domenica 11 marzo 2012

Lilì SG. Capitolo secondo.

Illustrazione di Diletta Angelini

Di tutti i misteri della scrittura – e poiché li chiamiamo misteri quel che segue è scontato – ce n’è uno che non sarà mai svelato del tutto, ed è il legame incerto, spesso aleatorio, tra la biografia di uno scrittore e quel che egli scrive. Ora, non abbiamo la presunzione che studiare Liliana possa condurci alla sorgente di ogni perché, ma converrete che è un’opportunità interessante.
E così, se da una parte non ci importa di sapere perché (o almeno fingiamo che non ci importi), dall’altra scorticheremmo le pagine di un libro per sapere perché certe cose accadono e certe no.
Un coniglio, ad esempio. Perché un coniglio? Perché doveva esserci? Perché si vuole così? E, se non si voleva così ma è soltanto capitato, allora da dove salta fuori? Allora la domanda perché un coniglio? è non solo legittima, ma francamente consigliata.
Ebbene, noi lo sappiamo perché un coniglio. Lo sappiamo e lo racconteremo. Ma se non vi interessa – e potrebbe non interessarvi, perché non negheremo che non è affatto interessante – siete liberi di saltare qualche pagina. Giusto due o tre. Ci rivediamo più in là.
Intanto Liliana si scioglie le code e scrolla la testa per sistemare i capelli. Il risultato non è incoraggiante. Lo sguardo è perso. Il paragrafo è a uno stop. Cosa starà pensando? Ha degli occhi curiosi, come sorpresi. Il pensiero che le si snoda attraverso e le sorprende gli occhi resta sospeso a mezz’aria, nell’ordine maniacale della stanza, e noi spicchiamo un salto, lo afferriamo prima che cada e cominciamo ad aprirlo. Scartiamo il suo pensiero come un pacchetto regalo. Lo soppesiamo tra i palmi, ne distendiamo gli angoli per osservarlo meglio. È un ricordo, un piccolo ricordo quadrato ancora fresco. L’etichetta recita “prima volta dallo psicologo. È di ieri.
Il ricordo comincia con un mestolo agitato in aria. Segue uno schizzo di sugo che si stampa sul muro della cucina. Una voce fuoricampo dice:
« Invece dico che ci andrai. »
« Ma mamma… »
« Non mi interessa niente. È un brutto periodo e non la stai prendendo bene. E poi c’è questa cosa di papà. »
« Non ho bisogno di uno psicologo. »
« Allora perché avrebbero mandato una circolare? »
« Perché è la prassi? Perché la mandano a tutti? È solo per informare i genitori! »
« Bene, sono informata e voglio che tu ci vada. »
« Mamma, mamma, ti prego. Nessuno della mia classe… mamma, per favore, ho già abbastanza guai… e se qualcuno lo scopre… »
« Non c’è niente di male ad andare da uno psicologo. »
« Non c’è niente di male se hai quarant’anni o sei anoressica o ti hanno violentato. »
« Non voglio sentire storie. La scuola mette a disposizione un servizio, perché non sfruttarlo? Non spenderò milioni in strizzacervelli se possiamo averne uno gratis. »
« NON. HO. BISOGNO. DI. UNO. PSICOLOGO. »
« La discussione è chiusa. »
La discussione è chiusa, ma il ricordo continua. Un sipario si chiude e si apre, e stavolta siamo da un’altra parte. Una fila di seggiole scompagnate, una porta grigia, un cartello appeso con lo scotch, Dott. A. Baffi, lunedì e martedì 16 – 19.
Il bello dei ricordi è che prendono la forma di chi li sta ricordando, così il nostro ricordo è rannicchiato, le mani giunte in grembo, le ginocchia che fanno su e giù come pistoni. La porta certe volte è grigia e certe volte rossa e il cartello pende un po’ di più o un po’ di meno. Anche i caratteri cambiano da un momento all’altro.
Poi la porta si apre e una figura ancora sfocata dice:
« Rossi, Liliana. »
La voce è minacciosa, ruvida come carta vetrata. Un muscolo ci trema nella guancia. Ci alziamo, ma le gambe sembrano quasi non reggere. La visuale oscilla pericolosamente verso il basso prima di stabilizzarsi. Adesso ci muoviamo in avanti. Adesso tocchiamo la porta. Adesso accompagniamo la maniglia molto lentamente. Adesso ci guardiamo intorno alla ricerca di un divanetto nero – perché ci sono sempre dei divanetti neri. Ma niente divanetto. Solo un uomo seduto a una scrivania zoppa e una sedia davanti. Una di quelle sedie basse di scuola, col sedile quadrato e il mezzo schienale. Promette bene.
« Ehi. Ciao » fa la voce.
Sarà che abbiamo messo a fuoco, ma adesso non è minacciosa neanche un po’. Per essere uno psicologo, ce lo immaginavamo tutto diverso. Innanzitutto uno psicologo deve avere una certa età. In secondo luogo, porterà degli occhialini rotondi. Terzo, incrocerà le mani sotto il mento appuntito e ci scruterà con un sorriso sornione. Ma questo nostro psicologo non risponde a nessuna delle caratteristiche. Innanzitutto, sembra un giovanottino fresco di laurea. In secondo luogo, gli occhiali sono quadrati, con la montatura trasparente. Terzo, ci sta tendendo la mano attraverso la scrivania e noi non la stiamo stringendo. Il nostro braccio si stende e siamo catturati dalla sua stretta: è solida, solidale.
« È un piacere, Liliana. Ti chiamano Liliana? »
« Lilì. »
« Lilì. Io sono Andrea. »
« Piacere. »
Difficile stabilire chi sia il più imbarazzato tra i due, se lo psicologo alle prime armi o la ragazzina traumatizzata. La mano di Lilì si leva a carezzare i capelli sulla nuca, quella del dottorino risponde con una grattatina dietro l’orecchio. Un ciuffo biondo gli ricade sulla fronte e quando sorride – visto l’imbarazzo, gli capita spesso – le labbra scoprono gli incisivi sporgenti. Le guance sbarbate esibiscono a mo’ di trofeo le cicatrici dell’acne giovanile, da cui peraltro non dev’essere lontano da molto. E se vi state chiedendo se una madre possa affidare il suo tenero frugoletto e rispettive paturnie alle mani di uno strizzacervelli sbarbatello, certo che può.
« Bene, Lilì, vogliamo cominciare? »
La visuale oscilla su e giù al ritmo di un assenso.
« C’è qualcosa di particolare di cui vuoi parlarmi? »
La visuale oscilla a destra e a sinistra al ritmo di un diniego.
« Hai deciso tu di venire? »
« La mamma. »
« La mamma. Già. E tu non volevi? »
« No. »
« Perché no? »
« Non… ne ho bisogno. »
« Non è questione di bisogno. È questione se vuoi o no essere qui. »
« No. »
« Lo fai solo per accontentare tua madre? »
« Sì. »
« E pensi di non poterne trarre alcun giovamento? »
« Non lo so. »
« Questo è un punto di partenza. Bisogna essere aperti al nuovo, non credi? »
« Non lo so. »
« Hai paura delle novità? »
« Non lo so. »
« Prova a pensarci. »
« Forse… sì. »
« Fammi un esempio. »
« Quando ho iniziato il liceo. »
« È il primo anno? »
« Sì. »
« Hai avuto difficoltà ad ambientarti? A fare nuove amicizie? Con i professori, le materie? »
« Preferirei non parlarne. »
« Va bene. Allora la prossima volta. Ti va di parlare della tua famiglia? »
Le va di parlare della sua famiglia? Certo che le va.
Illustrazione di Diletta Angelini

