« Siamo condannati ad amare. Amare la morte
o amare la vita non fa differenza. Rimaniamo tutti, dal primo all’ultimo,
dolorosamente umani. »
L’anno scorso, quando ho letto per la prima volta “Niente di nuovo
sul fronte occidentale”, il mio primo pensiero è stato che, a vivere in tempo
di pace, umanamente non ci si guadagna. Mi spiego meglio. Vivere in tempo di
pace sembra privarci di qualcosa di prezioso, di altrimenti inaccessibile, di
più umano dell’umano. La pace ci nega gli eccessi, gli estremi, ci pone in una
condizione di colori pastello dove le sensazioni sono blande, i sentimenti
comuni. La guerra, invece, fa di una sensazione comune una sensazione rara,
nuova e misteriosa. I legami tra le persone – nelle famiglie, tra amici – diventano
tanto più forti quanto più aumenta il rischio che siano recisi. Il rapporto tra
camerati, al di fuori dell’ambito militare, diventa impensabile. L’eroismo,
inconcepibile. Allo stesso tempo cresce e si acuisce l’altra fetta del sentire
umano: il disprezzo, l’odio, la capacità di fare violenza, la barbarie.
Posto in una condizione estrema quale è la guerra, l’uomo si
estremizza nel sentire: nel bene e nel male. Diventa più uomo e insieme più
bestia e, attraversando una gamma di stadi di esistenza così vasta, si fa mito.
Ma la guerra – e qui veniamo al romanzo – non è
soltanto una parentesi storica, un inciso nel tessuto della pace. La guerra è
quasi la più naturale espressione della storia. È una forma dell’uomo, una sua
declinazione. La guerra la portiamo nel sangue.
C’è chi accetta questa constatazione e si fa
strumento e latore della guerra. Sono gli uomini per cui uccidere un individuo
o ucciderne quattro milioni non fa alcuna differenza. Sono gli uomini che
piegano la guerra ai loro fini privati, economici o politici che siano. Sono
gli uomini che giocano alla guerra. Uomini ombra che muovono i fili del mondo
come in un teatrino o uomini marionetta che si limitano a obbedire a un
comando, un comando irrazionale, il più irrazionale di tutti, ‘uccidi un tuo
simile’. Dov’è il problema? Quando ne hai ucciso uno, cosa ti impedisce di
ucciderne quattro milioni? E quale condanna potrà mai sfiorarti, quando la vita
non ti si oppone, quando la terra non ti si spalanca sotto i piedi e non ti
inghiotte? La terra non s’è aperta per Caino, il primo assassino della storia.
Non s’è aperta per Hitler. Non si apre per nessuno. La terra sta lì, immobile,
impassibile, non impallidisce di fronte allo sterminio. Resta ferma a
osservarti giocare.
Ma c’è anche chi si sente la guerra nel sangue,
come Alex, e tenta comunque di remare nella direzione opposta. Quando lo
conosciamo, Alex è solo un bambino. Quando lo conosciamo, Alex è già un
assassino. La guerra lo abita, lo ha scelto per abitarlo, ma Alex strepita, si
ribella e tenta di barattare un fucile con una carezza. Ma, quando porti la
morte così stampata in faccia, pochi sono in grado di sentire la tua richiesta
di aiuto.
La vita, però, può mostrarti ancora un’ora di
clemenza e farti incontrare Luca. Un giorno, per caso. O forse non per caso,
perché Luca è quello che avresti potuto essere tu, se solo avessi avuto la
bellezza – e non la guerra – ad abitarti. Luca e sua madre sono gli ultimi
adepti di un culto che fa dell’amore, delle parole, della bellezza le proprie
divinità personali. La madre di Luca ha inventato per Luca un mondo diverso,
glielo ha versato goccia a goccia nelle orecchie fin da bambino, glielo ha
stampato dentro con le parole di Andersen, di Salgari, degli altri, quelle
parole e quei libri che gli hanno fatto intravedere tutto un orizzonte di
valori altissimi e lontani, ma contro il quale la vita reale, ogni giorno più
brutale e insensata, cozza con un rimbombo terribile.
