sabato 21 luglio 2012

Datemi la guerra, Marco Tamborrino



« Siamo condannati ad amare. Amare la morte o amare la vita non fa differenza. Rimaniamo tutti, dal primo all’ultimo, dolorosamente umani. »

L’anno scorso, quando ho letto per la prima volta “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, il mio primo pensiero è stato che, a vivere in tempo di pace, umanamente non ci si guadagna. Mi spiego meglio. Vivere in tempo di pace sembra privarci di qualcosa di prezioso, di altrimenti inaccessibile, di più umano dell’umano. La pace ci nega gli eccessi, gli estremi, ci pone in una condizione di colori pastello dove le sensazioni sono blande, i sentimenti comuni. La guerra, invece, fa di una sensazione comune una sensazione rara, nuova e misteriosa. I legami tra le persone – nelle famiglie, tra amici – diventano tanto più forti quanto più aumenta il rischio che siano recisi. Il rapporto tra camerati, al di fuori dell’ambito militare, diventa impensabile. L’eroismo, inconcepibile. Allo stesso tempo cresce e si acuisce l’altra fetta del sentire umano: il disprezzo, l’odio, la capacità di fare violenza, la barbarie.
Posto in una condizione estrema quale è la guerra, l’uomo si estremizza nel sentire: nel bene e nel male. Diventa più uomo e insieme più bestia e, attraversando una gamma di stadi di esistenza così vasta, si fa mito.

Ma la guerra – e qui veniamo al romanzo – non è soltanto una parentesi storica, un inciso nel tessuto della pace. La guerra è quasi la più naturale espressione della storia. È una forma dell’uomo, una sua declinazione. La guerra la portiamo nel sangue.
C’è chi accetta questa constatazione e si fa strumento e latore della guerra. Sono gli uomini per cui uccidere un individuo o ucciderne quattro milioni non fa alcuna differenza. Sono gli uomini che piegano la guerra ai loro fini privati, economici o politici che siano. Sono gli uomini che giocano alla guerra. Uomini ombra che muovono i fili del mondo come in un teatrino o uomini marionetta che si limitano a obbedire a un comando, un comando irrazionale, il più irrazionale di tutti, ‘uccidi un tuo simile’. Dov’è il problema? Quando ne hai ucciso uno, cosa ti impedisce di ucciderne quattro milioni? E quale condanna potrà mai sfiorarti, quando la vita non ti si oppone, quando la terra non ti si spalanca sotto i piedi e non ti inghiotte? La terra non s’è aperta per Caino, il primo assassino della storia. Non s’è aperta per Hitler. Non si apre per nessuno. La terra sta lì, immobile, impassibile, non impallidisce di fronte allo sterminio. Resta ferma a osservarti giocare.
Ma c’è anche chi si sente la guerra nel sangue, come Alex, e tenta comunque di remare nella direzione opposta. Quando lo conosciamo, Alex è solo un bambino. Quando lo conosciamo, Alex è già un assassino. La guerra lo abita, lo ha scelto per abitarlo, ma Alex strepita, si ribella e tenta di barattare un fucile con una carezza. Ma, quando porti la morte così stampata in faccia, pochi sono in grado di sentire la tua richiesta di aiuto.
La vita, però, può mostrarti ancora un’ora di clemenza e farti incontrare Luca. Un giorno, per caso. O forse non per caso, perché Luca è quello che avresti potuto essere tu, se solo avessi avuto la bellezza – e non la guerra – ad abitarti. Luca e sua madre sono gli ultimi adepti di un culto che fa dell’amore, delle parole, della bellezza le proprie divinità personali. La madre di Luca ha inventato per Luca un mondo diverso, glielo ha versato goccia a goccia nelle orecchie fin da bambino, glielo ha stampato dentro con le parole di Andersen, di Salgari, degli altri, quelle parole e quei libri che gli hanno fatto intravedere tutto un orizzonte di valori altissimi e lontani, ma contro il quale la vita reale, ogni giorno più brutale e insensata, cozza con un rimbombo terribile.
Luca è schietto, ingenuo, generoso. È tipo da aspettarti sotto casa, se sei una ragazza che ama, e dirtelo proprio in faccia, così semplicemente, ‘Ti amo’. È uno che non si vergogna di voler bene e di dirlo. Non ha paura delle proprie sensazioni, dei propri sentimenti, qualsiasi essi siano. Vuole sentire intensamente il dolore così come il piacere. Ma, più di tutto, Luca vuole vivere. Vuole vivere tutto quello che il mondo ha da dargli e aspetta che il mondo gli dia la sua occasione per farlo.
Il mondo, però, sembra non ascoltarlo. Il mondo è un palcoscenico su cui due schieramenti o cento schieramenti si fanno la guerra. E tutti vogliono ucciderti e uccidere senza che tu sappia il perché, senza che nessuno ti spieghi che parte hai in tutto questo e perché è toccato proprio a te vivere questo tempo. Perché la guerra? Chi è a volere la guerra? Se l’amore ci riempie tanto e ci soddisfa, perché insistiamo nel combatterci, nell’uccidere, nell’attingere a quei sentimenti che sono i peggiori? Perché io? Sono queste le domande che ossessionano tutti i personaggi del romanzo, che si rincorrono di bocca in bocca, di oceano in oceano. Nessuno sa dare una risposta.

