercavo l’approvazione di una ragazzetta di vent’anni, e persino Cassandra scuoteva la testa in segno di disapprovazione:
« Tanto quella mica te la dà. »
Non mi prendevo la briga di correggerla. Non ne valeva la pena.
Il diario, il dialogo, tutto concorreva ad aumentare la mia curiosità, anziché a lenirla. Se prima potevo dire, non so niente di questa Irene, adesso la frase più corretta era, quale Irene? Quale Irene? I miei circuiti si connettevano male: un neurone mi portava un flash dei suoi capelli, un altro teneva per la coda un cinque sghembo, il terzo arrivava saltellando e aveva degli occhi grandissimi. Pensavo a Irene, e nella testa le sinapsi erano scoppi di pidocchi.
Non badavo neanche più alle lezioni dell’agenzia. Impiccagioni, roghi sacri, Pitagora, niente più mi impressionava. Accoglievo tutto con affetto, perché così tutto accoglieva Irene. E quando la vedevo concentrata, anch’io mi concentravo. Quando la vedevo disgustata, anch’io mi disgustavo. Quando lei annuiva, anch’io annuivo. Perché volevo dare importanza alle stesse cose cui la dava lei. Questo me l’avrebbe fatta conoscere. E conoscerla stava diventando - o almeno così sembrava - il mio unico motivo per restare, per restare in quel ricettacolo di pazzi di cui Irene era, probabilmente, la più pazza di tutti.
Era un venerdì, ed io ero in ansia come un condannato a morte. Irene non c’entrava, stavolta, e neanche il cianciare intermittente di Cassandra. Ero ancora in ufficio, quando avevo ricevuto la chiamata: mia madre mi invitava per il pranzo della domenica, con Raffa e i bambini e tutti quanti! Ma non con Ryanair, dopo quello che ha combinato l’altra volta non pretenderai…
« Ma mamma, e come…? »
« Organizzati. Trova qualcuno a cui lasciarlo. »
Prontamente mi ero alzato dalla sedia girevole. Sconvolto, avevo abbassato la cornetta e mi ero slacciato un bottone della camicia. Cercavo ancora di trattenere il dilagante senso di panico, quando mi affacciai a spiare Greta. Lei alzò la testa, strizzò gli occhi, capì che qualcosa non andava.
« Ho bisogno del tuo aiuto » mormorai.
Greta girò intorno alla scrivania e mi prese una mano.
« Cos’è successo? »
« Niente, niente, ho solo bisogno che tu tenga Ryanair. Sarebbe questione di mezza giornata. Non so a chi altro… »
« Chi è Ryanair? »
Mi stupii che non gliene avessi mai parlato. Era la cosa più importante della mia vita e non gliene avevo mai parlato.
« Il mio gatto. »
« Oh! »
E in quel momento i suoi occhi si riempirono di un luccicore strano, lamentoso.
« Mi dispiace, non posso » disse a bassa voce.
« Ma…? »
Ero così sorpreso che non riuscii a dire altro.
« Sono allergica ai gatti. »
Sottrassi la mia mano alla sua presa. E seppi, seppi senza che aggiungesse altro, che Greta non sarebbe mai stata la donna della mia vita, checché i miei genitori dicessero.
Era andata avanti così per tutto il giorno. Tornare a casa non aveva fatto che peggiorare la situazione. Concentrarsi su una possibile soluzione al problema era ancora più difficile, quando il problema ti si strusciava contro le caviglie. L’avevo fissato negli occhietti gialli.
« Che cosa hai fatto, Ryanair » avevo sospirato, accarezzandolo distrattamente.
Certo, avrei potuto richiamare mia madre. Perché no? Dirle che non andavo. Era la cosa più semplice. Ma non sarebbe stata una buona soluzione, non potevo evitare il problema per sempre. Raffa non avrebbe più permesso a Ryanair di scorrazzare nel cortile davanti casa. Raffa o Ryanair, la scelta doveva essere immediata e definitiva. O cercare un’altra via, un’alternativa, ma quale? Se Greta non poteva, allora…? Nessuno mi sembrava abbastanza affidabile, nessuno così degno della mia fiducia. Mi sentivo defraudato di qualcosa.
