venerdì 19 aprile 2013

La palla

Andrew Wyeth

Faceva chiaro. La Lena disse che se ne andava al fiume a lavare i panni.
« Ti accompagno » seguì Antonia, che quei giorni non poteva staccarle gli occhi di dosso.
« Valle dietro » disse sua madre, squadrando la Lena con aria di disapprovarla. La Lena ricambiò lo sguardo come una gatta in calore, orgogliosa e cattiva, e non rispose niente. Raccolse d’accanto alla porta la conca con il lenzuolo del corredo. A stare nella cassapanca per tant’anni aveva preso di stantio e c’era bisogno di una rinfrescatina prima di stenderlo sul letto. La Lena si contemplò in testa l’immagine di quel letto, strinse le cosce e aprì la porta. Antonia la seguì.
In un canto del cortile, davanti al pero, Nino e Armando si litigavano la palla. Era un pallone vecchio, racconciato, che aveva visto più giorni brutti che giorni buoni. Nino diceva di averlo trovato lui, Armando gli diceva di giocarci anche col Giulio e con Carlotta.
« Se s’incapricciano della palla e ce la rubano? »
« Allora li meniamo, non c’è problema. »
Questo sembrò rassicurare Nino, che, messosi il pallone sotto il braccio, s’avviò con Armando verso casa dei Massenzi.
« I soliti deficienti » disse Antonia, vedendoli che si allontanavano.
« Dici così solo perché non ci puoi giocare più ».
« E chi l’ha detto che non ci posso giocare più? »
La Lena si voltò e le rivolse un sorriso di presa in giro. Antonia avvampò e si zittì. Due giorni prima, quando s’era tolta le calze, aveva visto rosso lungo le cosce. E le calze e la sottana erano tutti intrisi di una cosa che pareva… « Sto morendo! ». La Lena l’aveva guardata allo stesso modo dalla soglia della stanza da letto: « Non morrai ». Antonia s’era portata le calze alla bocca e aveva respirato l’odore aspro del suo sangue. La Lena aveva aperto il cassetto del comò e ne aveva cacciato le sue pezze mensili. « Ti serviranno », aveva detto nel passargliele. All’Antonia era morto qualcosa nel cuore.
Adesso, sentendo il fischio di Nino che riempiva l’aria, le veniva voglia di gettare alle ortiche quella sua nuova condizione e andare anche lei a giocare a pallone e fare quello che aveva sempre fatto. Ma la Lena seguitava a guardarla, come per vedere se lo faceva davvero. Antonia si morse la lingua e disse: « Andiamo ».
Faceva caldo quel giorno. Marilena si tergeva il sudore dalla fronte e cambiava spesso braccio per la conca. Gli aveva detto, « Alle tre al fiume », ma quel salame poteva anche non capire niente. Avesse capito o meno, doveva studiare un modo per liberarsi dell’Antonia. La nostalgia sembrava non fosse servita a niente. Sapeva che non l’avrebbe lasciata da sola un secondo e questo avrebbe mandato all’aria tutto, ma non poteva permettere a sua madre di castrarla. Se aveva tanta voglia di pararla, venisse almeno lei anziché Antonia. Con Antonia era pietoso, perché non capiva niente. E poi… mancavano sei giorni allo sponsale. Che differenza poteva fare? Chi ci avrebbe badato? La Lena era furiosa, si stizziva. Le venne voglia di tramortire l’Antonia, una botta in testa e trascinarla nella macchia. Il sole le faceva ribollire il sangue e il desiderio era così forte che si sentiva girare la testa. Le gambe la reggevano a malapena. Sentiva che avrebbe potuto uccidere qualcuno. Se Stefano non veniva, era lei che moriva.

***

Stefano tirò su i pantaloni e si grattò una guancia con due dita. L’orologio che gli aveva regalato il babbo faceva le due e mezza. Gli aveva insegnato la Lena a leggere l’ora, la lancetta più lunga e la lancetta più corta, e le sue dita fine e pulite, con le unghie corte, gli indicavano i numerini nel quadrante.
« E quando la stanghetta grande è più o meno qui, diciamo… ti conviene avviarti, così non fai tardi. E vedi di non far tardi, ché t’ammazzo. Guardami negli occhi, m’hai capito? »
Gli aveva posato una mano sulla coscia, vicino all’abbottonatura dei calzoni, e Stefano s’era spostato per tirarla via. « Io vengo, ma adesso ferma, c’è la mamma ». La Lena l’aveva guardato come se lo disprezzasse e, anche se Stefano sapeva che non era vero, s’era sentito in quel momento proprio un verme. Si era sporto per baciarla sulla guancia, ma il suo bacio era stato mal accolto.
« Tesoro, tu non porti pazienza ».
« Ne ho portata pure troppa, se è per questo. »
« Ma sei giorni… »
« Non capisci che mi sento di morire? »
« Che ti credi, che io no? Che non ti voglio? »
« Non mi vuoi » disse la Lena, risentita.
« Amore, io ti prego… »
« Vieni alle tre ».
« Fammi vedere, ti prego ancora, la lancetta ».

