domenica 22 gennaio 2012

L'agenzia dei suicidi. Cap.19


Un Chien Andalou (1929) - Luis Buñuel

Quando mi svegliai, c’era puzza di polvere. Restai qualche secondo ad occhi chiusi, sforzandomi di pensare. Il primo pensiero che mi veniva era Irene, per cui lo mandai via e sollevai le palpebre. Intorno, una stanza che non riconoscevo.
Ero sdraiato su un divano molto rigido, la testa premuta su un cuscino. Fino alla bocca mi copriva un plaid con una fantasia scozzese, rosso, bianco e blu. Era quello a puzzare. Mi drizzai a sedere e feci scivolare via il plaid. Fissai le pareti gialline, un quadro con una violetta secca. Davanti al divano, un televisore al plasma; sotto, un tappeto con un brutto disegno. Da una stanza alla mia destra proveniva un fiotto di luce, che staccava nettamente i bordi dell’ingresso.
Dopo l’odore della polvere, quello del caffè. Ma il mio stomaco, disgustato da entrambi, si serrava in una morsa dolorosa e qualcosa di indefinito e molto acre tornava su dalla gola. Trattenni il conato, chiusi di nuovo gli occhi, riappoggiai la testa sul cuscino.
Avevo bevuto troppo, questo lo ricordavo. Forse ero a casa di Greta. Questo non lo sapevo, ricordavo soltanto la sua faccia, staccata di netto come la luce staccava la soglia. Una faccia salvifica e bianca. Ma potevo anche essere a casa di Ascanio, per quanto ne sapevo. Questione di minuti e l’avrei scoperto, non c’era bisogno di dannarsi.
Nel mio buio silenzioso si affacciò uno scalpiccio di ciabatte. Aprii gli occhi, senza alzare la testa né tentare di sollevarmi. Greta era a pochi passi dal divano, i capelli legati, gli occhi tondi evidenziati da occhiaie e una felpa arancione. Non portava gli occhiali e non era truccata. In mano aveva una tazza di coccio da cui si levava un refolo di fumo.
« Buongiorno » disse, in un tono che voleva trasmettere insieme buon umore e pacatezza.
Lentamente raccolsi le gambe e mi rizzai contro lo schienale, per farle spazio sul divano. Greta sedette con uno sbadiglio.
« Dormito bene? »
« Un po’ duretto. Ma bene, grazie. Anzi, grazie. »
« Figurati » Greta si strinse nelle spalle e mi fissò coi grossi occhi circolari. Se li avessi guardati abbastanza a lungo e con sufficiente intensità, quegli occhi avrebbero detto da soli tutto quello che dovevano dire. Certe volte pensavo che, se mi fossi soffermato ad osservarli, una spirale dal fondo dell’iride mi avrebbe risucchiato. Non perché fossero begli occhi, questo no. Ma erano così rotondi che ci si potevano immaginare dentro le cose, così rotondi che era come spiare da una serratura dentro un vuoto ipnotico e vorticante. Sapevano leggere. E io non volevo trovarci me stesso interpretato. Perciò distolsi lo sguardo.
« Mi dispiace » aggiunsi. Ma sapevo di non essere convincente e dubitavo di dovermi realmente scusare.
« Non è un problema. Mi fa piacere che servo a qualcosa. Io non so se posso considerarmi un’amica, ma penso che è a questo che servono gli amici. Uno li chiama nel momento del bisogno. E se posso essere di aiuto, io sono contenta. E poi quell’Ascanio mi è sembrato un tipo a posto, un ragazzo simpatico. »
« Lo è. È un bravo ragazzo. »
« È buffo. Era convinto che ti chiamassi Ryan. All’inizio non capivo bene di chi parlasse. Ma poi il numero, il fatto che sembrava preoccupato… so riconoscere le persone dalle voci e la sua non era una voce da maniaco. Nossignori, un bravo ragazzo. »
« Buffo? »
« Molto buffo. Che nome orribile hai scelto. Eri davvero molto ubriaco. »
Come la spieghi a chi ti conosce, a un’amica, tutta la piega che la tua vita ha preso da mesi a questa parte, senza che lei abbia avuto il minimo sospetto? Come glielo spieghi che Ryan non è una cosa che ti sei inventato lì per lì, ma è un gioco improvvisamente diventato serio, un personaggio diventato persona, una maschera diventata pelle? Come glielo spieghi che non conosci altro nome che Ryan, perché Ryan è come ti chiamano le persone che ami? Non sei mai stato un altro. Sei sempre stato quest’uomo dal nome buffo e orribile, un uomo senza passato e senza futuro, che vive le vite di altri per avere un presente.