Per questo, concentrarmi sulle parole di Iris mi riusciva davvero difficile. Eppure Irene si stava concentrando, dannata lei. Cercai di allontanare per un attimo quei pensieri dalla testa e di ascoltare, solo ascoltare. Iris camminava avanti e indietro, sulle tracce di un pendolo invisibile. Irene, seduta in prima fila, prendeva qualche appunto sulla sua agenda. Ero felice che finalmente avesse cominciato a scriverci qualcosa. Anche se certo non dovevano essere cose allegre. Eugenio sonnecchiava, il capo reclinato contro il petto. Cassandra si controllava le unghie. E Sca non c’era, perché sarebbe stato troppo anche per lui.
Ma no, occorreva concentrarsi, dare importanza alle cose cui la dava lei. E allora ascoltai, mi concentrai, finsi per un momento - uno solo - di non avere un gatto, di non dover preoccuparmi di nessuno. Finsi di essere un uomo libero dai lacci di qualsiasi dipendenza.
« Dovremmo iscrivere Narciso nella lista dei nostri illustri predecessori, non trovate? Conoscete la storia di Narciso, vero? »
Lo sguardo di Iris si appuntò su di me, che mi richiusi nelle spalle.
« Ma sarà bene darne qualche cenno, certo. Narciso, dunque, bellissimo giovane che si specchia in una pozza d’acqua. Bellissima la ninfa Eco, che lo ama e che ne è respinta, perché Narciso ama troppo se stesso per amare anche lei. La povera Eco che a forza di ripetere il suo nome consuma la propria voce e si asciuga. Questa la storia, no? »
Irene annuì col capo. Annuii anch’io. Cassandra no, era impegnata a divellere una pellicina particolarmente cattiva.
« Perché dico che Narciso non è altro che un uomo come noi, come voi? Forse Narciso si uccide? Beh, non nel senso vero del termine, se vogliamo essere pignoli… Ma se vogliamo essere poetici - e la poesia e la metafora, è questo che noi cerchiamo, vero? Bene, se vogliamo essere poetici e metaforici, questo nostro Narciso si uccide eccome. »
« Si spieghi meglio » disse Irene, alzando appena la fronte.
« Già » feci Eco io.
« Narciso cade nella pozza d’acqua perché tenta di abbracciare la propria immagine. Come a dire che a voler conoscersi fino in fondo si precipita. O forse no? Ecco, se pensiamo a Narciso in questi termini - non come uno che ami la propria immagine riflessa, ma come uno che cerchi il perché di quell’immagine - ecco che avremo davanti il nostro ritratto. Perché siete finiti qui? Perché forse? Non per conoscere qualcosa di voi? Non per cancellare quel qualcosa di voi che avete conosciuto e nel quale siete sprofondati? »
Irene smise di scrivere. Alzò tutta la testa e restò semplicemente così, a guardare in silenzio. Guardava Iris in silenzio come se si aspettasse di più, come una verità che avrebbe potuto salvarla. No, non salvarla. Irene voleva essere salvata? Non lo sapevo, ma non mi sembrava il tipo. Mi sembrava più qualcuno che volesse conoscere e conoscere fino in fondo, proprio come quel Narciso, chiunque fosse.
« E poi Narciso annega » disse a un tratto, come soprappensiero.
« Certo » rispose Iris, accompagnando la conferma con un blando cenno del capo. Mi parve strano, stranissimo, come se quella parola e quel gesto fossero stati una carezza, una gentilezza nei confronti di Irene. Ma era assurdo.