“Non ci trovereste davvero nulla di strano ad incontrare un coniglio nel corridoio di casa, se foste cresciuti in una famiglia come la mia. Tutte le famiglie devono essere insieme strambe e ordinarie, tuttavia non ci si fa mai l’abitudine.
Prendete la nostra cucina, ad esempio. Non tutte le famiglie, io credo, possono permettersi delle sedie coi nomi incisi. Se avessi degli amici, mi vergognerei ad invitarli, e le sedie sono solo uno dei tanti motivi. Certo, sono un motivo consistente: quattro sedie verniciate di rosa con i nomi intagliati sul dorso non sono proprio una cosa da esibire con disinvoltura.
Un altro motivo è la mamma, che poi le sedie sono state un’idea sua. Mia madre, Mirella, lavora in una scuola materna. Vi lascio immaginare che genere di personcina sia una che progetta sedie come se fossimo dentro Biancaneve. Eppure non è svampita – o almeno, non del tutto – anzi, credo sia piena di risorse insospettate. Pensa solo alle cose che riesce a fare contemporaneamente: è capace di lavorare in giardino con la radio accesa che dà Franco Battiato e di là, in cucina, la tv che gracchia la soap opera dell’ora; sul gradino davanti casa è abbandonato un romanzetto rosa e sul tappeto le sue ciabatte preferite, rigorosamente multietniche e fiere dei loro campanelli tintinnanti.
Mio padre quei campanelli non li può soffrire. Difatti, quando è in giro per casa le ciabatte spariscono misteriosamente. Mio padre è assessore del Comune, assessore alla Cultura – e poi si ritrova due figlie come noi. Ogni tanto mi domando dove si siano conosciuti lui e la mamma. Ovviamente non è che non lo sappia, ma ho sempre avuto l’impressione che la versione ufficiale non sia proprio quella più vera: mia madre che viene aggredita da uno scippatore e mio padre che la salva mettendo in fuga il malvivente? Ce lo vedete mio padre che mette in fuga un malvivente? Avrei capito se fosse stata mamma a salvarlo. Tutto sarebbe estremamente più ragionevole, visto che è lei che porta i pantaloni.
Mia sorella, Chiara, porta anche lei i pantaloni, nel senso che è femminile come uno scaricatore di porto. Da quando ha iniziato le superiori se ne sta tutto il giorno al telefono, a parlare con chi non ci è dato sapere. La mamma dice che è innamorata, per questo ha sempre la testa fra le nuvole. La mia opinione diverge leggermente: io sono convinta che la sua testa si sia impigliata a un cirro o a un cumulonembo ben prima che nascesse.
Fosse finita qui, magari. Per esempio, c’è mia nonna. Sarebbe meglio dire, c’era mia nonna, visto che non l’ho mai conosciuta. In realtà è come se la conoscessi, perché ne sento parlare in continuazione. Anzi, la sento nominare in continuazione, perché mi chiamo come lei: Lailiana Alessia Esteria Giullari. Per fortuna la mamma ha avuto la decenza di chiamarmi solo Liliana, altrimenti non se ne usciva. A casa mi chiamano Lilì. Papà ogni tanto mi chiama Principessa. Se avessi degli amici, vorrei che mi chiamassero Lilì anche loro. Non che io sia asociale o cosa, è solo che la gente non mi si fila. È duro quando la gente non ti si fila, perché non capisci mai se è colpa tua.
Comunque, c’è un’altra cosa che ho preso dalla nonna, e sono i suoi occhi, tondi occhi di un grigio madreperlaceo. Da piccola mi piacevano. Adesso sono diventati di un grigio fango, anche se la mamma dice che non è vero. Dicono che mi passerà, questa cosa di sottovalutare quanto sono carina. Dicono che è l’adolescenza. Sinceramente, io non penso: se sei adolescente non è mica detto che sei cretina.
Questo coniglio, lo ammetto, è la cosa più strana che mi sia capitata da un sacco di tempo, anche se prima dicevo il contrario. Pure ad essere cresciuta in una famiglia stramba, di conigli coi jeans non ne avevo visti mai.”


« Mamma e papà si stanno separando. »
« Mi dispiace. »
« Papà ha un’amante. »
« Come fai a saperlo? »
« Ho sentito che litigavano. »
« Mamma e papà? »
« Sì. »
« Non si preoccupano che tu senta? »
« Non vogliono. Sono io che origlio. »
« Beh, origliare non è certamente una bella abitudine. Ci sono cose che devi sapere e cose di cui puoi rimanere all’oscuro. Dovresti fidarti di più dei tuoi genitori. »
« Mia mamma mi ha mandato qui. Lei si fiderebbe? »
« Sono sicuro che lo fa per il tuo bene. »
« Il mio bene è papà che va a vivere da un’altra parte e lei che smette di guardare la televisione. »
« Gliel’hai detto? »
« No. »
« Non parli con loro? »
« Non gli interessa quello che dico. »
« Sono sicuro che non è vero. »
« Sono sicura che è così. »
« Hai mai provato? »
« No. »
« Dovresti. Non hai nessuno a casa con cui parlare? Una sorella? Un fratello? »
« Figlia unica. »
« Non hai mai voluto un fratellino, una sorellina? »
« Sinceramente? »
« Si capisce. »
« No. »
Il nostro psicologo appoggia la testa su un gomito in un gesto strettamente professionale. Incrocia i nostri occhi con i suoi, azzurri dietro le lenti. Ci sembra di conoscerlo da sempre, anche se sono passati solo pochi minuti. Vorremmo conoscerlo da sempre, perché c’è qualcosa di così rassicurante nella sua posa, nelle sue domande modulate con gentilezza. Ci fa sentire ascoltati, ci fa sentire importanti.
« E non ti senti mai sola? »
« Solo ogni tanto. »
« Che ne diresti di tornare lunedì prossimo? »
Il ricordo si accartoccia su se stesso come carta stagnola. Si ripiega e ci resta nelle mani una specie di pallina. Liliana sta sorridendo. Nonostante tutto, sorride. Se volete il nostro parere, siamo quasi sicuri che tornerà.


Di Chiara Pagliochini;
Liliana Rossi

giovedì 8 marzo 2012

Lilì SG. Capitolo primo.

