sabato 21 luglio 2012

Oltre il confine, Cormac McCarthy



« Il mondo non ha un nome, disse. I nomi dei cerros e delle sierras e dei deserti esistono soltanto sulle carte geografiche. Diamo loro un nome per non perdere l’orientamento. Tuttavia, quei nomi li abbiamo coniati proprio perché avevamo perso l’orientamento. Non si può perdere il mondo. Siamo noi il mondo. Ed è perché questi nomi e queste coordinate sono frutto della nostra nominazione che non ci possono salvare. Non sanno ritrovare per noi il cammino perduto. »

Tra tutti gli oggetti che ci circondano, l’oggetto-libro è veramente il più strano. A vederlo, sembrerebbe un oggetto come un altro: pagine, inchiostro, una rilegatura. A livello materiale, non è poi così diverso da un sasso, una forchetta, una federa. Eppure un libro ha qualcosa che lo rende diverso da tutti gli oggetti, che lo eleva al di sopra di essi, al di sopra del materiale e dell’utile. Un libro, bello o brutto che sia, capolavoro o spazzatura, è sempre un portale, un canale di comunicazione tra persone che non potrebbero parlarsi in altro modo. Per un libro, lo spazio e il tempo non esistono: non sono impedimenti alla parola. Il messaggio sopravvive e passa sempre.
Ci sono poi quei libri che hanno un respiro, che palpitano e sollevano il petto come creature viventi. Sono libri come cavalli o persone, la cui essenza non può essere trattenuta, perché immateriale e incolore come la vita. Quell’essenza che segna necessariamente il confine tra un sasso e una libellula, tra freddo e caldo, morto e vivente. Ecco, ‘Oltre il confine’ è oltre questo confine.

Potremmo dire, come fa la spiritosa copertina dell’edizione Einaudi, che ‘Oltre il confine’ è “una storia avventurosa attraverso la Frontiera”. Rileggere questa definizione, a posteriori, suona perfino un po’ grottesco. Ma, se noi ci fermiamo e scindiamo l’enunciato nei suoi costituenti, allora possiamo catturare qualcosa di vero.