C’è poi una forma di guerra che è la più sottile e raffinata. Una guerra combattuta in segreto, una guerra da donne. È un conflitto di sensi tra il bisogno di essere amate e la paura di amare. È la guerra di Giulia. « C’era un assioma imprescindibile nella vita di Giulia, e quell’assioma era “non amare”. O meglio “non amare nessuno che ti ami come o più di te stessa, non amare i genitori che ti ameranno anche quando li odierai, non amare i fiori, non amare la pioggia, il mare, la primavera, l’estate, la neve, la città, i sorrisi. Non amare i baci, soprattutto i baci. Non amare mai le persone, perché poi amandole ci si distrugge. È un piacere. Distruggersi. »
L’amore è come la guerra. Ti capita tra capo e collo improvvisamente, senza che tu possa opporre resistenza o sentire che sei tu a condurre il gioco. Sei a teatro, alzi gli occhi e all’improvviso non hai più il controllo sulla tua esistenza. Perché non sei più sola. Non ti pensi più scissa. Ti pensi insieme e questo è dipendere da qualcuno e morire un po’. La resistenza partigiana, in amore, porta pochi frutti. Costringersi a non amare è impossibile. L’unica cosa che abbia veramente senso è combattere: combattere questo amore-guerra, dunque amare.

Se è vero che il romanzo presenta l’amore come alternativa alla guerra, è anche vero che l’amore e la guerra continuamente scivolano l’uno nei confini dell’altro. C’è guerra in amore – tutti contro tutti, l’amico contro l’amico, pur di essere felici – come c’è amore in guerra.
Un bellissimo esempio lo troviamo nell’episodio di Lidice, dove il 10 giugno 1942 uno squadrone nazista compì un’efferata strage di civili.
Un ragazzo sta per essere giustiziato. Una ragazza, quasi una bambina, si fa avanti per dirgli addio. Ed è con queste righe che vorrei concludere, perché mi sembra che siano quelle che più decisamente affermano un estremo tentativo di conciliazione, lo spirito irriducibile dell’uomo che non si piega a essere strumento e vittima di un gioco altrui, ma continuamente spera e crede di poter inventare un gioco le cui regole siano finalmente umane.

Ci vedremo dall’altra parte, le disse lui.
E lei, che fino a quel momento non aveva creduto nel paradiso, disse, Ci deve per forza essere la pace dopo la morte. E io e te saremo insieme in quella pace. 

Di Chiara Pagliochini

Oltre il confine, Cormac McCarthy



« Il mondo non ha un nome, disse. I nomi dei cerros e delle sierras e dei deserti esistono soltanto sulle carte geografiche. Diamo loro un nome per non perdere l’orientamento. Tuttavia, quei nomi li abbiamo coniati proprio perché avevamo perso l’orientamento. Non si può perdere il mondo. Siamo noi il mondo. Ed è perché questi nomi e queste coordinate sono frutto della nostra nominazione che non ci possono salvare. Non sanno ritrovare per noi il cammino perduto. »