Illustrazione di Diletta Angelini

Cosa ci tocca fare al giorno d’oggi per trovare una buona storia. Ficcanasiamo nei cassetti, rispolveriamo le cornici d’argento e interroghiamo questo e quello, dall’operaio in galosce alla signorina che fa i biglietti. E oggi c’è andata anche peggio del solito. Guardate chi ci è toccato. Guardate dove siamo. Ah, non vi si rivolta lo stomaco solo a vederlo?
Quest’aria mefistofelica e quella voce roca sgraziata, questi banchi allineati due a due e la cattedra al centro, pomposa come un’ottomana. Almeno ci facessero il piacere di aprire la finestra. Ma col cavolo. Uno che fa, Aprite la finestra!, l’altro che rimbrotta, È un freddo che si gela!, e quello che ha mal di gola e quello a cui si secca la pelle. Una scuola. Una scuola. Cercare storie in una scuola è come girare per lo zoo con un registratore in mano.
Ma poi, adesso siamo qui. Ci aggiriamo tra i banchi e solleviamo il mento di quelli che ci sembrano gli esemplari migliori. Che occhi vuoti e tondi, che colorito malsano. Cade una matita. Si scheggia il gessetto. Stride la lavagna di un suono di vaporetto.
Una scuola, una quarta liceo. Poteva andarci peggio, ma anche molto meglio. E neanche a dire che c’è tanta carne al fuoco: dall’ultimo banco sonnecchiano, la tizia in terzultima fila stacca un boccone dal panino al prosciutto, il tipo con gli strani capelli dritti si soffia il naso tra due dita. Non guardare, non guardare, ecco, sembra fatto apposta per rovinare l’appetito.
Rosa rosae rosae rosam rosa rosa. Rosae rosarum rosis rosas rosae rosis. Un coro si leva in un ordinato motivetto di valzer, un due tre, un due tre. L’insegnante spalanca le braccia e cavalca l’onda acustica con un gesto del polso. Rosa rosae rosae, rosam rosa rosa. Rosae rosarum rosis, rosas rosae rosis. Ricadono le braccia e torna il silenzio e il neo grosso sotto il mento della prof si contrae in uno spasmo appena percepibile.
Ma ecco! Ecco. Forse abbiamo trovato qualcosa. No, non quella. Dio, non la battona con le ciglia finte. Santo Cielo, neanche quello! Più a destra, più a destra, no, un pochino più a sinistra, dritto avanti, avanti ho detto, prima fila. Ecco. Questa è quel che ci vuole.
Non sembra anche a voi che dentro questa testolina possa nascondersi una storia interessante? Certo, a prima vista non si direbbe. Anzi, vien quasi voglia di distogliere lo sguardo e cercare altrove. La battona con le ciglia finte, a confronto, pare un esemplare di prima classe. Ma basterebbe non andare troppo per il sottile, ecco. Per esempio, questi capelli color grano bagnato, bene, non sono la vista più intrigante del mondo: spartiti da una riga al centro e ridivisi in due code flosce, unticce, con una scaglietta di forfora messa lì quasi a far da segnaposto. E anche questa fronte spaziosa, concentratissima, le rughe di espressione solcate da brufoletti. Se poi apre la bocca, si vede subito che porta l’apparecchio cogli elastici blu. Ma se noi la prendiamo da lontano, se restiamo ad osservarla dall’ultima fila, quando ha la bocca chiusa, e proviamo a figurarcela tra venti o trent’anni, certo, potrebbe anche diventare una creatura discreta. Richiede un vasto sforzo di immaginazione, ma d’altronde cosa c’è di più grande, cosa c’è di più puro dell’immaginazione quando si va in cerca di una buona storia?
E questa signorina del primo banco, questa bruttina con gli occhiali tondi e l’apparecchio, con le scarpe pesanti e un rosa rosae molto acuto, questa signorina sarà la nostra storia. Non siete contenti? Almeno un pochettino?
Bene, ora si prova a sedercisi a fianco e a capirne un po’ di più. Dagli occhi interrogativi del tipo del banco dietro si direbbe che non è molto popolare. Gli chiediamo perché e lui fa spallucce, come a dire, Che volete che mi importi? Un altro, interrogato, scuote la testa: Carneade, chi era costui?
Se nessuno vuol dirci niente, dovremo chiedere direttamente a lei. Le tocchiamo la spalla, ma non ci sente. Sembra molto presa dalla lezione, dal ronzio ipnotico del rosa rosae. Siamo sicuri che tutta questa attenzione le frutterà un buon voto.
Ci alziamo e sbirciamo il registro. Strilliamo nell’orecchio della prof che vogliamo sapere come si chiama. Lei fa correre distrattamente il dito sull’elenco e grida, Liliana! La nostra piccola sussulta, si aggrappa con le mani al libro di testo e si alza lentamente dal banco. Appoggia il libro sulla cattedra e alza il mento, dando risalto alla linea aspra della mandibola. L’insegnante fa un sorriso distratto e prende a interrogarla senza badare a noi. Il rosa rosae non ci interessa e men che meno il lupus lupi, così ci sediamo stancamente e aspettiamo che sia tutto finito. Spiamo la goccia di sudore che si stacca dall’ultimo capello della fronte e scende lungo lo zigomo e poi corre a seppellirsi nel colletto. Studiamo il tremore dissimulato della mano destra. Registriamo tutte le inflessioni della voce. Ma dovremo aspettare che l’interrogazione finisca per saperne qualcosa di più.