« Veramente orribile. »
« Vuoi del caffè? »
Guardai la sua tazza fumare, sfumare in una lieve inconsistenza vaporosa. Anche i connotati del suo viso sembravano disciolti, allentati. C’era qualcosa nella mia testa che ancora non funzionava per il verso giusto.
« No, grazie. Forse più tardi. »
« Bene. Un’altra coperta? Qualcosa da mangiare? »
« No, grazie. »
Greta separò le labbra per parlare. Mi gettò un altro sguardo, temerario. Riabbassò gli occhi e posò le mani in grembo con un’aria di sconsolatezza. Sembrava irrigidita.
« C’è qualcosa di cui vuoi parlarmi? » domandò, senza guardarmi.
C’era qualcosa di cui volevo parlarle? C’era qualcosa di cui volessi parlare? Tante, troppe cose, nessuna comprensibile, così poco chiare anche a me stesso, fasci di sensazioni nervose e spirituali e un’atmosfera, un sapore di decadenza, di marcio, di cui non si poteva dire niente.
« Io non… saprei da dove cominciare. »
« Non devi farlo per forza. »
« Ma posso dirtelo lo stesso? »
« Ti ascolto. »
E mi ascoltò davvero. Ascoltò parola per parola con gli occhi spalancati come bottiglie stappate, proprio come se vedesse quel che dicevo, proprio come se i suoi occhi servissero ad ascoltare.
Parlai di Ascanio, di che bravo ragazzo fosse. Le parlai di Jane, che era quasi la sua fidanzata, e sono sicuro fosse una ragazza altrettanto brava. Le raccontai di quando l’avevo visto per la prima volta coi capelli corti e non l’avevo riconosciuto, di come gli amici lo avessero piantato in asso e di come si cambia da un giorno all’altro solo perché sei rimasto solo. Le raccontai delle scorticature che aveva sulle braccia:
« Dal polso lungo tutto l’avambraccio, saranno una decina. »
Le raccontai delle cicatrici nascoste dall’arco sopraccigliare e dei lobi delle orecchie, che se li guardavi erano ancora tutti flosci.
« Ma è un ragazzo molto gentile. E anche molto intelligente. »
Poi Greta mi chiese come lo avevo conosciuto e fu a questo punto che qualcosa cominciò a declinare. L’avvertii dapprima come una stortura, poi più nettamente come uno screpolarsi, il grattare via una crosticina con l’unghia. Fu allora, per la prima volta, che nominai l’agenzia. Non ne avevo mai parlato con qualcuno che non fossero i miei compagni e Ryanair ed era sorprendente quanto fossero inadeguate le parole che conoscevo.
« Una specie di agenzia per… suicidi. »
A questo punto Greta si volse bruscamente e mi degnò di un’occhiata davvero raggelante.
« Suicidi » ripeté, come se non avesse capito.
« Aspiranti suicidi » mi corressi.
Raccontai di quando avevo visto l’annuncio per la prima volta. Ero stanco, abbattuto, avevo avuto una giornata storta. Mi sentivo vecchio, solo, inutile, una cosa su un divano che aspetta la morte. Allora avevo preso la cornetta pensando di trovare all’altro capo una voce amica, ma era stato tutto un po’ diverso. Avevo pensato che potessero curarmi dalla depressione, invece l’avevano scambiata per un’altra cosa.
