« Il mondo non ha un nome, disse. I nomi
dei cerros e delle sierras e dei deserti esistono soltanto sulle carte
geografiche. Diamo loro un nome per non perdere l’orientamento. Tuttavia, quei
nomi li abbiamo coniati proprio perché avevamo perso l’orientamento. Non si può
perdere il mondo. Siamo noi il mondo. Ed è perché questi nomi e queste
coordinate sono frutto della nostra nominazione che non ci possono salvare. Non
sanno ritrovare per noi il cammino perduto. »
Tra tutti gli oggetti che ci circondano, l’oggetto-libro è
veramente il più strano. A vederlo, sembrerebbe un oggetto come un altro:
pagine, inchiostro, una rilegatura. A livello materiale, non è poi così diverso
da un sasso, una forchetta, una federa. Eppure un libro ha qualcosa che lo
rende diverso da tutti gli oggetti, che lo eleva al di sopra di essi, al di sopra
del materiale e dell’utile. Un libro, bello o brutto che sia, capolavoro o
spazzatura, è sempre un portale, un canale di comunicazione tra persone che non
potrebbero parlarsi in altro modo. Per un libro, lo spazio e il tempo non
esistono: non sono impedimenti alla parola. Il messaggio sopravvive e passa
sempre.
Ci sono poi quei libri che hanno un respiro, che palpitano e
sollevano il petto come creature viventi. Sono libri come cavalli o persone, la
cui essenza non può essere trattenuta, perché immateriale e incolore come la
vita. Quell’essenza che segna necessariamente il confine tra un sasso e una
libellula, tra freddo e caldo, morto e vivente. Ecco, ‘Oltre il confine’ è
oltre questo confine.
Potremmo dire, come fa la spiritosa copertina
dell’edizione Einaudi, che ‘Oltre il confine’ è “una storia avventurosa
attraverso la Frontiera”. Rileggere questa definizione, a posteriori, suona
perfino un po’ grottesco. Ma, se noi ci fermiamo e scindiamo l’enunciato nei
suoi costituenti, allora possiamo catturare qualcosa di vero.
– una
storia –
“Storia” è una parola che, particolarmente
nella nostra lingua, risulta estremamente malleabile. È “Storia” il succedersi
degli eventi nel tempo, date e luoghi e ricordi. È “storia” il racconto, “the
tale”, il succedersi delle parole in un intreccio coerente da recitare accanto
al fuoco per il piacere di un pubblico vicino o da trascrivere per il piacere
di un pubblico lontano. Le due accezioni di “storia” sono legate da un rapporto
che, ancora una volta, possiamo definire “storico”: ovvero, dacché c’è
“Storia”, c’è “storia”.
All’inizio non era il Verbo. All’inizio erano i
versi gutturali dei nostri predecessori. All’inizio era il fuoco, la caccia,
gli alberi. Poi i versi gutturali si sono fatti parola. Allora la parola ha
catturato il fuoco, la caccia e gli alberi, ha avuto il potere di definire e
imbrigliare, di riassumere, separare e legare. Poi la parola ha scoperto che,
legandosi a un’altra parola, diventava più forte. Le sequenze si sono fatte più
lunghe e più complesse. Era nata la “storia”, il racconto.
Io credo che il racconto e la capacità
narrativa siano il cuore di questo romanzo. ‘Oltre il confine’ è un racconto
della capacità di raccontare. È narrativa di narrativa. « Perché questo mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione
e sangue non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che
esso contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie
minori, eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il
resto. Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. È questa in fondo la
lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché,
vedi, non sappiamo dove stanno i fili, i collegamenti. Il modo in cui è fatto
il mondo. Non abbiamo modo di sapere quali sono le cose di cui si può fare a
meno. Ciò che può venire omesso. Non abbiamo modo di sapere che cosa può stare
in piedi e che cosa può cadere. E quei fili che ci sono ignoti fanno
naturalmente parte anch’essi della storia e la storia non ha dimora né luogo
d’essere se non nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi non possiamo mai
aver finito di raccontare. Non c’è mai fine al raccontare ».