Il suono della campanella ci fa saltar su. Liliana si volta nella nostra direzione, senza vederci, e i suoi occhi dietro le lenti corrono alla cerniera dello zaino. È l’ora di tornare a casa. La professoressa cerca la casellina nel registro e intrappola un piccolo otto che sbatte contro gli spigoli. Liliana ringrazia, dice, Arrivederci, e si affretta a chiudere la lampo. Lo zaino è in spalla e via lungo catene di spintoni verso la porta d’ingresso, gli studenti che sciamano per raggiungere gli autobus, la campanella che si prolunga in un driiin spasmodico. Ci facciamo largo per tener dietro a Liliana e saliamo dietro di lei sul pulmino. I posti son già tutti presi, così restiamo in piedi e continuiamo a tenerla d’occhio dalla nostra visuale privilegiata. Se era una buona storia, perché è così noiosa? Se è una buona storia, perché non combina niente che si possa raccontare? La nostra signorina non ce la conta giusta. Se ne sta lì pigra, la testa premuta contro il finestrino, senza parlare con nessuno. Sembra che le abbiano disegnato una bocca solo per ficcarci dentro un apparecchio.
Dopo un paio di fermate è il nostro turno. Ci divincoliamo dal gomito di un energumeno per scendere dall’autobus e seguirla ancora per un tratto a piedi e un attraversamento pedonale, e poi su lungo il vialetto di una villetta a due piani, con un magro giardino stinto. Fermiamo la porta perché non sbatta e siamo dentro. Dentro, c’è odore di cipolla. Una mamma – è sicuro una mamma, ne ha la faccia – scodella nel piatto una porzione di pastasciutta e ricade in una posizione quasi fetale, lo sguardo allucinato su una soap opera alla tv. Da qualche parte un padre strilla; nessuno gli bada. Un oggetto cade e si rompe. Una lacrima scorre lungo la guancia della mamma, ma non sappiamo se è per via della soap opera o dell’oggetto che si è rotto o del padre che strilla o forse di un ricordo lontano, di un gattino ammalato. Che ne sappiamo, che ci interessa.
L’apparecchio tritura gli spaghetti. L’acqua finisce con un glu glu nello stomaco. E la nostra Liliana è ancora una delusione totale. Di malavoglia la accompagniamo su per le scale e poi fino alla cameretta, lungo un corridoio buio, seminato di polverosi tappeti. Sbatte la porta e noi siamo con lei. Ci voltiamo mentre si spoglia e restiamo ad osservarla dall’angolo della finestra, mentre si siede alla scrivania e accende il computer.
Ed è adesso che accade qualcosa di davvero interessante, perché se finora avete pensato che scherzavamo o che era non era possibile, adesso dovrete ricredervi. Voi pensate, Non esistono Liliane del genere. I nerd sono una categoria modaiola, né più né meno di altri: i veri nerd, i vecchi “sfigati” sono tutti estinti. Figurarsi se è possibile, figurarsi se è ancora possibile girare conciati così. Voi pensate che sia uno stereotipo, tutto, dall’inizio alla fine, esser brutti e non parlare con nessuno e prendere persino voti alti.
Poi si torna a casa, si accende il computer, ci si rizza contro lo schienale della sieda e si comincia a scrivere. Una storia d’amore o una storia d’avventura, una storia qualunque, purché sia diversa da noi e possa portarci molto lontano, purché ci faccia dimenticare quanto misere e muffite siano le nostre storie di tutti i giorni, purché ci faccia dimenticare che siamo brutti e abbiamo una voce stridula e nessuno ci rivolge la parola e i nostri genitori si stanno separando.
Ci sono ragazzine senza una vita sociale che, nell’abbandono della loro stanzetta, si prendono una rivincita sul mondo, immortalandolo in immagini ideali. Sono delle sovversive, sono menti anarchiche che non rinunciano al riscatto e alla speranza e che in questa loro sfida ripongono grumi di desideri.
Voi pensate che non esistano più, queste ragazzine brutte che a sedici anni sono ancora vergini, e tuttavia non vanno a seppellirsi in una buca. Ma il problema non è tanto che sono vergini, quanto che non hanno nessuno che la loro verginità la voglia o che accarezzi loro la fronte pronto a scordarsi che è piena di brufoletti. Queste ragazzine – non credete alla tv – cresceranno su con qualche idea bizzarra, non dritte ma deviate, una fobia, un vizio di carattere, una malattia segreta. Queste ragazzine a diciotto anni cominceranno a leggere Sylvia Plath e sprofonderanno nell’abisso della depressione – lo so io e lo sai tu – se nessuno interverrà a salvarle. E non sarà un reality show, non sarà un’eredità imprevista e neanche un centro estetico, bensì un altro sfigato par loro, che se le prenda e goffamente ponga fine ad ogni loro insoddisfazione. Allora queste ragazzine scorderanno che al liceo hanno scritto un libro, un buon libro o un brutto libro, non conta più. Adesso qualcuno le ama e la battaglia è vinta e non c’è bisogno di scrivere, se non c’è più nessuno contro cui vendicarsi.
Ma per il momento la nostra Liliana è una fonte di investimento sicuro. Guardatela come lavora con la testa china. Guardate la foga con cui pigia i tasti e va a capo. Guardate lo sguardo atteggiato, molto molto lontano, che buca lo schermo e nel contempo guarda al di dentro, nel motore di una fantasia sfrenata, lungo i binari di un’immaginazione dilagante.
Se qualcuno entrasse dalla porta e la vedesse così sola, così conciata, certamente si chiederebbe perché esista un essere così disgraziato. Perché esiste? Ma per scrivere un libro!