« È stato tutto un equivoco. »
Io, però, non avevo pensato di chiarirlo e anzi m’ero detto che tanto valeva saltare in quella pozzanghera, visto che ormai c’ero finito dentro. Era stato un caso, ma io non credo nel caso e neanche credevo che ci fosse qualcosa di male nell’essere parte di un disegno. Mi ero ritagliato un ruolo a forza di piccole bugie, senza mai rinnegare me stesso:
« Perché non sono capace di mentire. E mi sono comportato come sempre, anche se di suicidarmi non mi importa niente. »
Sulle prime, mi erano sembrati un branco di cretini patentati, di splendidi fantocci, Iris e Eugenio e Cassandra e persino il piccolo Ascanio, così pieni di tic e di stereotipi e così finti nel loro dichiarato desiderio di morte. Tutta gente che era troppo codarda per vivere e che non aveva altro posto dove andare.
Ma poi avevo incontrato lei:
« Irene. »
E allora qualche cosa era cambiato.
Ero cambiato io, ma lentamente. All’inizio stentavo a riconoscerlo e attribuivo il tutto ad una curiosità insana e malcelata. Irene era una specie di rebus da decifrare, con un suo sistema crittografico, ed era così difficile e così restia all’interpretazione che chiunque sarebbe uscito di testa.
« Volevo capirla perché non potevo capirla. Capisci? »
Ma in realtà Irene non era un rebus neanche un po’. Era una persona e le persone non sono mai chiare e decifrabili in modo univoco. Irene ci aveva provato a spiegarsi e io avevo provato ad ascoltarla, ma non ci eravamo capiti, perché parlavamo due lingue diverse. Lei era più intelligente di me, aveva più cultura ed era giovane, tutte cose che me la rendevano molto lontana. Io avevo dalla mia una limitata esperienza del mondo, la conoscenza dei meccanismi biologici e delle sensazioni più elementari, ma la parte che aveva lei – la filosofia – non l’avevo avuta mai. E così lei parlava di solitudine, e io vedevo una persona sola. Lei parlava di amore, e io pensavo di andare a letto insieme. Lei parlava di ammazzarsi, e io vedevo una ragazzina depressa cui mai nessuno aveva detto che era bella. Non lo era, non era bella, ma questo non era un buon motivo per non dirglielo. Irene parlava sempre per astrazione e io rispondevo sempre concretamente, perché abitavamo su due sponde opposte e avevamo conoscenze diverse. E invece di integrare le nostre conoscenze, queste non facevano che dividerci e farci arrabbiare.
« Lei vuole affogarsi. Quindi abbiamo litigato. »
Io non volevo che morisse. Non avevo nulla in contrario all’idea di lei che si uccideva: era una creatura inadatta alla vita e ogni cosa che faceva e che diceva non poteva che confermare la sua teoria. Non avevo nulla in contrario all’idea di lei che si uccideva, solo non volevo che morisse. E questa era una delle contraddizioni più buffe e orribili a cui avessi mai pensato. Avrebbe potuto uccidersi, se avesse potuto non morire. Ma non era possibile, ed era questo il dramma. Io volevo la mia Irene viva, la parte che mi piaceva, la parte in cui era una ragazza sola con un macabro senso dell’umorismo, quei modi scontrosi, gli occhi espressivi, l’Irene che premeva i croccantini nella pattumiera, l’Irene che correva brilla attraverso la piazza, l’Irene che mi faceva distendere sul letto mentre lei parlava. E se solo avesse potuto uccidersi ma anche rimanere insieme a me, io avrei fatto di tutto per accontentarla. Volevo che fosse felice. Volevo essere felice anch’io. Le due cose non andavano d’accordo in alcun modo.
