venerdì 27 marzo 2015

La chimera, Sebastiano Vassalli

« Continuarono tutti a vivere nella gran confusione e nel frastuono di quel loro presente che a noi oggi appare così silenzioso, così morto, e che rispetto al nostro presente fu soltanto un po’ meno attrezzato per produrre rumore, e un po’ più esplicito in spietatezza… Infine, uno dopo l’altro, morirono: il tempo si chiuse su di loro, il nulla li riprese; e questa, sfrondata d’ogni romanzo, ed in gran sintesi, è la storia del mondo ».


Se La Chimera fosse il romanzo di Antonia, la giovanissima strega bruciata a Zardino nel 1610, sarebbe davvero un fallimento. Ma dal momento che non lo è – e forse ci ho messo 8 anni per capirlo – è bene che ne scriva per chiarirmi le idee.
Quando ero in seconda superiore la professoressa di italiano ci consigliò di leggere questo romanzo. Promise efferatezza, torbidità, sofferenza garantita. La stessa che provai, qualche anno dopo, a una mostra di strumenti di tortura, di fronte a un “semplice” palo da impalatura. La sofferenza che ti si attacca alle ossa in risposta a tutta la sofferenza del mondo, alla crudeltà inflitta, senza scopo e senza pentimento, su donne il cui nome si è perso nel passato. Ma, nella Chimera, io non trovai questa sofferenza. O, almeno, non la trovai nella forma urlata in cui speravo, la forma cui ogni lettore segretamente anela per raggiungere quel tanto di catarsi che la letteratura consente.
Sulla sofferenza di Antonia, Vassalli è straordinariamente parco di parole, quando non lo si voglia tacciare di reticenza. Un po’ come quel « la sventurata rispose », dietro il quale ogni liceale ha desiderato spiare almeno una volta, per rendersi più accattivante la narrazione manzoniana. Ma no: c’è poco di accattivante in Vassalli come in Manzoni. Poco sentimento, pochissimo eros, poco sangue, poca empatia. In entrambi, il romance sparisce sotto le gride, il latinorum e la volontà documentaristica, come se non fosse altro che un pretesto per parlare del passato che fu e far intendere il presente che è.
Per questo l’opera di Vassalli somiglia più a un testo di storia sociale che a un romanzo. Non che questo sia un male. La storia di Antonia, degli abitanti di Zardino – il paese in cui visse nei primi anni del Seicento – e di svariati altri, vescovi, prelati, boia, camminanti, risaroli, bravi, signorotti, è troppo affascinante per non essere portata alla luce. È la storia che ognuno di noi vorrebbe aver scoperto negli archivi del proprio paese, non per vantarsi del male che fu, ma per puntare il dito anche contro se stessi, contro il genere umano che sempre – in qualsiasi luogo, con qualsiasi mezzo – fu vizioso e al tempo stesso ingenuo, ottimo e delirante, furbo e dolcissimo.
« C’era forse un senso, una ragione in tutto questo? E se non c’era, perché accadeva? Ecco, pensava: io sto qui, e non so perché sto qui; loro gridano, e non sanno perché gridano. Le sembrava di capire, finalmente!, qualcosa della vita: un’energia insensata, una mostruosa malattia che scuote il mondo e la sostanza stessa di cui sono fatte le cose […]. Anche la tanto celebrata intelligenza dell’uomo non era altro che un vedere e un non vedere, un raccontarsi storie più fragili d’un sogno: la giustizia, la legge, Dio, l’Inferno… »

Più di ogni altra cosa, di questo romanzo mi resteranno i paesaggi: i mutamenti della bassa al mutar delle stagioni, le inondazioni del Sesia, le risaie a specchio, i prati infiammati di papaveri. Paesaggi così vivi da ammaliare il lettore e da lasciarlo con un fondo inebetito di nostalgia. Nostalgia del Seicento, degli spagnoli, dei processi per eresia? Forse, nostalgia di autenticità. 

mercoledì 11 marzo 2015

XI.


Trafitti al cielo smaltato d’azzurro
in cima al colle spazzato dal vento
sediamo sotto la bella cupola
del santuario di San Luca, a cui cieli
come questo hanno portato stormi
di pellegrini. Per la stessa strada
loro siamo ascesi a questo prato,
con la stessa devozione, ammirati
(anche se loro credono al creatore
del cielo; noi – che si sia creato da sé).
Ma per noialtri la grazia ha un prezzo,
un pensiero cadente dalla volta
del cielo, il pensiero che siamo sotto
il cielo una volta e una volta sola.
Il nostro amore non avrà sette vite
da spendere in corpi simili a questi
sotto cieli immensi simili a questo.
Non c’è reincarnazione per chi crede
né per noi: non siamo meno effimeri
di una candela. Non abbiamo visto
arsa la biblioteca di Alessandria
e non faremo i viaggi interstellari
benché l’idea ci piaccia, e ne ridiamo
e ne piangiamo, passami un fazzoletto,
festeggiamo il nostro amore mortale. 

Di Chiara Pagliochini

giovedì 5 marzo 2015

X.