« Quindi Narciso è un innegabile distratto o un geniale calcolatore? Nessuno potrà mai risollevarlo dall’acqua e chiedere alla sua faccia gonfia una qualche risposta. Sei scivolato? L’hai fatto apposta? Cos’hai visto in quel riflesso? Nessuno potrà. Né qualcuno potrà vedere quel riflesso allo stesso modo in cui lo vedeva lui. Se anche Eco si fosse messa alle sue spalle e, spettinandogli i capelli, avesse guardato nell’acqua insieme a lui, non avrebbe visto la stessa cosa che Narciso vedeva. Perché Narciso conosceva il suo viso solo attraverso quell’acqua, mentre Eco lo conosceva attraverso gli occhi. E due diversi specchi danno due immagini completamente diverse. O infinite diverse immagini. Come in un caleidoscopio. »
Irene faceva di sì con la testa, Irene capiva. Io invece non capivo nulla. Erano parole che non avevano alcun senso per me. Però erano parole importanti, perché importanti erano per Irene: avrei fatto bene a tenerle in mente.
Ma come poteva davvero interessarmi tutto quello, quando c’erano problemi ben più gravi ad assillarmi, quando Ryanair, il povero, il caro… ? No, dannazione. Ed ecco che, a vedere i capelli di Irene e la sua testa così docile a far di sì, ricordai. Ricordai quel che mi aveva detto, davanti alla porta di casa, con la tuta indosso e la cortesia di rito.
« Se c’è qualcosa che posso fare per sdebitarmi. »
Era decisamente improbabile - o almeno decisamente ingiusto - che due donne si proclamassero allergiche ai gatti nello stesso giorno.

« Ma…certo. »
Non se lo aspettava, glielo leggevo negli occhi. L’avevo davvero colta di sorpresa.
Si portò una ciocca di capelli dietro le orecchie e rimase ad osservarmi con una punta di curiosità. L’occasione era troppo ghiotta per farmela sfuggire.
« Sarà solo per qualche ora. Ho avuto dei problemi a casa e non posso più portarlo con me. E sono sicuro che con te… »
« Ma sì, starà bene » lo disse con decisione, come se volesse rassicurarmi.
Lo sarebbe stato veramente? Irene-Narciso era abbastanza all’asciutto, abbastanza lontana dall’acqua, per badare ancora al mio gatto? O non poteva forse essere vendicativa e criminale o semplicemente sciatta…un innegabile distratto o un geniale calcolatore? Stavo affidando alle sue mani la cosa più cara che avessi e in quel momento provai paura e vergogna. Mi vergognavo di essere così caduto in suo potere.
Ma c’è da dire che Irene non se ne rendeva minimamente conto, o almeno così sembrava. I suoi occhi erano limpidi, le sue parole misurate. Indossava la sua migliore maschera di circostanza.
« Siamo d’accordo, allora. Lo porto da te domenica mattina alle undici. Va bene? »
« Certo. »
« Ci vediamo allora. »
« Ciao. »
Si allontanò con la borsa sotto il braccio. Qualche momento prima l’avevo vista far scivolare l’agenda al suo interno. E per un attimo ero stato colto dalla vertigine, al ricordo di quella sensazione di potere, la sensazione di poter controllarla e conoscerla, manipolarla, svelarne i segreti. Ma non era servito niente. Irene non si faceva conoscere da me. Irene sola voleva conoscere se stessa.
Cassandra mi si avvicinò e mi poggiò una mano sulla spalla.
« Insisti? » chiese, in tono dolce-miele.
Le sorrisi incerto, un po’ teso.
« Dai, andiamoci a prendere un caffè. »
« Ma sì, andiamoci a prendere questo caffè. »
Ero così soddisfatto della riuscita del mio piano che potevo anche essere accomodante, per una volta. Purché si trattasse solo di un caffè: aveva troppo fard sulle guance, quella stregaccia. Cassandra mise il suo braccio sul mio, e si dichiarò contenta, tanto contenta, che non me ne scappassi subito a casa. Ma Irene era già scappata, ahimè.
Mi tornò in mente una cosa che dovevo dirle. Ryanair non mangia croccantini. La appuntai nella mia agenda mentale e cercai di concentrarmi su quell’idea per tutto il tragitto fino al café. Ma non so cos’accadde, se Cassandra parlò troppo o un altro appunto sbiadì quello sottostante. Fatto sta che mi dimenticai, e mancai di dirlo a Irene. E lei, innegabile distratto o geniale calcolatore, non poteva di certo sapere che.

Di Chiara Pagliochini