lunedì 21 settembre 2015

Proiettili

Odio le persone
che sparano sulle persone
quelli che sparano con le pistole
quelli che sparano con le parole
i primi sono malvagi
i secondi anche
vigliacchi. 

Di Chiara Pagliochini

sabato 19 settembre 2015

L'innocenza, Tracy Chevalier

«La tensione fra due forze contrarie fa di noi ciò che siamo. Noi le abbiamo entrambe, mescolate nel cuore, dove si danno battaglia e mandano scintille. Non siamo solo luce, ma anche tenebra, non abbiamo solo la pace ma anche la guerra. Siamo innocenti eppure smaliziati […] E c’è una lezione che faremmo bene a imparare: il mondo si rispecchia intero in ogni fiore».


Quando un romanzo della Chevalier finisce, qualcuno nel mondo si ritrova con la testa ciondoloni da un lato, una guancia appoggiata al pugno chiuso, il gomito puntellato sul tavolo, a chiedersi perché abbia intrapreso quella lettura e cosa sperava di trovarvi che invece non c’è.
Dopo aver letto due libri di questa autrice statunitense (il primo fu Strane creature), ho infatti l’impressione che la sua scrittura continuerà sistematicamente a mancare l’obiettivo che io pretendo da essa, lasciandomi perplessa e spazientita. E, se sono un po’ dura, è perché mi rattrista pensare che un romanzo di così belle promesse come L’innocenza, che scomoda persino il signor William Blake, finisca per non mantenerne alcuna.
Londra, fine Settecento. La famiglia Kellaway si trasferisce dal bucolico Dorsetshire alla caotica capitale inglese inseguendo un circo. Di essa fanno parte Thomas, intagliatore di sedie, sua moglie e due figli adolescenti, Jem e Maisie. Maisie si innamora di John, acrobata a cavallo, donnaiolo e figlio del proprietario del circo. Jem si innamora (ma non lo sa) di Maggie, monella londinese che nasconde un segreto. Vicini di casa dei Kellaway sono niente di meno che William Blake, poeta e incisore dalle scomode idee politiche, e la sua consorte. Il tutto è condito da una buona dose di pericolosa nebbia, pub, tagliagole, sfruttamento e prostituzione minorili, innocenza rubata, poesia…

Sembrerebbe un romanzo fantastico, neh? Ecco perché mi arrabbio: poteva essere un romanzo storico davvero ben riuscito, se la Chevalier non si fosse limitata ad accennare a ognuno di questi elementi senza approfondirne alcuno (sulla questione dell’approfondimento si veda alla voce: caratterizzazione psicologica mancata dei personaggi). Non basta la varietà degli ingredienti per fare una buona insalata: bisogna condirla. E, a mio avviso, qui c’è poco sale.
Persino il Blake tratteggiato dall’autrice risulta appena abbozzato, non più che una figura trasognata, estremamente gentile e con i Canti dell’Innocenza sempre sulle labbra. E qui lasciate che esprima tutto il mio risentimento verso le scelte editoriali: sono d’accordo sul fatto che i versi di Blake di cui la Chevalier infarcisce la narrazione andassero tradotti, ma non si poteva scegliere una traduzione graziosa, che almeno non tradisse l’irrinunciabile musicalità dell’originale? Incontrare i Canti dell’Innocenza e i Canti dell’Esperienza in questa veste mi suscita un moto di spontanea repulsione. Vi sfido a confrontare (rigorosamente con lettura ad alta voce):

Io mi aggiro per ogni strada urbana,
dell’urbano Tamigi lungo il corso,
e impressi in ogni volto segni incontro,
segni di sofferenza e abbattimento.
In ogni grido di qualunque Uomo,
nel pianto di paura d’ogni Bimbo,
in ogni voce e proibizione avverto
le manette forgiate dalla mente. 