***

Quando il pallone aveva raggiunto il punto più alto della sua parabola, su nel cielo schiantato d’azzurro, Carlotta aveva fatto un’O con la bocca. Adesso, mentre riscendeva e travolgeva nel tragitto la finestra del piano di sopra, il vetro che era chiuso, chissà perché, la sua O riprese forma in uno strillo. E non sappiamo se fu prima lo strillo o prima il gracchio dei frammenti di vetro e la palla che sul pavimento della stanza rimbalzava cupamente una volta ancora.
« L’avete combinata grossa » disse lamentosamente – ma anche divertita – a Nino. Armando si mise le mani nei capelli.
« Vi conviene scappare, prima che chiamino i carabinieri » disse Giulio, battendo sulla spalla di Armando. Un angolino della sua mente adocchiava la palla di là della finestra rotta, tutta soletta e racconciata. Sarebbe stata loro, se Nino e Armando se la battevano. Perciò bisognava convincerli. Intercettò con lo sguardo Carlotta, per vedere se gli avrebbe retto il gioco. Carlotta annuì.
« È già successo sette volte! Papà ha detto che all’ottava… »
« … sparava o chiamava i poliziotti » disse Giulio.
Nino e Armando si scambiarono un’occhiata. I piccoli pomi d’Adamo scattarono contemporaneamente. Si levò un polverone per l’aia. Si videro le loro zampe che correvano. Giulio e Carlotta se ne ridevano della grossa.

***

« Sbatti più forte » gridava la Lena, sbattendo il lenzuolo contro l’argine levigato. Lo sciacquio della stoffa zuppa contro la pietra era un rumore chiaro che dava vertigine. Aveva le maniche rimboccate e l’orlo della gonna, tirato su, scopriva polpacci bianchi e forti. Antonia sbuffava.
« Devo fare pipì » disse a un tratto la Lena « Tu non ti muovere, capito? »
« Mi sento anche poco bene » aggiunse « Tu non ti muovere, mi ripiglio ».
Antonia la guardò come si guarda un tavolo vuoto. Se sospettava qualcosa, non dava a vederlo e comunque non sembrava così intelligente. Ancora con la gonna sollevata, la Lena saltò su un sasso piatto e passò, di sasso in sasso, oltre il torrente. Arrivata sull’altra sponda, si sciolse la gonna, salutò Antonia con la mano e gridò ancora di non preoccuparsi, che sarebbe tornata subito. Poi si voltò e si incamminò verso il fitto della macchia di noccioli.
Non aveva fatto che pochi passi quando sentì un fischio più avanti. Aguzzò la vista e distinse una sagoma acquattata dietro un cespuglio. Il cuore le scoppiò a battere in mezzo alle gambe. Era il caldo, forse, o la certezza isterica che Stefano stava acquattato dietro un cespuglio ad aspettarla che le faceva venire le palpitazioni. Scrollò la testa a destra e a sinistra, come per travasare le idee da una parte all’altra e fare ordine nei propri pensieri. E sembrava in qualche modo una papera patetica, che avanzava goffamente ma impettita. Sotto le suole, scricchiolavano le foglie.
Stefano si alzò in piedi. Stava zitto.
Lei disse, un po’ commossa, « Sei venuto », e gli passò la mano bagnata sulla guancia e sentì il ruvido sotto e le fece piacere. Stefano la baciò piano sulla bocca.
« È così stupido che dobbiamo così… Siamo fidanzati » boccheggiò la Lena, rossa in viso.
« Se non vuoi, aspettiamo soltanto altri sei giorni ».
« Ma io voglio, è così stupido, non credi? Come a dire, adesso no, poi fate pure. E la mamma mi fa sentire un’assassina. L’Antonia che vorrei prenderla e strozzarla. Mi guardano in un modo così stupido. Le odio. E sì che sono donne pure loro. »
« I vecchi ci tengono a queste sciocchezze. Ma l’Antonia, poveretta, non ha colpa. »
« Non m’importa. »
« Non facciamo grossa colpa neanche noi » disse Stefano, facendola ridere. Poi la prese tra le braccia. La Lena si lasciò andare.