Tra tutti gli oggetti che ci circondano, l’oggetto-libro è veramente il più strano. A vederlo, sembrerebbe un oggetto come un altro: pagine, inchiostro, una rilegatura. A livello materiale, non è poi così diverso da un sasso, una forchetta, una federa. Eppure un libro ha qualcosa che lo rende diverso da tutti gli oggetti, che lo eleva al di sopra di essi, al di sopra del materiale e dell’utile. Un libro, bello o brutto che sia, capolavoro o spazzatura, è sempre un portale, un canale di comunicazione tra persone che non potrebbero parlarsi in altro modo. Per un libro, lo spazio e il tempo non esistono: non sono impedimenti alla parola. Il messaggio sopravvive e passa sempre.
Ci sono poi quei libri che hanno un respiro, che palpitano e sollevano il petto come creature viventi. Sono libri come cavalli o persone, la cui essenza non può essere trattenuta, perché immateriale e incolore come la vita. Quell’essenza che segna necessariamente il confine tra un sasso e una libellula, tra freddo e caldo, morto e vivente. Ecco, ‘Oltre il confine’ è oltre questo confine.

Potremmo dire, come fa la spiritosa copertina dell’edizione Einaudi, che ‘Oltre il confine’ è “una storia avventurosa attraverso la Frontiera”. Rileggere questa definizione, a posteriori, suona perfino un po’ grottesco. Ma, se noi ci fermiamo e scindiamo l’enunciato nei suoi costituenti, allora possiamo catturare qualcosa di vero.

– una storia –
“Storia” è una parola che, particolarmente nella nostra lingua, risulta estremamente malleabile. È “Storia” il succedersi degli eventi nel tempo, date e luoghi e ricordi. È “storia” il racconto, “the tale”, il succedersi delle parole in un intreccio coerente da recitare accanto al fuoco per il piacere di un pubblico vicino o da trascrivere per il piacere di un pubblico lontano. Le due accezioni di “storia” sono legate da un rapporto che, ancora una volta, possiamo definire “storico”: ovvero, dacché c’è “Storia”, c’è “storia”.
All’inizio non era il Verbo. All’inizio erano i versi gutturali dei nostri predecessori. All’inizio era il fuoco, la caccia, gli alberi. Poi i versi gutturali si sono fatti parola. Allora la parola ha catturato il fuoco, la caccia e gli alberi, ha avuto il potere di definire e imbrigliare, di riassumere, separare e legare. Poi la parola ha scoperto che, legandosi a un’altra parola, diventava più forte. Le sequenze si sono fatte più lunghe e più complesse. Era nata la “storia”, il racconto.
Io credo che il racconto e la capacità narrativa siano il cuore di questo romanzo. ‘Oltre il confine’ è un racconto della capacità di raccontare. È narrativa di narrativa. « Perché questo mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione e sangue non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori, eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto. Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. È questa in fondo la lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché, vedi, non sappiamo dove stanno i fili, i collegamenti. Il modo in cui è fatto il mondo. Non abbiamo modo di sapere quali sono le cose di cui si può fare a meno. Ciò che può venire omesso. Non abbiamo modo di sapere che cosa può stare in piedi e che cosa può cadere. E quei fili che ci sono ignoti fanno naturalmente parte anch’essi della storia e la storia non ha dimora né luogo d’essere se non nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi non possiamo mai aver finito di raccontare. Non c’è mai fine al raccontare ».
In un luogo antico e controverso due viandanti si incontrano. Condividono una strada, un focolare, poche provviste. E una storia. Raccontare una storia, la propria storia o anche una storia inventata, non è un modo per passare il tempo, ma per infondere se stessi in un’altra persona, per insegnare o mettere in guardia. È una condivisione più intima e generosa che l’offrire da mangiare. È il punto in cui scatta la scintilla del contatto umano, ciò che distingue una persona dall’altra, ciò che davvero rimane nella memoria.
Per questo non c’è da stupirsi se a Billy Parham – che a diciassette anni è già perso in un vagabondaggio fisico e spirituale – capita di raccogliere una storia da ciascuno. In un contesto normale sembrerebbe assurdo: un personaggio che, a ogni piè sospinto, incontra qualcuno con un’irriducibile voglia di chiacchierare. E non chiacchierare del più e del meno, ma delle cose grandi, delle cose che non si possono definire né imbrigliare compiutamente, perché infinitamente meno tangibili del fuoco, della caccia e degli alberi: il Male, il Mondo, la Morte, Dio. O il Messico pullula di filosofi o McCarthy è impegnato nella versione western del Decameron. Ma nessuna delle due è vera. La verità è che non conta solo il contenuto del racconto. È l’atto stesso del raccontare a essere centrale, la dedizione che comporta, l’essere testimoni.
McCarthy rende omaggio e santifica ciò che considera il nostro bisogno più intimo e umano. Ancora una volta, non lo santifica solo col contenuto del racconto ma pure nella forma. Se isoliamo il passaggio già citato dal suo contesto e lo leggiamo attentamente, sembra di vedere in esso tanto una dichiarazione di poetica quanto una definizione del suo stile. « Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. È questa in fondo la lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché, vedi, non sappiamo dove stanno i fili, i collegamenti ».
Nella scrittura di McCarthy è difficile isolare l’essenziale dal superfluo. Tutto sembra parimente importante: lanciare il lazo come discutere di Dio. A volte ci troviamo imbrogliati in sequenze di azioni che non capiamo, che non riusciamo a visualizzare proprio perché troppo minute. L’occhio di McCarthy sembra una telecamera che punta continuamente al dettaglio. Quel dettaglio che al lettore non verrebbe mai in mente, quel dettaglio che uno scrittore comune trascurerebbe. Quel dettaglio che ricrea un mondo completo, puramente realistico, una finzione più vera del vero, in cui il lettore si immerge, si perde, non capisce. Scrolla la testa e si chiede dove sia. Non legge del Messico, non è in Messico: è il Messico.
Non è una cosa che si incontra tutti i giorni.