Con:
I wander thro’ each charter’d street,
Near where the charter’d Thames does flow.
And mark in every face I meet
Marks of weakness, marks of woe.
In every cry of every Man,
In every Infants cry of fear,
In every voice: in every ban,
The mind-forg’d manacles I hear…

Tutta questa filippica e alla fine hai dato ben 3 stelline?, vi starete chiedendo. Certo, perché L’innocenza non è un brutto romanzo. Solo, secondo me non è abbastanza bello. È in queste sfumature che si annida il risentimento del lettore. 


sabato 5 settembre 2015

Mia cugina Rachele, Daphne Du Maurier

«Eravamo insofferenti nei confronti dei nostri simili, ma comunque bramosi d’affetto; la timidezza aveva tenuto sotto chiave qualunque impulso, ma poi il cuore era stato toccato. E quando il cuore fu toccato, per noi sembrò spalancarsi il paradiso e ci parve di possedere – sì, a entrambi – tutta la ricchezza dell’universo. Se fossimo stati diversi, saremmo sopravvissuti».


Il mio amore per Daphne Du Maurier è nato molti anni fa, quando, essendomi imbattuta per la prima volta in Rebecca la prima moglie, cominciai a inseguire la stessa storia in film, fiction e nel romanzo, fino a farla un po’ mia e quasi a volerla riscrivere in prima persona. Di questa autrice inglese dal nome francese amo le atmosfere torbide e inquiete, la sensazione di scoprire un segreto a ogni curva della narrazione (anche in assenza di veri segreti) e l’idea dell’amore come forza logorante a cui non ci si può opporre. Nei suoi romanzi leggiamo di amori avvelenati e distruttivi, indissolubilmente legati al crimine e alla morte: è questo a renderli così peculiari, a tenere il lettore col fiato sospeso in un estenuante volta-pagina, nell’attesa che la tensione che finora l’ha attanagliato si plachi o culmini una buona volta.
Mia cugina Rachele è un ottimo esempio di tutto ciò e, nonostante riservi meno colpi di scena del più noto Rebecca, sa far dono di ore molto piacevoli. A renderlo speciale è l’ambiguità mai sciolta della figura di Rachele, un’avvenente nobile italo-inglese in cui si combinano tutte le sfumature del femminino. A narrarci di lei è il giovane Philip, ventiquattrenne di belle speranze, cresciuto nella tenuta di famiglia dal cugino Ambrose, per cui nutre una sfrenata venerazione. Per problemi di salute, Ambrose è costretto a trascorrere qualche tempo in Italia, dove conosce Rachele e se ne innamora. I due si sposano e vivono insieme per un anno a Firenze, finché Ambrose è stroncato da una malattia improvvisa. Philip è distrutto dal dolore, dall’odio e dalla gelosia per la donna che gli ha portato via colui che considerava un padre: la stessa donna che poi si presenta alla porta della sua casa e che sembra così diversa dall’idea che si era fatto di lei… Ma perché Rachele è venuta in Inghilterra? Per visitare i luoghi amati da Ambrose o perché ha qualche mira sul suo testamento, da cui è stata esclusa? Mi fermo qui: tutto questo avviene entro le prime 50 pagine del romanzo e ho intenzione di lasciarvi intatto il piacere del resto.


La storia, che sembrerebbe vincolata a una trama un po’ scontata, è resa accattivante e quasi sadicamente divertente dal personaggio di Rachele, che risulta la stratificazione di diverse personalità e luoghi comuni sul femminile. Rachele è tutto e il contrario di tutto: è la femme fatale che ruba il cuore degli uomini, conducendoli alla perdizione; è la strega che conosce le antiche arti delle erbe, che usa per curare e far ammalare; è la fanciulla che ha bisogno di essere salvata, anche da se stessa; è la donna del focolare, che sa amministrare una casa e tenere brillante la conversazione; è l’amazzone indipendente e impulsiva, che non si lascia comandare dagli uomini. Rachele sa calarsi in ognuna di queste parti e indossarle per il proprio piacere o per il piacere della manipolazione, l’arte in cui riesce meglio di tutte. Ma la cosa più interessare è avvertire che Rachele non è una donna più speciale delle altre, ma che anche noi, in quanto donne, siamo Rachele e nel corso della nostra vita ricopriamo un numero incredibilmente alto di ruoli, indossando maschere che il più delle volte sono state dipinte per noi dal sesso maschile. Per questo, in fin dei conti, l’anima nera (ma è davvero così?) di Rachele non suscita odio o sgomento nelle lettrici, ma un’inaspettata simpatia. Osservarla attraverso gli occhi ingenui di Philip conferisce alla narrazione un tono di nascosta ironia, che forse solo le lettrici coglieranno. Su tutto aleggia un pensiero frivolo e sbarazzino, ma che dà grande piacere: gli uomini… sono così semplici.