« Ma poi non è vero. C’è un modo. »
C’era un modo, c’era un mondo in cui le due cose sarebbero andate d’accordo, ma certe volte pensavo che fosse al di là della mia portata. Se solo avessi voluto uccidermi anch’io, ecco che saremmo stati insieme. Se lei voleva uccidersi, forse in quell’idea c’era una componente di splendore che io non potevo vedere né capire. Ma Irene era più intelligente di me: se quella parte di bellezza c’era, lei l’aveva vista. Quindi la morte era una cosa bella. Se Irene amava la morte, ecco che per amare Irene dovevo amarla anch’io. Una volta mi ero detto che per capire Irene dovevo interessarmi di quel che lei si interessava. Ed ecco la risposta, dunque:
« La morte. Morire. »
Tutto era diventato più chiaro. Tutto era leggibile. Tutto era cambiato. Quella gente non era più una cricca di matti destinati a soccombere agli insulti della vita, bensì un gruppo di rivoluzionari, di illuminati, gente che rifiutava tutti i soliti orpelli, che costruiva nuovi criteri e nuovi strumenti, un modo d’essere altro. Così non dovevo avere più paura. Non dovevo avere paura ogni volta che aprivo il cassetto, al mattino, e restavo a guardare la luce riflessa sulla lama di un lungo coltello. Non c’era niente di sconveniente e di sadico. Niente di quel che mi avevano insegnato era vero. La vita? Cos’era rispetto al brillio di quel coltello? E nell’idea di una morte pirotecnica, simbolica, non c’era forse molta più grazia di quanta ce ne fosse in cinquant’anni di vita? Era una soluzione di garbo. Era una soluzione pulita. La Chiesa e i dottori e i parenti se ne potevano andare affanculo. Le loro piccole moralità sulla cura e l’essere felici, le porcate del sabato sera, le vaccate degli analisti. Si poteva fare un fascio di tutto e dare fuoco alla pira per accendersi la vita, per brillare in un attimo di tutta la brillantezza che la vita stessa ci negava.
Ecco, ecco, io avevo capito.
« Ho capito! »
« Cosa? »
Lo sguardo di Greta era languido e spossato. Forse non credeva a una sola parola. Forse si stava pentendo di avermi raccolto dalla strada.
Ma non mi importava più cosa pensava Greta, perché non stavo pensando a lei. No, non pensavo a lei e neanche a Irene, ma pensavo ad Iris, e in quel momento la sua treccia girata da una parte sulla spalla era un appiglio a cui potevo aggrapparmi per salire. Iris coi suoi occhi di ghiaccio. Iris che era il punto dal quale partiva tutto, dal quale partivamo noi, Iris enigmatica, sicura, Iris di granito. Tutto riportava a Iris per vie traverse che non avevo mai percorso, perché erano sempre state così buie. Iris che mi portava via Irene e portava via me stesso, e in un certo senso ci ricomponeva insieme da un’altra parte. Nella morte? Era un pensiero così buffo, così ridicolo da formulare sul divano di Greta, col suo caffè che si era freddato e le guance sempre più livide.
« Devi smettere di frequentare questa gente » disse all’improvviso, come riscuotendosi da un torpore.
Io scossi la testa. Il suono della sua voce mi aveva distratto e mi aveva riportato accanto a lei, in quella stanza, dove era tutto così solido.
« Sei molto strano. Ho paura che ti succeda qualcosa di male. Non voglio. Sei una brava persona. Non permettere che ti facciano del male. »
« Stai tranquilla. Non fare caso a quello che dico. »
« Vuoi un caffè? »
Mi offriva di nuovo un caffè, come se non sapesse opporre altra resistenza a tutto quello che le avevo rovesciato addosso. E d’altronde che resistenza si può offrire se non questa – la resistenza di un oggetto inerte, di una parola concreta, di una persona imbecille – quando cose più grosse di te fanno irruzione nel tessuto della vita? Oh, ma com’ero diventato poetico. Oh, che paroloni, che intelligenza sopraffina. Stavo proprio diventando un suicida provetto.

Di Chiara Pagliochini

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