 – avventurosa attraverso la Frontiera –
Questa seconda parte della definizione ci conduce su un territorio già noto, un territorio che è quasi il paesaggio interiore dello Scrittore Americano (inteso come categoria, non solo come singolo). Il viaggio di formazione, l’error e la frontiera sono elementi che ricorrono nella narrativa americana da Mark Twain in qua. Cooper, Melville, Steinbeck, Kerouac, ma se ne possono pensare molti altri.
Un ‘eroe’ parte per una ‘missione’. Intraprende un ‘viaggio’ in un ‘mondo diverso dal suo’, dove affronterà delle ‘prove’, incontrerà ‘aiutanti’ e ‘oppositori’. Dal ‘mondo altro’ egli deve riportare qualcosa, una testimonianza o un ‘oggetto magico’ che rappresentano il compimento della sua ‘ricerca’. Ma il possesso di questo oggetto di un altro mondo renderà l’eroe per sempre un ‘diverso’, segnerà la sua ‘trasformazione’. Il contatto con l’altro mondo non è molto dissimile da una discesa agli Inferi. Si attraversa la frontiera, fisica e metaforica, da cui non si torna indietro come si era. È un ‘viaggio di iniziazione’.
È lo schema del più classico dei racconti, la fiaba. E cos’è la fiaba se non il racconto dei racconti, “lo cunto de li cunti”? Il raccontare, ritorniamo sempre lì.

Ma facciamo un passo avanti. Quando leggiamo uno scrittore americano, dobbiamo sempre tener presente tutta la storia di un popolo e di una cultura. Un popolo che, dai Padri Pellegrini in avanti, ha il viaggio nel sangue. Non un viaggio qualunque, ma un viaggio spirituale, una missione, la ricerca di un luogo da chiamare proprio e sul quale edificare. Per questo la corsa alla Frontiera, non soltanto per un bisogno di colonizzare: non è solo la colonizzazione materiale ed economica che si cerca, ma l’imposizione di sé, il sogno americano dell’affermarsi a colpi di Colt e versetti della Bibbia per dimostrare che si è uomini abili ed eletti. Abili perché eletti, eletti perché abili, non fa differenza.
Il mito della frontiera ne porta con sé un altro, che è quello dell’eroe nel suo isolamento. È l’eroe dei film western, che non si lega a nessuno, che combatte per una causa, vince, ma non si ferma per ascoltare i ringraziamenti. È un eroe senza terra, un viandante, un solitario.