In un luogo antico e controverso due viandanti
si incontrano. Condividono una strada, un focolare, poche provviste. E una
storia. Raccontare una storia, la propria storia o anche una storia inventata,
non è un modo per passare il tempo, ma per infondere se stessi in un’altra
persona, per insegnare o mettere in guardia. È una condivisione più intima e
generosa che l’offrire da mangiare. È il punto in cui scatta la scintilla del
contatto umano, ciò che distingue una persona dall’altra, ciò che davvero rimane
nella memoria.
Per questo non c’è da stupirsi se a Billy
Parham – che a diciassette anni è già perso in un vagabondaggio fisico e
spirituale – capita di raccogliere una storia da ciascuno. In un contesto
normale sembrerebbe assurdo: un personaggio che, a ogni piè sospinto, incontra
qualcuno con un’irriducibile voglia di chiacchierare. E non chiacchierare del
più e del meno, ma delle cose grandi, delle cose che non si possono definire né
imbrigliare compiutamente, perché infinitamente meno tangibili del fuoco, della
caccia e degli alberi: il Male, il Mondo, la Morte, Dio. O il Messico pullula
di filosofi o McCarthy è impegnato nella versione western del Decameron. Ma
nessuna delle due è vera. La verità è che non conta solo il contenuto del
racconto. È l’atto stesso del raccontare a essere centrale, la dedizione che
comporta, l’essere testimoni.
McCarthy rende omaggio e santifica ciò che
considera il nostro bisogno più intimo e umano. Ancora una volta, non lo
santifica solo col contenuto del racconto ma pure nella forma. Se isoliamo il
passaggio già citato dal suo contesto e lo leggiamo attentamente, sembra di
vedere in esso tanto una dichiarazione di poetica quanto una definizione del
suo stile. « Quindi tutto è necessario.
Ogni minimo particolare. È questa in fondo la lezione. Non si può fare a meno
di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché, vedi, non sappiamo dove stanno
i fili, i collegamenti ».
Nella scrittura di McCarthy è difficile isolare
l’essenziale dal superfluo. Tutto sembra parimente importante: lanciare il lazo
come discutere di Dio. A volte ci troviamo imbrogliati in sequenze di azioni
che non capiamo, che non riusciamo a visualizzare proprio perché troppo minute.
L’occhio di McCarthy sembra una telecamera che punta continuamente al dettaglio.
Quel dettaglio che al lettore non verrebbe mai in mente, quel dettaglio che uno
scrittore comune trascurerebbe. Quel dettaglio che ricrea un mondo completo,
puramente realistico, una finzione più vera del vero, in cui il lettore si
immerge, si perde, non capisce. Scrolla la testa e si chiede dove sia. Non
legge del Messico, non è in Messico: è il Messico.
Non è una cosa che si incontra tutti i giorni.
– avventurosa attraverso la Frontiera –
Questa seconda parte della definizione ci
conduce su un territorio già noto, un territorio che è quasi il paesaggio
interiore dello Scrittore Americano (inteso come categoria, non solo come
singolo). Il viaggio di formazione, l’error
e la frontiera sono elementi che ricorrono nella narrativa americana da
Mark Twain in qua. Cooper, Melville, Steinbeck, Kerouac, ma se ne possono
pensare molti altri.
Un ‘eroe’ parte per una ‘missione’. Intraprende
un ‘viaggio’ in un ‘mondo diverso dal suo’, dove affronterà delle ‘prove’,
incontrerà ‘aiutanti’ e ‘oppositori’. Dal ‘mondo altro’ egli deve riportare
qualcosa, una testimonianza o un ‘oggetto magico’ che rappresentano il
compimento della sua ‘ricerca’. Ma il possesso di questo oggetto di un altro
mondo renderà l’eroe per sempre un ‘diverso’, segnerà la sua ‘trasformazione’.
Il contatto con l’altro mondo non è molto dissimile da una discesa agli Inferi.
Si attraversa la frontiera, fisica e metaforica, da cui non si torna indietro
come si era. È un ‘viaggio di iniziazione’.
È lo schema del più classico dei racconti, la
fiaba. E cos’è la fiaba se non il racconto dei racconti, “lo cunto de li
cunti”? Il raccontare, ritorniamo sempre lì.