– una storia –
“Storia” è una parola che, particolarmente nella nostra lingua, risulta estremamente malleabile. È “Storia” il succedersi degli eventi nel tempo, date e luoghi e ricordi. È “storia” il racconto, “the tale”, il succedersi delle parole in un intreccio coerente da recitare accanto al fuoco per il piacere di un pubblico vicino o da trascrivere per il piacere di un pubblico lontano. Le due accezioni di “storia” sono legate da un rapporto che, ancora una volta, possiamo definire “storico”: ovvero, dacché c’è “Storia”, c’è “storia”.
All’inizio non era il Verbo. All’inizio erano i versi gutturali dei nostri predecessori. All’inizio era il fuoco, la caccia, gli alberi. Poi i versi gutturali si sono fatti parola. Allora la parola ha catturato il fuoco, la caccia e gli alberi, ha avuto il potere di definire e imbrigliare, di riassumere, separare e legare. Poi la parola ha scoperto che, legandosi a un’altra parola, diventava più forte. Le sequenze si sono fatte più lunghe e più complesse. Era nata la “storia”, il racconto.
Io credo che il racconto e la capacità narrativa siano il cuore di questo romanzo. ‘Oltre il confine’ è un racconto della capacità di raccontare. È narrativa di narrativa. « Perché questo mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione e sangue non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori, eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto. Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. È questa in fondo la lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché, vedi, non sappiamo dove stanno i fili, i collegamenti. Il modo in cui è fatto il mondo. Non abbiamo modo di sapere quali sono le cose di cui si può fare a meno. Ciò che può venire omesso. Non abbiamo modo di sapere che cosa può stare in piedi e che cosa può cadere. E quei fili che ci sono ignoti fanno naturalmente parte anch’essi della storia e la storia non ha dimora né luogo d’essere se non nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi non possiamo mai aver finito di raccontare. Non c’è mai fine al raccontare ».
In un luogo antico e controverso due viandanti si incontrano. Condividono una strada, un focolare, poche provviste. E una storia. Raccontare una storia, la propria storia o anche una storia inventata, non è un modo per passare il tempo, ma per infondere se stessi in un’altra persona, per insegnare o mettere in guardia. È una condivisione più intima e generosa che l’offrire da mangiare. È il punto in cui scatta la scintilla del contatto umano, ciò che distingue una persona dall’altra, ciò che davvero rimane nella memoria.
Per questo non c’è da stupirsi se a Billy Parham – che a diciassette anni è già perso in un vagabondaggio fisico e spirituale – capita di raccogliere una storia da ciascuno. In un contesto normale sembrerebbe assurdo: un personaggio che, a ogni piè sospinto, incontra qualcuno con un’irriducibile voglia di chiacchierare. E non chiacchierare del più e del meno, ma delle cose grandi, delle cose che non si possono definire né imbrigliare compiutamente, perché infinitamente meno tangibili del fuoco, della caccia e degli alberi: il Male, il Mondo, la Morte, Dio. O il Messico pullula di filosofi o McCarthy è impegnato nella versione western del Decameron. Ma nessuna delle due è vera. La verità è che non conta solo il contenuto del racconto. È l’atto stesso del raccontare a essere centrale, la dedizione che comporta, l’essere testimoni.
McCarthy rende omaggio e santifica ciò che considera il nostro bisogno più intimo e umano. Ancora una volta, non lo santifica solo col contenuto del racconto ma pure nella forma. Se isoliamo il passaggio già citato dal suo contesto e lo leggiamo attentamente, sembra di vedere in esso tanto una dichiarazione di poetica quanto una definizione del suo stile. « Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. È questa in fondo la lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché, vedi, non sappiamo dove stanno i fili, i collegamenti ».
Nella scrittura di McCarthy è difficile isolare l’essenziale dal superfluo. Tutto sembra parimente importante: lanciare il lazo come discutere di Dio. A volte ci troviamo imbrogliati in sequenze di azioni che non capiamo, che non riusciamo a visualizzare proprio perché troppo minute. L’occhio di McCarthy sembra una telecamera che punta continuamente al dettaglio. Quel dettaglio che al lettore non verrebbe mai in mente, quel dettaglio che uno scrittore comune trascurerebbe. Quel dettaglio che ricrea un mondo completo, puramente realistico, una finzione più vera del vero, in cui il lettore si immerge, si perde, non capisce. Scrolla la testa e si chiede dove sia. Non legge del Messico, non è in Messico: è il Messico.
Non è una cosa che si incontra tutti i giorni.

 – avventurosa attraverso la Frontiera –
Questa seconda parte della definizione ci conduce su un territorio già noto, un territorio che è quasi il paesaggio interiore dello Scrittore Americano (inteso come categoria, non solo come singolo). Il viaggio di formazione, l’error e la frontiera sono elementi che ricorrono nella narrativa americana da Mark Twain in qua. Cooper, Melville, Steinbeck, Kerouac, ma se ne possono pensare molti altri.
Un ‘eroe’ parte per una ‘missione’. Intraprende un ‘viaggio’ in un ‘mondo diverso dal suo’, dove affronterà delle ‘prove’, incontrerà ‘aiutanti’ e ‘oppositori’. Dal ‘mondo altro’ egli deve riportare qualcosa, una testimonianza o un ‘oggetto magico’ che rappresentano il compimento della sua ‘ricerca’. Ma il possesso di questo oggetto di un altro mondo renderà l’eroe per sempre un ‘diverso’, segnerà la sua ‘trasformazione’. Il contatto con l’altro mondo non è molto dissimile da una discesa agli Inferi. Si attraversa la frontiera, fisica e metaforica, da cui non si torna indietro come si era. È un ‘viaggio di iniziazione’.
È lo schema del più classico dei racconti, la fiaba. E cos’è la fiaba se non il racconto dei racconti, “lo cunto de li cunti”? Il raccontare, ritorniamo sempre lì.

