lunedì 2 gennaio 2012

L'agenzia dei suicidi. Cap.17


Egon Schiele, 1914

Il suicidio di Irene consisteva in questo, che prima dovevano drogarla di sonniferi e poi poggiarla nuda in una vasca traboccante d’acqua e lì lasciarla bella paciosa ad affogare. La dose di sonnifero non doveva essere eccessiva, altrimenti l’avrebbe uccisa prima dell’acqua, e Irene non voleva che il sonno l’avesse vinta sul soffocamento. Tutto questo avrebbe dovuto imitare due suicidi della sua galleria, che erano
« Pavese, quello che s’è ammazzato col sonnifero. »
e
« Virginia, quella che è annegata in un torrente. »
Facendo così, avrebbe riunito nella morte due dei suoi miti più cari, che si sarebbero incontrati e fusi in lei come in un ultimo abbraccio, e Irene doveva essere il veicolo di un messaggio di liberazione e di riappacificazione. Doveva simboleggiare il fatto
« che possiamo morire quando vogliamo. »
Doveva simboleggiare il fatto
« che non dobbiamo essere felici per forza. »
Doveva simboleggiare il fatto
« che la nostra è una ribellione, una presa di posizione, una testata nella pancia della vita. »
Irene tutto questo lo chiamava
« poesia. »
A me sembrava la più illustre cretinata mai concepita da mente umana.
Tutto questo Irene me lo disse quando arrivammo a casa, nel chiuso della sua stanza. Marika dormiva già della camera a fianco e in cima al pianerottolo avevo sentito il suo respiro così piatto e disteso. Adesso Irene era in piedi a braccia incrociate davanti alla sua bacheca e gli occhi erano i mirini più ciechi che mai avessi visto. Gli occhi di una persona che nessuno può più convincere a non sparare. Spara. Spara. Irene era una tiratrice scelta.
Io ero seduto sul bordo del letto, con la testa fra le mani. E Irene parlava con una voce aspra ma decisa, affilata dal terrore. Forse non saremmo arrivati a tanto, se non mi fossi stretto alle sue spalle avvinghiandola con tanta forza disperata. Non saremmo arrivati a tanto se non fossi entrato nell’ufficio di Iris e non mi fossi afferrato alla scrivania e poi non l’avessi buttata di lato, una forza che neanche sapevo di avere. E gli occhi di Iris, così diversi da quelli di Irene, così stretti, celesti, glaciali, mi avevano fissato come se non fosse successo niente, proprio come se fossi entrato e mi fossi messo seduto.
« La prego di uscire » aveva detto solo.
Irene mi aveva seguito, mi aveva preso per mano. Io l’avevo lasciata, cacciando qualcosa che era insieme un lamento e un urlo, forse un latrato, un guaito, di cane ferito a morte. Ma la vera cagna era lei. Tutto questo tempo e non dirmi che ogni cosa era già fissata. Tutto questo tempo e non dirmi che c’era una data e c’era un modo e persino una bella patinatura filosofica. Tutto questo tempo e venirlo a sapere da quella cagna di Cassandra. Un mondo di cagne, di divinità femmine cieche e crudeli, col cuore cogli artigli, queste insulse folli oscene corteggiatrici della morte. Come ero finito in un mondo del genere? Come mi ero così perduto? Perché mi ero tanto attaccato a qualcosa?
« Tu lo sai che non c’è modo di farmi cambiare idea. È stato sempre tutto chiaro. Io sono stata onesta con te. Perché sei rimasto? Lo sapevi che finiva così. »
Adesso che sapevo che sarebbe finita così, tutto sembrava estremamente logico e sensato. Non c’era logica, non c’era sensatezza nella vita, ma nella morte tutto era logico e sensato, perché quella non era una morte naturale. Quella era una morte programmata come una cerimonia nuziale. Ero lo sposalizio di Irene col suo dio privato. Un dio che la doveva vendicare di tutte le offese.
Solo che Irene non era mai stata offesa. Solo che Irene non era stata offesa perché la sua vita non era neanche cominciata. Vent’anni sette mesi ventisette giorni sono un niente rispetto ai giorni che ci restano. Una parte che, a essere onesti, non è neanche troppo da considerare, perché è come fare le prove per la vita vera. Ma Irene non aveva capito e non voleva aspettare. Il suo infantilismo stava soprattutto in questo, che voleva tutto subito oppure non lo voleva più.
« Per favore. È stupido vederti piangere. »
Adesso che sapevo che sarebbe finita, sapevo mettere insieme tutti i dettagli. E così, se la bacheca era chiara come mai era stata, anche le altre cose andavano ognuna al suo posto. Per esempio, quei barattoli di fiori secchi sopra la scrivania. Era da tempo che non ci facevo più caso. Ma adesso sapevo a che cosa servivano. Chiudendo gli occhi vedevo la superficie tremante di una vasca da bagno e dentro il corpo di Irene che non avevo visto mai. Chissà com’era il seno e come aveva i capezzoli. Chissà se in mezzo alle gambe era castana come di capelli. Oppure era tutta glabra, liscia e morbida come una pesca da spolpare. Poi vedevo una mano secca spargere sull’acqua una manciata di fiori secchi, i petali rosso scuro che cadevano in ghirigori e galleggiavano sul pelo dell’acqua. E allora sarebbe stata davvero Ofelia, solo con gli occhi chiusi, perché Irene dormiva. Irene dormiva nella sua tomba d’acqua da cui non si sarebbe più svegliata.