Ma facciamo un passo avanti. Quando leggiamo
uno scrittore americano, dobbiamo sempre tener presente tutta la storia di un
popolo e di una cultura. Un popolo che, dai Padri Pellegrini in avanti, ha il
viaggio nel sangue. Non un viaggio qualunque, ma un viaggio spirituale, una
missione, la ricerca di un luogo da chiamare proprio e sul quale edificare. Per
questo la corsa alla Frontiera, non soltanto per un bisogno di colonizzare: non
è solo la colonizzazione materiale ed economica che si cerca, ma l’imposizione
di sé, il sogno americano dell’affermarsi a colpi di Colt e versetti della Bibbia
per dimostrare che si è uomini abili ed eletti. Abili perché eletti, eletti
perché abili, non fa differenza.
Il mito della frontiera ne porta con sé un
altro, che è quello dell’eroe nel suo isolamento. È l’eroe dei film western,
che non si lega a nessuno, che combatte per una causa, vince, ma non si ferma
per ascoltare i ringraziamenti. È un eroe senza terra, un viandante, un
solitario.
Che cosa troviamo di tutto questo in McCarthy?
Molto o niente o tutto ma in modo diverso.
Billy Parham si sceglie un destino da
senza-terra per nessun motivo particolare. Un attimo prima ha un obiettivo,
l’attimo dopo l’obiettivo è sovvertito. Quando i suoi occhi si fissano in
quella della lupa, non sappiamo che cosa accada. Non sappiamo perché a un certo
punto volti il cavallo e, invece di tornare dal padre, decida di attraversare
la frontiera per riportarla a casa. Riportare
una lupa a casa, come se un animale avesse una casa di mattoni, con una
staccionata e un camino. È un’impresa folle e ineffabile alla quale il lettore
assiste con un cuore traboccante di umanità. Un’umanità che contagia e lega
tutti indistintamente: è umana la lupa, sono umani i cavalli, le gru, i burros,
è umano il fiume, umana la polvere, umano il fuoco. Nel mondo di McCarthy, non
c’è una forma di vita che valga meno delle altre.
Quella frontiera Billy la attraverserà altre
due volte: la seconda, in compagnia del fratello Boyd, per cercare i cavalli
rubati dal ranch del padre; la terza, di nuovo solo, per cercare il fratello
Boyd, come risucchiato da quella terra. «
È il mio terzo viaggio » dirà alla fine «
ma è la prima volta che trovo quello che cerco. Ma le garantisco che non era
quello che volevo ».
La verità, secondo me, è che non si sa mai bene
quello che si cerca. E spesso quello che si trova è spaventoso e non
corrisponde a quello che si pensava di cercare. Il viaggio è fatto per trovare,
ma soprattutto è fatto di perdersi. E si trova e ci si perde, si trova e ci si
perde, come un cavallo che procede a zigzag lungo una strada diritta.
È la condizione dell’uomo come eterno viandante
e peregrino, le cui tracce su questa terra passano sempre lievissime. La vita
del singolo è giusto un transitare. I segni del nostro passaggio non si vedono.
Restiamo nel cuore e nella memoria di chi ci ha amato. Ma poi anche quelli
muoiono e allora il ricordo è destinato a perdersi per sempre. Il mondo
dimentica. E non c’è pietra, non c’è monumento da opporre alla forza devastante
del tempo. Perché tutto, prima o poi, verrà macinato nella ruota grande
dell’oblio.
È un destino che non si può combattere. Ci si
deve arrendere. Bisogna accettare. Ma, per il tempo che abbiamo, non bisogna
mai smettere di cercare quel luogo, quell’oggetto che ci fanno star bene, che
ci fanno sentire vivi. Anche se continuamente siamo immersi in una disperazione
e in una solitudine immense, che non risparmiano animali né piante né cielo. « C’è solo una vita che vale la pena vivere
e io sono nato proprio in quella. E quella vale tutto il resto ».
Leggete questo romanzo. Leggetelo come “una
storia avventurosa attraverso la Frontiera” o come “una storia” – “avventurosa attraverso
la Frontiera”. Oppure leggetelo come volete voi, stabilite un rapporto che sia
soltanto il vostro. Se non c’è mai fine al raccontare, neanche all’ascoltare ce
n’è.
Di Chiara Pagliochini
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