Illustrazione di Diletta Angelini
 
“Tutto cominciò la mattina in cui scivolai in corridoio. E sarebbe stata una cosa come tante, un avvenimento del tutto irrilevante, se d’un tratto non fosse comparso un coniglio bianco. Uno non se lo aspetta che salti fuori un coniglio, la vita non è mica un cappello, eppure certe volte accade e tu resti lì a chiederti se non avresti potuto prevederlo. Non tanto per evitare che accadesse – d’altronde un coniglio non disturba nessuno – quanto per reagire in maniera appropriata qualora l’occasione si presenti di nuovo.
Nel mio caso sarebbe bastata un po’ d’attenzione. Strane cose stavano già capitando da un angolo all’altro di Balenia, le voci di un cambiamento correvano portate dal vento e le foglie continuavano a cadere, a cadere, come se fossero rimaste sui rami fino a quel momento solo per cadere di botto tutte assieme. Se solo avessi letto i segnali, guardato la tv e carpito i sussurri dalla bocca dei vecchi, avrei potuto capire che sarebbe accaduto. Non prevedere un coniglio, forse, ma certo prevedere qualcosa. Il coniglio, va detto, è stato un tocco di genio.
Accadde quella mattina che mi svegliai e avevo la gola secca. Avevo sognato di bere da un innaffiatoio e la mamma mi rimproverava perché era poco igienico. Al che, con tono sicuro, avevo ribattuto, Ma se la bevono i fiori… Ora avevo la gola secca e desideravo soltanto premere le labbra contro il vetro d’un bicchiere freddo e tornare nel letto al caldo prima che suonasse la sveglia. Sì, perché mancava ancora mezz’ora alla sveglia: non potevo sciupare l’occasione di dormire un altro po’.
Mi alzai e ciabattai fino alla porta. Il corridoio era buio, gelato. La mamma doveva essersi scordata di chiudere qualche finestra. Mi strinsi contro il pigiama e arrancai fino all’interruttore della luce. E fu allora che sentii la voce, distinta, dall’altra parte del corridoio, e misi un piede in fallo e scivolai sul lungo tappeto persiano. Maledetta la mania di mamma per i cimeli multietnici.
Scacciai con le mani le odiose stelline che mi ronzavano intorno alla testa e mi tirai su appoggiata alla parete. Allungai le dita – l’interruttore era proprio lì, a un centimetro scarso – ed ecco, di nuovo la voce. Si piega la gamba, vado lunga di nuovo. Stramaledetto tappeto!
Stavolta le lucciole s’erano vestite in modo fantasioso. Sembrava di avere in circolo per le orbite tanti coniglietti bianchi. Li mandai via tutti con dei gesti calibrati, ma ce n’era uno, proprio al centro, che pareva inchiodato nell’iride. Chiusi gli occhi. Li riaprii. Il coniglio c’era ancora. Me li stropicciai. Non andava via.
« E che cavolo… »
« Buongiorno, Lilì! »
« Ehm… »
« Ehi. Ciao. »
« … ciao? »
Fantastico. Il mio coniglio allucinatorio parlava. Doveva essere un coniglio particolarmente istruito. Tanto che c’ero, registrai qualche dettaglio curioso: uno, il coniglio stava in piedi; due, il coniglio era vestito; tre, no non aveva un orologio da taschino; quattro, quattro; cinque, aveva gli occhi celesti (e un maglioncino in tinta); sei, grosse zampe pelose gli spuntavano dalla gamba dei pantaloni; sette, mi tendeva una mano; otto, ho detto mano e non zampa, perché era un coniglio eretto, vestito e con due mani al posto delle zampe. Ecco, credo sia tutto. Ah, no, sapeva anche il mio nome. Ma per forza, se era una creatura della mia fantasia…
Se era una creatura della mia fantasia. In realtà non ne ero più molto sicura e, mano a mano che realizzavo che la fantasia non cambiava e la vista mi si era stabilizzata e le zampe poggiavano sul solido pavimento, ecco, mano a mano che capivo queste cose il mio entusiasmo scemava.
Perché se c’era davvero un coniglio parlante al centro del corridoio… beh, non era cosa da prendere così alla leggera.
« Buongiorno, Lilì! » ripeté il coniglio. Aveva una voce profonda, leggermente arrochita, come di un maschio adulto.
« Bu-buongiorno… signore » mi morsi la lingua per aver dato del signore a un coniglio.
« È un piacere conoscerti. Sono Batuffolo, ma se vuoi puoi chiamarmi Buffy. »
« Io mi chiamo… Li-lì. »
« Lo sapevo. »
« E… come? »
« Fonti mie, strettamente riservate. »
« Ah. E… se posso… »
« Sì? »
« Pe-perché sei… qui? »
« Ti spiegherò tutto tra un momento. Intanto lasciami dire che sei esattamente come ti avevo immaginata. »
« Anche tu sei… esattamente come ti ho immaginato. »
« Pensi di avermi immaginato? »
« Già. »
« Ma no, tranquilla! »
Tranquilla. Certo.
« Lasciami dire, Lilì, che grande piacere mi fa – »
« Sì. Ho capito. Veniamo al dunque. »
« Certo. Bene. Ecco, io sono qui perché Balenia è in pericolo. »
« Balenia. In pericolo » ripetei come una bambina scema.
« In grave pericolo. »
« Pericolo di cosa? »
« Ah, questo è troppo lungo da spiegare. Non posso certo farlo ora. »
La mia città in pericolo e un coniglio parlante che non può spiegarmi ora il perché. Il sogno dell’innaffiatoio era di gran lunga meno creativo.
« Se non ora, quando? »
« Poi. Oggi pomeriggio, per esempio. »
« Ah, allora mi tengo libera. »
« Certo, non prendere impegni. »
« Certo. Dunque? »
« Dunque che? »
« Un coniglio. Che parla. Al centro. Del corridoio. Balenia. In pericolo. Insomma. Cosa vuoi da me. »
« Ma sicuro, ero qui per questo. Balenia è in pericolo e tu devi aiutarmi a salvarla. Ho bisogno di persone come te, persone in gamba. Persone che amino questa città. Lilì, tu ami questa città? »
« Io? Certo. »
« No, non così. Pensaci bene. Insomma, quanto ami questa città? »
« Beh, è una bellissima città. Noiosa da morire, ma quando uno si abitua… E poi sono nata qui e questa è casa mia e il melo – »
« Sì, sì, benissimo. Allora sei assunta. »
« Assunta per cosa? »
« Per salvare questa città! »
« Ah, già. Non è che posso pensarci un pochino? »
« Hai tempo fino a questo pomeriggio. »
« Quando ci rivediamo. »
« Certo. E adesso non fare tardi a scuola. »
« Scuola. »
« Sì, ti aspetta una sorpresa. »
« Che genere di – »
Ma il coniglio si era voltato e correva a grande velocità lungo il corridoio, un po’ correva e un po’ saltava, intralciato dalle grosse zampe. Io allungai la mano per fermarlo, stavolta, ma quello era già arrivato alla svolta. Si lanciò giù per le scale e sentii il rumore di una finestra che sbatteva. Quella finestra che, la sera prima, quella svampita di mia madre si era scordata di chiudere.”


Di Chiara Pagliochini;
di Liliana Rossi.