Ma facciamo un passo avanti. Quando leggiamo uno scrittore americano, dobbiamo sempre tener presente tutta la storia di un popolo e di una cultura. Un popolo che, dai Padri Pellegrini in avanti, ha il viaggio nel sangue. Non un viaggio qualunque, ma un viaggio spirituale, una missione, la ricerca di un luogo da chiamare proprio e sul quale edificare. Per questo la corsa alla Frontiera, non soltanto per un bisogno di colonizzare: non è solo la colonizzazione materiale ed economica che si cerca, ma l’imposizione di sé, il sogno americano dell’affermarsi a colpi di Colt e versetti della Bibbia per dimostrare che si è uomini abili ed eletti. Abili perché eletti, eletti perché abili, non fa differenza.
Il mito della frontiera ne porta con sé un altro, che è quello dell’eroe nel suo isolamento. È l’eroe dei film western, che non si lega a nessuno, che combatte per una causa, vince, ma non si ferma per ascoltare i ringraziamenti. È un eroe senza terra, un viandante, un solitario.

Che cosa troviamo di tutto questo in McCarthy?
Molto o niente o tutto ma in modo diverso.
Billy Parham si sceglie un destino da senza-terra per nessun motivo particolare. Un attimo prima ha un obiettivo, l’attimo dopo l’obiettivo è sovvertito. Quando i suoi occhi si fissano in quella della lupa, non sappiamo che cosa accada. Non sappiamo perché a un certo punto volti il cavallo e, invece di tornare dal padre, decida di attraversare la frontiera per riportarla a casa. Riportare una lupa a casa, come se un animale avesse una casa di mattoni, con una staccionata e un camino. È un’impresa folle e ineffabile alla quale il lettore assiste con un cuore traboccante di umanità. Un’umanità che contagia e lega tutti indistintamente: è umana la lupa, sono umani i cavalli, le gru, i burros, è umano il fiume, umana la polvere, umano il fuoco. Nel mondo di McCarthy, non c’è una forma di vita che valga meno delle altre.
Quella frontiera Billy la attraverserà altre due volte: la seconda, in compagnia del fratello Boyd, per cercare i cavalli rubati dal ranch del padre; la terza, di nuovo solo, per cercare il fratello Boyd, come risucchiato da quella terra. « È il mio terzo viaggio » dirà alla fine « ma è la prima volta che trovo quello che cerco. Ma le garantisco che non era quello che volevo ».
La verità, secondo me, è che non si sa mai bene quello che si cerca. E spesso quello che si trova è spaventoso e non corrisponde a quello che si pensava di cercare. Il viaggio è fatto per trovare, ma soprattutto è fatto di perdersi. E si trova e ci si perde, si trova e ci si perde, come un cavallo che procede a zigzag lungo una strada diritta.
È la condizione dell’uomo come eterno viandante e peregrino, le cui tracce su questa terra passano sempre lievissime. La vita del singolo è giusto un transitare. I segni del nostro passaggio non si vedono. Restiamo nel cuore e nella memoria di chi ci ha amato. Ma poi anche quelli muoiono e allora il ricordo è destinato a perdersi per sempre. Il mondo dimentica. E non c’è pietra, non c’è monumento da opporre alla forza devastante del tempo. Perché tutto, prima o poi, verrà macinato nella ruota grande dell’oblio.
È un destino che non si può combattere. Ci si deve arrendere. Bisogna accettare. Ma, per il tempo che abbiamo, non bisogna mai smettere di cercare quel luogo, quell’oggetto che ci fanno star bene, che ci fanno sentire vivi. Anche se continuamente siamo immersi in una disperazione e in una solitudine immense, che non risparmiano animali né piante né cielo. « C’è solo una vita che vale la pena vivere e io sono nato proprio in quella. E quella vale tutto il resto ».

Leggete questo romanzo. Leggetelo come “una storia avventurosa attraverso la Frontiera” o come “una storia” – “avventurosa attraverso la Frontiera”. Oppure leggetelo come volete voi, stabilite un rapporto che sia soltanto il vostro. Se non c’è mai fine al raccontare, neanche all’ascoltare ce n’è. 

Di Chiara Pagliochini

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