Era tutto così insopportabile che dovevo stringere forte i pugni e dondolare col busto per allentare la tensione. La tensione di ucciderla ora, in quel momento. La tensione di agguantarla e strapparle i vestiti e spiegarle una volta per tutte cosa si fa nudi e cosa no. Era tutto così orribile. Era lei a rendere tutto così orribile. Era lei, era vero, lei era una cosa così orribile.
« Ma perché Cassandra non si fa i cazzi suoi. Quella troia. »
Ogni tanto buttava là una frase, più per vincere il silenzio che perché pensava che l’ascoltassi. Io l’ascoltavo, ma non avevo niente da dire.
« Parlami. Per favore. »
Le avevo detto una frase simile, qualche settimana prima. Ma non mi importava di cosa era successo qualche settimana prima. Se solo ci pensavo un conato di vomito mi montava su dallo stomaco. Le avevo dato il potere di ridurmi così. Di decidere come mi dovevo sentire. Un gatto assuefatto ai suoi croccantini drogati. Si meravigliavano che mi sembrasse così pericoloso. E che mi piaceva stare da solo. Come si poteva voler stare con qualcuno, quando c’era tutto questo schifo ad aspettarti? Quando un momento di gioia era una macchia sulla coperta dell’orrore. Quando tu sei innamorato di lei e lei non solo non ti ama, ma per lei non sei niente, sei talmente un niente che può uccidere te con lei senza provare nessun rimorso. Di più, senza neanche porsi il problema. Tu non sei mai stato un problema. Tu eri uno che stava lì per caso, se c’eri o non c’eri era lo stesso, perché tanto lei non ti vedeva o, se ti vedeva, eri comunque insignificante. Lei sarebbe andata avanti come aveva deciso, perché, se era vero che qualcuno poteva farle cambiare idea, questo qualcuno non eri tu. Il qualcuno che lei voleva non eri tu. Tu non eri abbastanza ok. Anzi, forse l’avevi persino danneggiata, perché il tempo che avevi passato con lei, lei avrebbe potuto passarlo con qualcun altro. E forse non sarebbe finita nuda sotto trenta centimetri d’acqua. Sarebbe finita in un letto e nel giro di due ore si sarebbe completamente scordata che una volta aveva voluto ammazzarsi.
« Ecco perché non te l’ho detto. Cioè, se uno si iscrive a un corso del genere sa che ci trova della gente del genere. E non ho mai capito perché tu eri così fuori posto. Prima non lo avevo capito così bene, ma piano piano sì. Tu non sei come me e forse non hai neanche mai voluto esserci. »
Irene simulava una certa calma composta, ma i suoi passi avanti e indietro la tradivano. E se non era paura quella che li muoveva, almeno era sconcerto per la mia reazione. Mi chiesi se aveva previsto che sarebbe stata così.
« È come se tu ci fossi finito… per caso. Forse… no. Certo che no. »
Non sopportavo di sentirla parlare. Avrebbe potuto parlare, se avesse detto cose giuste. Ma così non faceva che accrescere la mia rabbia di momento in momento.
« Ti ho chiesto di smetterla di piangere. Sei un uomo adulto. Non sei un bambino. »
Non ci vidi più. Mi alzai. Velocemente, ma senza produrre alcun suono. Mi avvicinai e lei si ritrasse contro la parete dove era appesa la bacheca. Urtò con la nuca il bordo di legno e si fermò. La sua testa schiacciava il disegno di Ofelia. Sperai che lo strappasse.
Mi ero avvicinato molto lentamente e mi ero fermato giusto a un passo. Non volevo intimorirla o picchiarla. O forse sì. Volevo intimidirla o picchiarla o forse entrambi, ma non l’avrei fatto. Non era da me, non sono uno che picchia le donne. Al massimo ne vengo picchiato. La vedevo che tratteneva il respiro, con le narici tutte dilatate. Era brutta, rossa sugli zigomi e con gli occhi trasparenti come perle. Lucidi come la superficie delle perle, come velati da uno strato di sudore.
A questa distanza o ci si bacia o ci si sputa e io, nel cercare una strada alternativa, mi limitavo a ricambiare il suo sguardo spaventato. Non volevo baciarla, mi disgustava. Non volevo sputarle, mi disgustavo. Così feci una cosa che nel mondo normale avrebbe fatto scoppiare una donna in lacrime e che nel mondo di Irene era quasi un complimento.
« Per me puoi anche crepare » dissi, tutto qui.
Lei sbottò in un singhiozzo di gola, tutto qui. Io mi voltai e misi una porta, una scala, una porta, una strada tra lei e me.

Di Chiara Pagliochini

Nessun commento:

Posta un commento