venerdì 2 marzo 2012

L'agenzia dei suicidi. Cap.26


Vorrei che fosse vero. Non lo è.
Se fosse vero, quel giorno di due anni fa non avrei tentato di togliermi la vita. Non avrei rimestato nella cantina alla ricerca di una corda e non avrei provato un nodo scorsoio di quelli che mi insegnava papà da bambino. Non avrei tirato un capo intorno a un ramo del ciliegio, il più robusto, e non mi sarei allentato il colletto della camicia. E mio padre non mi avrebbe trovato mentre goffamente infilavo la testa in un cappio.
Se fosse vero, cinque mesi fa non avrei tenuto così a lungo la testa nel forno, col pretesto di controllare le tartine al salmone. Greta era sulla soglia a ricevere gli ospiti, col grembiule, tutta sorridente. Ricordo la smorfia di orrore quando mi vide così prono oltre lo sportello. Ricordo il sorriso fatuo con cui mi tirai indietro dicendo:
« Secondo me devono dorarsi di più in cima. »
Se fosse vero, non avrei sposato Greta. Non avrei avuto bisogno di un’infermiera, né di una che mi scaldasse il letto né di qualcuno che vigili che le finestre siano tutte ben chiuse alla sera. Ma vedete, di un’infermiera c’è bisogno, e Greta fa il suo mestiere perché mi ama, così non devo pagarle lo stipendio.
Se fosse vero, non vedrei il mio psicologo due volte la settimana e quello non mi distrarrebbe con chiacchiere querule tutto ansioso di scoprire la verità. Se fosse vero, nessuno tenterebbe di spremermi questa verità, perché non sarebbe una verità che fa così male. Se fosse vero, non mentirei, non inventerei storie o finali plausibili, non ricamerei sul mio addio da Irene fino a renderlo così strappalacrime e inverosimile. Se fosse vero, potrei raccontare la verità per come è più giusta o sarebbe stata più giusta e non ci sarebbe bisogno di venire fin qui, su questo colle che ancora ha impressa la sua orma, per raccontarmi cosa è successo davvero.
E soprattutto se fosse vero, se solo fosse vero, non perderei la speranza, non lascerei cadere la mano lungo il fianco. Se non avete capito questo, allora non avete capito nulla. Perché mai, mai lascerei andare Irene se ancora fosse possibile farla mia.
Non è vero che non passo mai dalla strada dell’agenzia. Ci passo spessissimo. Ogni tanto mi spingo persino a dare una sbirciata oltre il vetro, ma quello che vedo non è quello che mi aspetterei. L’Agenzia Persefone non esiste più. Iris ha chiuso i battenti, e adesso i locali sono allestiti a consultorio. Ed è sorprendentemente buffo immaginarli che discutono di vite possibili, di nascite e soluzioni preliminari e ricordare noialtri, le nostre morti possibili, i decessi, i trattamenti finali.
Iris s’è data a un altro business, che si suppone più redditizio. Sono stato a trovarla un paio di volte alla nuova agenzia degli stupri, l’Agenzia di Venere, e anche se il nome non m’è parso così originale devo concederle che funziona. È un bell’ambientino, divertente, confortevole. La gente è piacevole da scambiarci due chiacchiere, perché sono tutti un po’ schizzati. Sono certo che metà di loro sono anche dei potenziali suicidi, ma del suicidio stavolta non pare importagli granché.
« Sai cosa? Ho capito che se dai delle distrazioni alla gente, quella preferisce distrarsi che ammazzarsi. A me pare un po’ spregevole, un po’ piatto, ma d’altronde è tutta roba che fa cassa. Non immagineresti mai quante vecchie zitelle aspettano tutta la vita che qualcuno le rivolti come un pedalino, quanti ragazzini con l’acne che non aspettano che di fare le prove per impressionare le loro fidanzate. Noi forniamo il nostro bravo servizio, siamo orgogliosi del nostro personale. Guarda solo Adone, il petto che gli luccica dalla mattina alla sera. Si prende almeno sei verginità a settimana e non è poco, se ci pensi. E se le fa pagare a peso d’oro. Eh, signor Air, sono finiti i vecchi tempi. Non sono una nostalgica, ma erano davvero bei tempi. Ero nel mio elemento, mi capisce? Ma poi… sembra che la gente non voglia ammazzarsi quanto pensavo. Guardi lei, è bello vivo. Come fate tutti quanti a sopravvivere così. Dove trovate la forza. Se solo sapeste cosa significa dignità. Ma basta, non voglio fare la vecchia brontolona. Dall’alto del mio trono sono ancora viva anch’io. Viva? Super-viva! E chi mi ammazza? »
Chissà se a Irene sarebbe piaciuta quest’agenzia degli stupri. Probabilmente no, l’avrebbe trovata una soluzione semplicistica. Me la vedo ancora davanti mentre dice:
« Non voglio essere semplice, non voglio essere stupida. Voglio essere pesante e… radicale. »
Irene che non ha voluto far l’amore con me in quel giorno magnifico su quel colle assolato. Un’agenzia degli stupri… l’avrebbe lasciata basita.
Eppure non posso fare a meno di credere che Iris pensasse proprio a lei, non posso fare a meno di pensare che la morte di Irene c’entri con la sua decisione più di quanto non voglia ammettere. Io credo che le volesse bene. Credo che le volesse bene quanto me. E non penso che voglia uccidere altre dieci, altre cento Irene, se può salvarne anche una sola.
È stato durante uno di questi incontri che Iris mi disse che aveva capito tutto fin da principio. Aveva capito che non volevo uccidermi, che le mie comparse all’agenzia non erano che un bluff per ingannare qualcuno o per passare il tempo, o forse un modo per sentirmi meno solo. Aveva capito che mentivo fin dal giorno di quel primo colloquio e fors’anche dalla primissima telefonata. Le ho chiesto perché mi avesse ascoltato, perché mi avesse lasciato parlare se sapeva che erano solo bugie.
« Perché lei aveva bisogno di essere ascoltato » ha risposto, con il sorriso dei vecchi tempi. E allora ho capito che voleva dire molto di più. Ho capito il lungo frasario dietro quella sua frase breve, ho capito che diceva la mia vita in quelle poche parole e che alla fine si riduce tutto a questo, ascoltarsi. È la cosa più grande, più bella che possiamo fare per un altro.
Ecco, Irene, io ho ascoltato. Lo vedi? Ho ascoltato. Ricordo quasi tutto quello che mi hai detto e, se ho inventato un pochino, l’ho fatto per amore di giustizia o solo perché non ricordavo le tue parole esatte. Ma ti ho ascoltata e ho passato questi ultimi due anni a scrivere tutto quello che ho visto e sentito e provato quando eri insieme a me. Ho fatto la tessera della biblioteca e comprato un sacco di libri e mi sono anche iscritto all’università, e tutto questo per riuscire a scrivere qualcosa che fosse degno di te. Spero di averti reso giustizia almeno in qualche punto.
Ora che quasi tutto è scritto, non so cosa sarà di me. So che mi sono tenuto vivo per scrivere e che ho scritto per tenermi vivo. Ora che quasi tutto è scritto, sono di nuovo affrancato, sono libero di andare. Ma dove? Dove si va?
Fino a ieri pensavo che non sarei mai arrivato a questo punto. Pensavo che omettere la morte di Irene fosse un atto dovuto, una soluzione che avrebbe fatto di questa una storia più edificante, migliore. Ma poi, che vorrà dire edificante. Una storia non deve edificare niente, sono le persone che devono edificare storie. E questa storia non piacerebbe a mia moglie, non piacerebbe al mio psicologo e non piacerebbe a nessun’altro eccetto forse Ida e Iris, che erano lì e possono capirne più di tutti. La storiellina del tentato salvataggio, degli strepiti in ufficio e persino quella scempiaggine assurda che sarebbe l’ultimo incontro con Irene… una volta pensavo che fosse roba buona, una volta pensavo che fosse come tutto sarebbe dovuto andare e a un certo punto me ne sono quasi convinto e l’ho raccontato a Greta, l’ho raccontato allo psicologo ed è finita per diventare una sorta di verità. Una verità balorda per gente che si accontenta. Per gente paurosa, che non capirebbe.
E se c’è una persona o una cosa o un’entità più grande di Irene alla quale devo render conto per non offenderla con questa storia, ebbene, si faccia avanti adesso. Oppure, come si suol dire, taccia per sempre.
Perché io ho fatto il mio dovere fino in fondo. Ho fatto come avevo promesso, e lo racconto, che quando ho sentito la mano di Irene contrarsi nella mia e poi contrarsi il muscolo lungo della coscia e l’arco delle sopracciglia io sapevo quello che andava fatto. E l’ho fatto.
Uno spasimo. Una leggera contrazione. Irene mi aveva detto che poteva succedere. Così mi sono chinato sui suoi capelli e ho respirato il profumo della sua chioma bagnata e le ho messo le mani sulle spalle, stampandole nella carne morbida. Iris è venuta, si è appoggiata contro il mio fianco e siamo stati lì insieme, eretti, a guardare la testa premuta sotto l’acqua.
Quando ha capito che era sufficiente, mi ha preso per i polsi e ha separato le mie dita una ad una, i polpastrelli che non volevano venir via. Ha detto:
« Hai fatto bene. Adesso, lasciala andare. »

Di Chiara Pagliochini

L'agenzia dei suicidi. Cap.25

He rushed beyond the barrier and called to her to follow. He was shouted at to go on, but he still called to her. She set her white face to him, passive, like a helpless animal. Her eyes gave him no sign of love or farewell or recognition.

