giovedì 12 gennaio 2012

Il giardino dei ciliegi, Anton Čechov


“Perché io sono nata qui, qui sono vissuti mio padre e mia madre, mio nonno, io amo questa casa, senza il giardino dei ciliegi io non capisco più niente della mia vita, e se è proprio necessario venderlo, allora vendete anche me insieme al giardino.”
Credo che questa – anzi, ne sono certa – sia la prima opera per il teatro che leggo in vita mia. L’approccio, lo debbo dire, è stato dei più foschi e ammantati di pregiudizio. Ho sempre pensato – e ancora non sono del tutto immune dal pensiero – che i testi teatrali siano una sorta di scheletro che a leggerlo si ricava la metà del loro valore. Se questo è vero, è vero anche che la metà di un grande valore è pur sempre un grande valore. E questo testo di Čechov (peraltro in una edizione splendida ed esaustiva) è magnifico.
Scrive Giorgio Strehler, che lo rappresentò a teatro nel ’74, che Il giardino è come un gioco di scatole cinesi. Ci sono tre scatole e ognuna contiene l’altra. La scatola più piccola, quella che è contenuta, è la scatola della vita quotidiana, dei personaggi in scena con le loro battute tipiche, i loro tic, i loro piccoli drammi esistenziali. La seconda scatola è quella della Storia, che interpreta il testo in termini di passaggio di proprietà, della decadenza della vecchia classe aristocratica e dell’emergere di nuove forze politiche, una sorta di anticipazione della Rivoluzione d’Ottobre. La terza scatola, la più grande, è quella dell’Umanità, con i suoi temi eterni: la morte, il dolore, l’infanzia perduta, l’inesorabilità del tempo, la vita mancata. Il giardino dei ciliegi è tutte e tre le scatole, ed è questo che ne fa un’opera di grande valore.
La vicenda ruota intorno a una vecchia casa che sta per andare all’asta. La proprietaria, Liubov, donna molto elegante, spendacciona, ma anche generosa e capace di grandi slanci, vi fa ritorno dopo cinque anni di assenza e ritrova tante cose che appartengono al suo passato, alla sua vita di madre e di donna sposata. Ritrova la “stanza dei bambini”, il grande armadio di cent’anni, le persone che conosceva e son cresciute e soprattutto il giardino dei ciliegi, che sembra esistere da sempre e fiorire in ogni stagione. Il giardino è simbolo di tutto ciò che c’è di caro al mondo, di quel che è radicato in noi, del posto da cui veniamo e che prima o poi, strappati dal caso o dalla violenza oppure di nostra volontà, dobbiamo abbandonare. Intorno a Liubov ruotano tanti personaggi incantevoli e fragili: le figlie Ania e Varia, la prima così proiettata verso il futuro, l’altra così incerta su quello stesso futuro; il fratello Gaiev, che parla sempre a sproposito; il servitore Firs, che è vecchio quanto il giardino; Duniascia, la cameriera innamorata che si incipria sempre il naso; Iascia, lo sprezzante valletto che all’estero s’è abituato alla bella vita; il contabile Iepichodov, che tiene sempre un revolver in tasca; la governante Charlotta, che non sa da dove viene ma conosce incredibili giochi di prestigio; l’eterno studente Trofimov, che contempla sempre la felicità ma non sembra che a parole ci si avvicini poi molto; il rampante Lopachin, contadino arricchito che rileverà la proprietà dei suoi stessi ex padroni e che farà calare l’ascia proprio sul tronco di quei ciliegi.
Chi vorrà restare? Chi troverà il coraggio di andare avanti? Chi accetterà che la ruota del progresso si muove e non si incaglia mai? Impossibile stabilire cosa pensasse Čechov di quei ciliegi, se in lui ci sia più nostalgia per quei colpi di scure o più speranza per un mondo che viene. I fatti parlano da sé e così dev’essere, e sta allo spettatore o al lettore decidere se piangere o ridere di quel che vede in scena.
Čechov fu certo uno scrittore sorprendente e lui stesso, di sorprese, dovette vederne un bel po’. I suoi testi, che si supponevano umoristici, finivano per far piangere gli attori alla prima lettura. E anche il pubblico, alla fine delle rappresentazioni, era tutto una lacrima. “Voi vi lamentate che i miei personaggi siano tristi e cupi! Ahimè, non è colpa mia! Questo avviene contro la mia volontà; quando scrivo, a me non pare di scrivere cose tristi, e comunque, quando lavoro, sono sempre di ottimo umore. Ma provate a osservare, e vedrete che gli uomini malinconici scrivono sempre cose allegre, e quelli che sono allegri nella vita fanno venire invece la malinconia!” Ecco, non è un uomo da sposare? E non è uno scrittore da ammirare e prendere a esempio uno il cui maggiore fine artistico è voler combinare in una stessa opera commedia e tragedia? Perché la vita non è solo una tragedia, come non è soltanto una commedia. La vita è una commistione in parti casuali di elementi tragici e comici e, se un buon libro deve rassomigliare alla vita, allora è giusto principio che ci entrino entrambi.

Di Chiara Pagliochini

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