Se potessi anche stasera sentire
le cicale entrare dalla finestra
come quand’ero bambina e nelle sere
d’estate tu raccontavi le storie
della tua vita spesa tutta a crescer
figli, i tuoi, due, quelli degli altri, noi
(e ognuno aggiunge un fregio alle tue storie)…
Se potessi, io non vivrei oltre quei giorni
gli unici veri che il mio cuore visse.
L’età mi ha strappato le cicale
dal cuore, ma non c’è riuscita con te.

Di Chiara Pagliochini 

mercoledì 4 marzo 2015

IX.


Questa mattina neanche il sole
mostra il suo inganno
contorno giallo
fluorescenza su fatiscenza:
non ha truccato gli zigomi
dei casermoni.

Città sgraziata, disgraziata
fedele al degrado, infedele
alla legge (così sta scritto
su un muro dei tuoi):
io non ti amo
io piango tutte le mie colline.

Non amo i cani che cagano
ovunque, gli strilli alle cinque,
le offerte di rose, calzini,
di bici, l’olezzo dei cibi,
quelle tue torri oscenamente
storte – furono il primo segno
di stortura morale? Molti
dolcemente ti cantarono
io invece scoperchio l’incanto
e ti dis-canto una canzone
triste.

Florida forse una volta, ora
falsa come una donna vecchia
ti crogioli in sfondati miti
di fondazione, belle fole
se credi alla rivoluzione
(che in cuor loro credono tutti
non accadrà). Grassa Bologna
ingrassi del dolore di molti. 

Di Chiara Pagliochini

domenica 1 marzo 2015

Il contesto, Leonardo Sciascia

« Eccellenza, mi pare che abbiamo abbandonato la pista giusta per seguirne una falsa. Dico per l’assassinio dei giudici ».
Il ministro guardò Rogas con compatimento e diffidenza. Disse « Forse. Ma continuate a seguirla ».


Così, signor Sciascia, ci conosciamo. Ho tanto sentito parlare di lei, ma non avevo mai letto qualcosa di suo. E questo piccolo testo… è un gioiello, una perla rara. Mi dispiace soltanto non abbia scritto qualcosa di più.
È interessante, Leonardo – posso chiamarti Leonardo? – il modo in cui raccogli gli ingranaggi del giallo e li torci fino a farli estranei. Ci sono questi ammazzamenti di giudici, un ispettore… E il colpevole lo scopriamo già a pagina 30. Ma poi la realtà si incastra nel crimine, la realtà criminosa per cui quel crimine è un incidente necessario. L’ispettore ha già scoperto il colpevole? Più veloce di un Poirot, più efficiente di uno Sherlock! Benissimo, ma adesso basta giocare: ci sono altri colpevoli da perseguire, nemici dello Stato su cui possiamo e dobbiamo scaricare fardelli di responsabilità, perché in un paese come il nostro verità e giustizia sono solo etichette da appiccicare a piacimento.
E c’è di più. Individuare un colpevole, il colpevole non è affatto importante. E qui la signora Christie avrebbe un mancamento. Non è importante, perché siamo tutti colpevoli. Nella società di massa non c’è un solo individuo che sia innocente. Anzi, nella società di massa non c’è un solo individuo: la massa è un unico corpo criminale. Per aver ragione della massa criminale, c’è bisogno di uno stato criminale. Uno stato che si auto-conservi attraverso il disprezzo e l’esercizio dell’iniquità, che colpisca nel mucchio, che spari sull’innocente ed elevi il boia al solo scopo di istillare nella massa il senso dell’insensatezza della giustizia e il necessario timore della stessa.
Di fronte alla perversione dell’amministrazione della giustizia, all’ispettore – uomo libero, servente della verità – non resta che adeguarsi al meccanismo. O morire. Ecco che tu scrivi, in un memorabile passaggio,
« Dentro il problema di una serie di crimini che per ufficio, per professione, si sentiva tenuto a risolvere, ad assicurarne l’autore alla legge se non alla giustizia, un altro ne era insorto, sommamente criminale nella specie, come crimine contemplato nei principi fondamentali dello Stato, ma da risolvere al di fuori del suo ufficio, contro il suo ufficio. In pratica, si trattava di difendere lo Stato contro coloro che lo rappresentavano, che lo detenevano. Lo Stato detenuto. E bisognava liberarlo. Ma era in detenzione anche lui: non poteva che tentare di aprire una crepa nel muro ».

Leonardo, tu questo lo pubblicavi nel 1971 – e certo l’avevi scritto prima. L’avevi scritto, forse, gli stessi giorni della strage di piazza Fontana. Tre anni prima della strage di piazza della Loggia. Tre anni prima della strage dell’Italicus. Quattro anni prima dell’omicidio Pasolini. Sette anni prima del rapimento Moro. Nove anni prima della strage della stazione di Bologna. E potrei continuare. E potrei allargare il quadro. Potrei estendere la pestilenza della detenzione a tutto il mondo come oggi lo conosciamo. Un mondo che risponde perfettamente alla logica di un titolo pirandelliano, Così è, se vi pare, e che non risponde a nessun’altra logica.