***

« Non potremo tornare a casa mai più » disse Nino, tutto contrito.
« Ma perché? » chiese Armando, tirandolo per la manica.
« Perché ci cercheranno a casa prima di tutto. E se ci trovano lì ci arrestano. E pensa come sarebbero dispiaciute la mamma e l’Antonia. E c’è pure la Lena che si sposa. È un casino ».
« Ma non ci cercheranno se scappiamo? »
« Che ci cerchino pure » disse Nino e nella sua voce risuonò la prima nota dell’età adulta « Non ci troveranno mai ».

***

Altro che non allontanarsi, la vescica le doleva da scoppiare. L’Antonia mollò il lenzuolo sulla pietra e seguì la Marilena oltre il torrente. Aveva ancora su le pezze e le faceva disgusto che qualcuno potesse vederla e, a dire la verità, le faceva disgusto vedersi. S’inoltrò nel boschetto finché non fu sicura che non ci fosse nessuno. Ogni scricchiolio di ramo le dava un sobbalzo. In una zona sgombra si piegò sulle gambe e tirò su la sottana e la gonna. Il terreno sotto i suoi piedi si intrideva di rosso. Ad Antonia veniva lo stupore del sangue. Nel guardare la macchia che si allargava c’era qualcosa di schifoso e di attraente, l’attrazione che si prova verso una carcassa, verso un feto, una passione di creazione e decomposizione. Per la prima volta Antonia si sentiva proprio viva, viva come se avesse coscienza dei propri pensieri. Ed era, in un certo senso, così brutto.
Poi sentì un rumore alla sua destra. In fretta e in furia s’aggiustò le gonne, si rizzò sulle gambe. Seguì un rumore, un altro rumore, quasi un miagolio. Si mosse nella direzione da cui veniva. E restò a guardare il rumore a bocca aperta.

***

« Non mi fa così male » disse la Lena, aggiustandosi le dita meglio dentro.
« Ma sicura? » Stefano la guardò da sotto in su, più morto che vivo. Era rosso, sudato, sbuffava.
« No, no… La miseria! »
« Vedi, allora, che ti fa male? »
« Non è come pensi… così, ti prego continua… »
Strinse le cosce contro le dita di lui e si mosse di quel movimento incerto, improvvisato, come chi vuole qualcosa che non sa. Le sfuggivano, dai denti, piccoli ansiti.
Di botto Stefano disse, « Mi fa male ». Lena sbatté quelle palpebre di farfalla e lo fissò interrogativa. Stefano si mise una mano sul cavallo dei calzoni. La Lena avvampò, diede un colpo di reni, si tirò via. Stefano asciugò le dita sull’erba schiacciata.
« Tu mi dici che devo fare e io lo faccio » disse la Lena, senza staccare le parole. Non lo guardava. Il suo sguardo bucava il tessuto dei calzoni di lui, pochi centimetri di stoffa che non erano mai stati così spaventosi. Il palmo le si modellò sulla sagoma estranea. Guardò su. Stefano chiuse gli occhi e disse, « Sì ».
Con le dita fine e pulite sganciò i bottoni dall’asola. Quello in mezzo le diede più che un patema. Sospirò. Fu piena di paura.
Stefano disse « Tranquilla » e le guidò la mano.

***

Così era per questo tutto quel sangue? Per condurla, un giorno simile, in un posto simile, per sotterfugi e inganni così lontani dalla palla con cui aveva giocato fino a due giorni prima? Ne ebbe una rabbia così grande che avrebbe voluto mettersi a urlare. Ma no, non gliel’avrebbe data vinta. Non avrebbe dimostrato a Lena di essere la bambina che lei credeva che fosse. No, tutto quel sangue strillava che non era più una bambina, non era neanche una donna, non era che una cosa malformata, rovinata, bloccata e sporca. Una cosa che un giorno si sarebbe riscattata da quel sangue come Lena si riscattava dal suo. Il sangue era la sola via per accedere a meccanismi biologici ben più complicati. E benché nessuno le avesse mai spiegato queste cose, Antonia sentiva di penetrare a fondo nei misteri dei grandi. Sentiva che la palla non era niente in confronto al gioco che si spiegava ai suoi occhi. Ma di quella palla, solo di quella palla, aveva una grande nostalgia.