Eveline, J. Joyce


Andrew Wyeth, Christina's World

Stamane sono tornato sul colle. Mi sono messo nel punto in cui stavo due anni fa, in questo stesso giorno. Ho faticato a ritrovare la chiazza d’erba e per un po’ Ryanair ha miagolato e annusato, indeciso e impaziente quanto me. Adesso che l’ho trovata posso sedermi a pensare e scrivere ancora quello che resta. Ero confuso se tornare proprio qui, ma poi ho pensato che questo è l’unico posto dove riesco ad essere davvero sincero, dove non mi tocca fingere di navigare tra siti porno e dove nessuno mi fruga nei cassetti. Qui non ci sono cassetti. O meglio, c’è soltanto il mio, un cassettino malconcio, lacerato dal troppo uso, di cui solo il ricordo ha la chiave.
Due anni fa, in questo stesso giorno, sono venuto quassù. La casa era vuota, non c’erano madri e padri per l’aia e tutto sembrava tranquillo, predisposto per farmi piacere. Era quasi il tramonto e l’orizzonte scolorava e non potevo pensare che a quello che avevo fatto. Più ci pensavo e più avevo male e allora mi raccontavo delle storie fasulle, ingigantivo le cose, le restringevo, provavo la capacità della mia lente mentale. E ho lavorato tanto con quella lente, così tanto in questi ultimi due anni, che non so se sono più io o sono la lente o il colle o chissà che altro. Quando penso, non so più se sto pensando una cosa vera o se al contrario tutto è inventato. Non so più quando mento e quando faccio il serio, quando mi arrabbio e quando scherzo. Il confine tra un’emozione e l’altra, il confine tra la realtà e la bugia è diventato così sottile che non mi raccapezzo più. Forse non avrei dovuto scrivere. Non avrei dovuto scrivere mai.
Ma ora è troppo tardi. Ora tutto è già scritto, tranne quello che rimane. E se non scrivo anche questo, non riuscirò a perdonarmi. Se non riesco a perdonarmi, non riesco a guarire. Se non guarisco, sono perduto. E allora a che è valso? Se sono perduto adesso che quasi tutto è già scritto, perché non mi sono perduto prima, quando ancora niente lo era? Non posso lasciare le cose a metà.
Quel giorno sono venuto qui dopo il trattamento. Sono venuto solo, a metà di me stesso, i piedi che premevano l’acceleratore senza che ne avessi coscienza. E non ebbi coscienza di quello che era stato fino a che non sedetti su questa chiazza d’erba e mi portai le mani alle palpebre, spremendole come per staccarne via le scorie. Le immagini si svolgevano e si riavvolgevano, leggermente sovrapposte l’una all’altra, così che non avevano stacchi o contorni o pause: sfumavano l’una nell’altra in un cangiare continuo di colori violenti, di luci allucinate e di voci.
Prima era Irene rannicchiata tra le mie braccia, Irene che mi staccavano di dosso come fosse un cerotto o già qualcosa di morto che dovevano subito metter via. Iris le prendeva le braccia, Ida la afferrava per i piedi, e a un cenno comune la sollevavano, la trasportavano alla vasca. Sembrava la figura di una qualche traslazione, un Cristo molto magro con un camicione per sudario.
Arrivate alla vasca si girarono a guardarmi e Iris urlò, una voce tesa come filo di rasoio:
« Venga a darci una mano! »
Suppongo di averlo fatto, perché ricordo la mia mano sotto la schiena di Irene, ricordo il corpo curvo tra le mie braccia e calato lentamente, lentamente nella vasca. Quel peso così misero da sollevare. La testa era ancora fuori dall’acqua. Iris le sfilò via il camicione, lo gettò da un lato, per terra, tutto bagnato. Allora vidi il suo corpo nudo sotto la superficie trasparente, i petali che si accalcavano contro i suoi capelli, le lambivano il mento, e gli occhi chiusi. Iris compose le braccia lungo i fianchi e le chiuse le gambe, allineando al millimetro le piante dei piedi. Entrava nella vasca per intero.
Le tenni una mano sotto l’acqua, liscia, pesante di inerzia. Chinato sul bordo, lanciai sguardi disperati alla sua nudità, imprimendomi nella memoria tutte le forme e le vallate, separando i seni l’uno dall’altro, carezzando entrambe le labbra con un movimento che voleva essere timido, e insieme consolatorio. Era la mia bambina ignara. Era una creatura cui non si poteva far del male.
Ricordai i suoi occhi. Quegli occhi che erano la prima cosa quando la si guardava, quelli che ti facevano dire, « C’è qualcosa in lei che voglio disseppellire ». Quanto avevo disseppellito? E quanto sarebbe rimasto sepolto? E mai più quegli occhi si sarebbero spalancati in uno sguardo di rimprovero? Come quando aveva detto « Quello di Sandokan! », anni, secoli fa.
Poi Iris disse « È il momento », ed io l’avvertii anche se non stavo ad ascoltare. Non lasciai la mano. Vidi che spingeva Irene per le spalle, la faceva scivolare più a fondo nella vasca, e il mento, la bocca, il naso, gli occhi, le sopracciglia, la fronte, l’attaccatura dei capelli finivano sotto il pelo dell’acqua. I petali, intorbidati, mulinarono in un moto ribelle. Le labbra si schiudevano come per riflesso. Cominciava ad affogare.
E io che dovevo restare immobile, perché era quello che tutti volevano. Io che dovevo restare immobile perché era quello che Irene voleva. Era la mia prova d’amore, di devozione, l’ultimo modo per ottenere la sua mano. O per tenere la sua mano. Che differenza faceva?
Ma poi. Non sarebbe dovuto accadere. Accadde.
La sua mano si contrasse nella mia. La lasciai, e allora vidi contrarsi il muscolo lungo della coscia e poi l’arco delle sopracciglia e sapevo quello che andava fatto. Solo, non lo feci. Iris mi spinse da parte e le tenne le spalle dentro l’acqua, con uno sguardo che solo il Demonio avrebbe saputo interpretare. Mi avventai su di lei con un gemito, la buttai di lato e quella cadde dalla pedana, tra Ida che urlava e mi strappava i calzoni dalle gambe. Chino sulla vasca afferrai le braccia di Irene e le tirai fuori la testa. E tirai e trascinai e spostai e afferrai e poggiai e il suo corpo tutto bagnato poggiò sulla pedana con lo stomaco gonfio. Io che le insufflavo aria nei polmoni e schiacciavo la cassa toracica, la forzavo fino a romperla e contavo, un numero imprecisato di volte e di secondi, ma un ritmo che conoscevo o avevo imparato o mi veniva da qualche parte solo per salvare lei. E l’acqua tornava su, chissà dov’era finita, prima un filo, poi una chiazza, poi lei che tossiva e vomitava e viveva.