Che cosa troviamo di tutto questo in McCarthy?
Molto o niente o tutto ma in modo diverso.
Billy Parham si sceglie un destino da senza-terra per nessun motivo particolare. Un attimo prima ha un obiettivo, l’attimo dopo l’obiettivo è sovvertito. Quando i suoi occhi si fissano in quella della lupa, non sappiamo che cosa accada. Non sappiamo perché a un certo punto volti il cavallo e, invece di tornare dal padre, decida di attraversare la frontiera per riportarla a casa. Riportare una lupa a casa, come se un animale avesse una casa di mattoni, con una staccionata e un camino. È un’impresa folle e ineffabile alla quale il lettore assiste con un cuore traboccante di umanità. Un’umanità che contagia e lega tutti indistintamente: è umana la lupa, sono umani i cavalli, le gru, i burros, è umano il fiume, umana la polvere, umano il fuoco. Nel mondo di McCarthy, non c’è una forma di vita che valga meno delle altre.
Quella frontiera Billy la attraverserà altre due volte: la seconda, in compagnia del fratello Boyd, per cercare i cavalli rubati dal ranch del padre; la terza, di nuovo solo, per cercare il fratello Boyd, come risucchiato da quella terra. « È il mio terzo viaggio » dirà alla fine « ma è la prima volta che trovo quello che cerco. Ma le garantisco che non era quello che volevo ».
La verità, secondo me, è che non si sa mai bene quello che si cerca. E spesso quello che si trova è spaventoso e non corrisponde a quello che si pensava di cercare. Il viaggio è fatto per trovare, ma soprattutto è fatto di perdersi. E si trova e ci si perde, si trova e ci si perde, come un cavallo che procede a zigzag lungo una strada diritta.
È la condizione dell’uomo come eterno viandante e peregrino, le cui tracce su questa terra passano sempre lievissime. La vita del singolo è giusto un transitare. I segni del nostro passaggio non si vedono. Restiamo nel cuore e nella memoria di chi ci ha amato. Ma poi anche quelli muoiono e allora il ricordo è destinato a perdersi per sempre. Il mondo dimentica. E non c’è pietra, non c’è monumento da opporre alla forza devastante del tempo. Perché tutto, prima o poi, verrà macinato nella ruota grande dell’oblio.
È un destino che non si può combattere. Ci si deve arrendere. Bisogna accettare. Ma, per il tempo che abbiamo, non bisogna mai smettere di cercare quel luogo, quell’oggetto che ci fanno star bene, che ci fanno sentire vivi. Anche se continuamente siamo immersi in una disperazione e in una solitudine immense, che non risparmiano animali né piante né cielo. « C’è solo una vita che vale la pena vivere e io sono nato proprio in quella. E quella vale tutto il resto ».

Leggete questo romanzo. Leggetelo come “una storia avventurosa attraverso la Frontiera” o come “una storia” – “avventurosa attraverso la Frontiera”. Oppure leggetelo come volete voi, stabilite un rapporto che sia soltanto il vostro. Se non c’è mai fine al raccontare, neanche all’ascoltare ce n’è. 

Di Chiara Pagliochini

lunedì 9 luglio 2012

La campana di vetro, Sylvia Plath



« Dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica. »

Ci sono dei libri che sono stati scritti non dico da gente come noi, ma da gente che pensava come noi. Le curve del pensiero, sovrapposte, per lo più combacerebbero con le nostre e soltanto qualche sbavatura qua e là dimostrerebbe che, dopotutto, non si tratta della stessa curva. Quando un libro lo ha scritto una persona che pensava come te, tu non puoi far niente: tentare di opporre resistenza è inutile. Tentare di non lasciarsi ammaliare, inutile. Tentare di mantenere una distanza critica, inutile. Un canto di sirena si dipana fino a te dalla pagina. A mettere i tappi di cera non hai neanche provato. Ascolti. Caschi contento nel gorgo.