Luca è schietto, ingenuo, generoso. È tipo da
aspettarti sotto casa, se sei una ragazza che ama, e dirtelo proprio in faccia,
così semplicemente, ‘Ti amo’. È uno che non si vergogna di voler bene e di
dirlo. Non ha paura delle proprie sensazioni, dei propri sentimenti, qualsiasi
essi siano. Vuole sentire intensamente il dolore così come il piacere. Ma, più
di tutto, Luca vuole vivere. Vuole vivere tutto quello che il mondo ha da
dargli e aspetta che il mondo gli dia la sua occasione per farlo.
Il mondo, però, sembra non ascoltarlo. Il mondo
è un palcoscenico su cui due schieramenti o cento schieramenti si fanno la
guerra. E tutti vogliono ucciderti e uccidere senza che tu sappia il perché,
senza che nessuno ti spieghi che parte hai in tutto questo e perché è toccato
proprio a te vivere questo tempo. Perché la guerra? Chi è a volere la guerra?
Se l’amore ci riempie tanto e ci soddisfa, perché insistiamo nel combatterci,
nell’uccidere, nell’attingere a quei sentimenti che sono i peggiori? Perché io?
Sono queste le domande che ossessionano tutti i personaggi del romanzo, che si
rincorrono di bocca in bocca, di oceano in oceano. Nessuno sa dare una
risposta.
C’è poi una forma di guerra che è la più
sottile e raffinata. Una guerra combattuta in segreto, una guerra da donne. È
un conflitto di sensi tra il bisogno di essere amate e la paura di amare. È la
guerra di Giulia. « C’era un assioma
imprescindibile nella vita di Giulia, e quell’assioma era “non amare”. O meglio
“non amare nessuno che ti ami come o più di te stessa, non amare i genitori che
ti ameranno anche quando li odierai, non amare i fiori, non amare la pioggia,
il mare, la primavera, l’estate, la neve, la città, i sorrisi. Non amare i
baci, soprattutto i baci. Non amare mai le persone, perché poi amandole ci si
distrugge. È un piacere. Distruggersi. »
L’amore è come la guerra. Ti capita tra capo e
collo improvvisamente, senza che tu possa opporre resistenza o sentire che sei
tu a condurre il gioco. Sei a teatro, alzi gli occhi e all’improvviso non hai
più il controllo sulla tua esistenza. Perché non sei più sola. Non ti pensi più
scissa. Ti pensi insieme e questo è dipendere da qualcuno e morire un po’. La
resistenza partigiana, in amore, porta pochi frutti. Costringersi a non amare è
impossibile. L’unica cosa che abbia veramente senso è combattere: combattere
questo amore-guerra, dunque amare.
Se è vero che il romanzo presenta l’amore come
alternativa alla guerra, è anche vero che l’amore e la guerra continuamente
scivolano l’uno nei confini dell’altro. C’è guerra in amore – tutti contro
tutti, l’amico contro l’amico, pur di essere felici – come c’è amore in guerra.
Un bellissimo esempio lo troviamo nell’episodio
di Lidice, dove il 10 giugno 1942 uno squadrone nazista compì un’efferata
strage di civili.
Un ragazzo sta per essere giustiziato. Una
ragazza, quasi una bambina, si fa avanti per dirgli addio. Ed è con queste
righe che vorrei concludere, perché mi sembra che siano quelle che più
decisamente affermano un estremo tentativo di conciliazione, lo spirito
irriducibile dell’uomo che non si piega a essere strumento e vittima di un gioco
altrui, ma continuamente spera e crede di poter inventare un gioco le cui
regole siano finalmente umane.
Ci
vedremo dall’altra parte, le disse lui.
E lei,
che fino a quel momento non aveva creduto nel paradiso, disse, Ci deve per
forza essere la pace dopo la morte. E io e te saremo insieme in quella pace.
Di Chiara Pagliochini
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