Dopo, è una sequenza slegata e vaporosa. Sono urla e pianti e strapparsi di capelli e scuotere la testa perché non doveva andare così. Avevo rovinato tutto ed era adesso, adesso, che era tutto finito. Non prima, non quando tutto sarebbe finito davvero. Adesso che nulla finiva finiva tutto.
Ricordo Iris, la treccia sfasciata, la faccia stravolta, tirarmi via da Irene e dalla sua mano. Ricordo la forza dello strattone all’indietro, io che mi lasciavo portar via senza forza o che lei che mi portava via con chissà quale. Ricordo la porta, prima chiusa, poi aperta, ricordo la sedia, lei che disse « Si sieda! ». E sedetti.
Ricordo la furia silenziosa con cui mi lanciava addosso le sue parole, io che non facevo niente per scansarle, che le prendevo in pieno petto, che le portavo tutte a spalla.
« Amare! Se proprio vuol amarla, deve amarla per quello che vuol essere, non per quello che è. Amarla per quello che è! Si rende conto! Amarla così com’è, come lei si crede di essere. Il suo amore tanto orribile quanto l’idea che ha di se stessa. Ma come può venirle in mente? Come? Che si possa accettare un amore così meschino e limitante e scialbo. Chi lo vorrebbe? Chi lo vuole? Che senso ha? »
« Lei non capisce! Non ha mai capito! E questo atto è il delitto più osceno che potesse commettere! A un minuto dalla più grande perfezione raggiunta… la più imperfetta delle cose! Come si può non capire? Non si può! »
« Se avessi sospettato anche solo una volta che lei potesse compiere un atto così immondo, mancare di rispetto a tutti noi così, se l’avessi sospettato l’avrei cacciata a calci in culo! Non merita di restare un secondo di più! »
« Uccidersi? Non merita la morte più di quanto non meriti l’amore, due cose che nelle sue mani diventano buffe e inutili, senza senso come cerini. Due cose che lei svaluta e deprezza e disprezza. Uccidersi? Si uccida! Ma se ne vada di mezzo ai piedi! Si impicchi a un albero! Faccia lei! »
« La prima volta che ha messo piede in questo ufficio… io pensavo che fosse un uomo sciatto e stupido, ma che potesse macchiarsi di un delitto così! Mai e poi mai! E mai più! Non un momento di più! »
« Vederla? E lei pensa che voglia vederla, pensa davvero che voglia vederla! Dopo questo, la mancanza più grave, l’insulto supremo. La veda! La veda pure, se le garba. E che possa portare per sempre il ricordo dei suoi occhi che la odiano. Che possa restare con lei per sempre, che possa non scordarlo mai, che possa stamparsi nel suo petto come un cancro o un anatema, che possa non aver pace, non aver fame, non aver sete. Che possa morire consumato e dissanguato e tra atroci sofferenze. Perché lei se lo merita, se lo merita tutto! »
« La veda, le ho detto! La veda, è ancora qui? »

La vidi.
Era distesa sul lettino, le spalle rialzate, coperta fino al petto da un lenzuolo bianco. Stava con la testa voltata, i capelli fradici tutti incollati al collo e alla fronte, rannicchiata, spaventata, la labbra viola. Le luci erano spente e la vasca era svuotata ed era asciutto per terra, come se tutto fosse stato rimandato a un’altra volta. Non sapevo cosa pensare. Se essere felice, se no.
Non si voltò quando le fui vicino. Le toccai una guancia, sobbalzò, si fece più in là. Respirava appena ed era tutta un tremore sotto il lenzuolo. La chiamai per nome. Non mi diede un segno. Le tenni la mano e lei mi lasciò fare, ma era come tenere la sua mano sotto l’acqua, come tenere la mano di un dormiente o di un cadavere. Allora la scossi per le spalle e la chiamai e non smisi di chiamarla finché i suoi occhi non si appuntarono sui miei.
« Irene… Irene… Irene… Irene… »
Le strinsi le guance tra i palmi delle mani, le circondai la schiena e premetti le labbra sulle sue, le mie labbra calde sulle sue labbra fredde e viola, e lei non rispose, non disse niente. Era come baciare un morto.
« Irene… Irene… »
Non era mai stata più brutta. Mi parve bellissima.
La baciai, la baciai ma lei restava sempre inerte, le labbra intirizzite come marmo freddo; allora smisi e guardai i suoi occhi. E mentre mi allontanavo dal lettino sapevo che non c’era in essi nessun segno di addio o di perdono o di ricognizione.

Sono passati due anni da allora.
Non un giorno ho mancato di chiedermi che ne sia stato di lei. Non sono tornato a cercarla. Non ripasso dalla strada dell’agenzia. Certi giorni mi sveglio e cerco il corpo al mio fianco e, sentendolo, sono certissimo che sia morta. È morta perché non potrebbe essere altrimenti. Il rito della vasca è stato replicato in ogni suo dettaglio e portato sino alle estreme conseguenze. È morta e non rimane traccia di lei negli archivi, perché Iris fa un fuoco di tutti i fascicoli.  
Certi giorni invece ne sono meno certo. Sono giornate difficili, che cominciano col piede sbagliato. Già poggiandolo sullo scendiletto so che sarà una giornata così. E allora cerco Irene sul fondo della tazza e nello scarico nel bagno, la cerco nello specchio mentre mi faccio la barba e la vedo là all’incrocio, davanti all’edicola. È magra, lunghi capelli scuri, voltata di schiena. Vorrei chiamarla e sono certo che sia lei, ma la mano mi ricade lungo il fianco, la voce si smorza in gola. Non ho nessun diritto sulla sua vita, come non ne avevo sulla sua morte. E allora è meglio lasciarla stare.
È morta. Non è morta. Che differenza può fare? Che differenza può fare, quando è morta dalla mia vita comunque?
E se vive e ha trovato quel che cercava, se vive ed ha figli e piccoli momenti di sconforto e tante padelle nella credenza, che differenza fa. E se muore e la sua carne è lì che ingrassa i vermi e la terra bella concimata in cima, che differenza fa. Non esiste più.
Sono passati due anni da quando l’ho vista per l’ultima volta e sono venuto sul colle e mi sono seduto su questa chiazza d’erba. Ho pensato a tutti i motivi che mi tenevano vivo. Ho pensato a tutti i motivi che avevo di morire. Non sono riuscito a fare una stima. Non sono bravo a contare. Ho pensato che non avevo mai voluto dipendere da qualcuno e adesso ne dipendevo al punto che si decideva della mia vita e della mia morte, e la mia opinione non la chiedeva nessuno. Poi ho guardato il ciliegio e ho pensato a casa, ho pensato a Cassandra, ad Ascanio, a Greta, ho pensato a quella gente già morta che pure vive, ho pensato che potevo fare come loro. Ho pensato che potevo far finta di vivere perché era così che faceva la gente. E poi ho pensato a Ryanair, Ryanair che miagola nelle stanze vuote – e adesso gli allungo una carezza sulla testa. Ho pensato che non potevo morire, perché c’era gente che dipendeva da me. E avere qualcuno che dipende da te, più anche che dipendere da qualcuno, è la più grossa, la più umana delle prigioni.

Di Chiara Pagliochini