Qualcuno ha pensato bene di paragonare ‘La campana di vetro’ a ‘Il giovane Holden’, chiamando la protagonista, Esther, la sua controparte femminile. I romanzi, in realtà, non si somigliano molto. Lo sguardo di Holden è fresco, è uno sguardo di chi si può ancora salvare. Lo sguardo di Esther è allucinato, uno sguardo che ti trascina sul fondo. A Holden accarezzeresti la testa: tu non sei Holden, sei con Holden. A Esther la testa non la puoi accarezzare, a meno che appoggiarti la mano sulla nuca non ti sembri un gesto comunissimo. Davanti a entrambi, a Holden come a Esther, si snoda un gomitolo di dolori e di strade, di ricordi, di scene e colori che non riescono a dimenticare. Ma Holden lo guardiamo e facciamo il tifo per lui, siamo tutti lì a urlare che è giovane, che si può tirar fuori, che può essere felice. Con Esther il pensiero non ci sfiora nemmeno: essere felice, per lei, sarebbe un tradimento.
Quando la conosciamo, Esther è una diciannovenne molto fortunata. Ha vinto uno stage presso una prestigiosa rivista di moda, dopo una carriera scolastica costellata tutta di borse di studio e voti altissimi. È fidanzata con un bel ragazzo destinato a diventare un brillante dottore. È abbastanza graziosa, troppo intelligente e scrive poesie. No, non scrive poesie, è un poeta. La qualifica di poeta è la sola che Esther si dia autonomamente, la sola che sembri riconoscere, la sola che conti qualcosa. Ed è solo e proprio nel momento in cui scopre di non essere più un poeta – quando si mette alla macchina da scrivere e non le viene fuori niente, quando le lettere tracciate sul foglio di carta le restituiscono una grafia distorta e infantile – che qualcosa dentro di lei si spacca con un fracasso infernale.
Fino a quel momento, Esther era sì consapevole di avere davanti delle difficoltà, consapevole che le sue capacità mentali si stavano pian piano sfilacciando, ma mai il terrore la aveva invasa fino a paralizzarla, a spingerla a risoluzioni estreme quali il suicidio, i suicidi, i mille piccoli tentativi di annientarsi disposti qua e là lungo tutta la narrazione e destinati a scattare a vuoto come trappole per topi mal congegnate. Uccidendosi, Esther non ucciderebbe niente di più che un involucro. Il soffio vitale è già fuori di lei. È uscito, si è perduto, esploso al contatto con la vita e i suoi meccanismi di produzione e distruzione. Eppure, anche se Esther è già morta, anche se la sola Esther che conti è già morta, tutti si affaccendano intorno al suo cadavere per far sì che l’involucro non muoia. Coccolano il suo scheletro, ci parlano, lo ingozzano di insulina. 

« Capii allora che il mio corpo conosceva un’infinità di trucchetti, tipo togliere la forza alle mie mani nel momento cruciale, che gli avrebbe salvato ogni volta la vita, mentre, se fosse dipeso solo da me, in un attimo l’avrei fatta finita. Dunque dovevo tendergli un’imboscata con quel po’ di intelligenza che mi rimaneva, altrimenti quello mi avrebbe tenuta intrappolata nella sua stupida gabbia per altri cinquant’anni di ebetudine ».

Ma il corpo non è l’unica gabbia contro cui Esther deve dibattersi. Il corpo è soltanto la gabbia più superficiale, quella che aderisce strettamente allo spirito. Sopra il corpo tutta un’altra serie di pinnacoli e di guglie si innalza, e questa è la campana di vetro. La campana di vetro è la matrioska multistrato in cui sei immerso dacché sei nato. Nella matrioska più piccola c’è la tua famiglia, in quella poco sopra la famiglia che ti formerai, poi la scuola, il lavoro, le istituzioni, le consuetudini, i sistemi di pensiero, le religioni. A volerla sfogliare tutta come una cipolla, la campana di vetro ha la forma del cosmo. Tutto il cosmo in ogni sua parte è una campana di vetro. Essendo grande, la campana non pesa su tutti allo stesso modo. In qualche punto, anzi, si respira abbastanza bene. Ma a seconda delle circostanze, del sesso, dell’educazione la campana ti preme un po’ di più o un po’ di meno.
Se sei una donna come Esther, nell’America degli anni Cinquanta, la campana di vetro ti pesa addosso un bel po’. Innanzitutto, o ti sposi o sei poeta. Qualunque persona sana di mente vedrà che sono impossibili insieme. Secondo, o ti sposi e rimani vergine per tuo marito (mentre tuo marito, beninteso, non rimane vergine per te) o hai una vita sessuale franca e schietta e allora subisci le conseguenze a tuo carico (vedi gravidanze indesiderate e scandali). A dirla tutta, la società perbenista e maschilista nella quale Esther è immersa è quella che di più appesantisce la campana di vetro. Per Esther gli uomini sono creature grottesche, tra le quali si muove con circospezione, e che si dividono in ‘uomini che potresti sposare e che quindi ti trasformerebbero in una moglie-zombie accondiscendente’ e ‘uomini che potresti scopare e quindi usare per assumere il controllo sul tuo corpo, sulle tue emozioni, sui tuoi cicli’. 

« Era sempre la stessa storia: adocchiavo un ragazzo e da lontano sembrava perfetto, ma non appena si faceva più vicino, scoprivo che non mi piaceva più. Era uno dei motivi per cui non intendevo sposarmi. L’ultima cosa che desideravo era la sicurezza assoluta ed essere il punto da cui scocca la freccia dell’uomo. Io volevo novità ed esperienze esaltanti, volevo essere io una freccia che vola in tutte le direzioni, come le scintille multicolori dei razzi il 4 luglio». 

Il fantasma del matrimonio e l’incubo della verginità – l’amore non è tra le alternative – pendono sulla testa di Esther come una solida spada di Damocle. Lei si sposta un po’ da una parte e un po’ dall’altra. Ma nel centro, nell’oscillazione è la follia.
Altro sonoro rintocco sulla campana di vetro è il din-don della religione. Cattolicesimo, unitarianesimo, puritanesimo sono tutte uguali, tutte ugualmente pronte a incasellarti nei loro schemi rigidi, quegli schemi comodi come linee rette nei quali non c’è alcun bisogno di pensare. 

« Gli avevo detto che credevo nell’inferno, e che certe persone, io per esempio, erano condannate a vivere all’inferno durante la vita, per compensare il fatto di non andarci dopo morte, visto che non credevano nell’aldilà, e che dopo la morte a ciascuno succede quello in cui aveva creduto ».

Poi ci sono i genitori, che ti vogliono sana, stupida e felice. Poi gli amici, che ti vogliono simpatica e vestita bene. Poi i dottori, che vogliono sapere perché stai male. E infine ci sei te, il nocciolo duro della campana di vetro, la punta di diamante che ruota e strilla e strepita ma non crepa. La campana non si rompe. Se si incrina, la aggiusteranno per te. Non potrai mai fuggire.


Io credo che questo libro fiero, crudo, spietato sarebbe molto più noto di quanto già non sia se solo in copertina non ci fosse quel nome di donna che fa storcere il naso ai maschietti, se chi l’ha scritto non si fosse suicidato, attirandosi quei sospetti di ‘cianfrusaglia deprimente scritta da una persona disturbata’. Io credo che un libro che scava così tanto nella malattia e nel suicidio, un libro che ci fa entrare nelle vasche da bagno e nelle cliniche dove ti addomesticano con l’elettroshock, acquisti una validità ancora più assoluta per il fatto – ovvio, brutale – che Sylvia Plath ha effettivamente vissuto quel che racconta, che ha portato la merenda ai suoi bambini e ha infilato la testa in un forno e nessuno, nessuno l’ha trovata prima che fosse troppo tardi.
Io credo che questo libro non dica ‘La vita fa schifo, perché non ce la togliamo tutti?’. Anzi, io credo che questo libro voglia dire o almeno dica a me, ‘Ecco, qui sta il problema, qui, proprio qui, dietro l’orecchio destro, e adesso che io te l’ho circoscritto e definito, sta a te vedere come puoi estirparlo. Se puoi estirparlo. Se vuoi estirparlo.’
Io credo e lo dico sinceramente che perdere Sylvia Plath sia stata una gran perdita. E avrei preferito che rimanesse con me, che scrivesse altri tre, altri quattro libri come questo, invece che scriverne uno solo e suggellarlo col più definitivo, col più puro atto di potenza.