***

« Che diavolo ci fate là sopra? » gridò, spiando i rami nodosi che si dipanavano sopra la sua testa. La cesta col lenzuolo, gonfio d’acqua, le appesantiva il fianco.
« Zitta, zitta! » strillò Nino.
« Zitta che ci trovano! » strillò Armando.
« Scendete o vado di corsa a chiamare la Lena ». Il nome della Lena, chissà perché, aveva sempre un certo effetto sui bambini.
« Ma Tonia, Tonia… » pigolò Nino, scivolando un ramo più in basso. Antonia lo guardò dondolarsi come una scimmietta, che aveva visto soltanto nei libri di scuola.
« Dov’è la Lena? » chiese Armando, come per assicurarsi che la minaccia fosse vera.
« Ancora al fiume. Ma sta tornando » disse Antonia, alzando le spalle senza guardarli.
« Ma dobbiamo proprio scendere? Ci vogliono arrestare » piagnucolò Nino.
« Abbiamo perso la palla » piagnucolò Armando.
Antonia ricambiò lo sguardo dei suoi occhietti nel fogliame, grossi e neri come ciottoli tondi.
« Lo so » disse piano « Abbiamo perso la palla ».


Di Chiara Pagliochini 

sabato 13 aprile 2013

Il giardino



Il più caro tra i luoghi del mondo
(tra quelli che ho visto, pochi
ma tra i non visti saresti lo stesso il cantone
dorato), giardino di questa casa
che non possiedo, che lascerò forse
un giorno chissà se lontano.
Tra tutti i luoghi più dolce è tornare
a te nell’aprile dolcissimo,
al profumo macero delle margherite,
al giallo balzo dei denti di leone,
affondare il viso nei cespi di trifoglio
e seguire di corolla in corolla
la traiettoria delle vespe.

Il ciliegio è curvo sotto il peso dei boccioli
superbi e bianchi, gonfi come cotone.
Ne viene un odore spesso di zucchero,
quasi uno stordimento che vorresti imbottigliare
per mandarlo in un pacco a chi ami
lontano. Ma non c’è recipiente
che riesca a contenerlo
tranne questo, misero, della memoria
(o uno più falso, che fa di memoria
verso).

Grazie a te rinasce la poesia nel mio cuore
ogni anno come se sbocciasse
insieme al prato, al ciliegio, al cicaleccio
chiassoso degli insetti.
In te, in seno alle margherite,
ho viaggiato di rigo in rigo senza muovermi,
solo un libro in grembo, chiuso
su petali essiccati, custoditi per sempre
nel segreto tra due pagine
(Ivan Karamazov e Natasha Rostova
comunicano per il portale nascosto
di un fiore).

Lasciarti sarà un dolore non diverso
che tastare il vuoto di una persona scomparsa
e capire che si sarà anche noi quel vuoto,
si morirà e allora a che è valso
soffrire. Lasciarti sarà salutare
la persona che avrei voluto essere,
orgogliosa e fulgida quanto te,
mettere una pietra sopra il fallimento
di un ideale mai raggiunto.
Lasciarti sarà accettare che altri
ti calpestino, accettare le peste
distratte, gli steli spezzati, l’incuria
di chi non ti amerà come ti ho amato io.
Lasciarti sarà permettere
che si falcino i tuoi fiori senza un pianto,
che nessuno soffra lo scempio del decespugliatore,
che non ci si vergogni di reclamare
il possesso impossibile della primavera.

Con che cuore partire da te, separarmi?
Che consolazione in altri luoghi?
Nei miei occhi che ti guardano c’è più bellezza
di quanta se ne possa ricreare.
E ti voglio così bene che desidero per te
un destino di libertà non imbrigliata.
Cadrà la mano che ti falcia,
cadrà la pretesa, il dono di nominare
che fu dato in quel Giardino per errore
(dono tremendo, come carezza a una bestia feroce).
Cadrà l’umana supremazia non meritata.
E tu, non regolamentato, non misurato
neanche da versi come questi, avrai il dominio,
tu solo, degli steli, che toccheranno il cielo
se vorrai, basta volerlo, è una Babele
cui millenni di schiavitù ti danno accesso.
E corolle grandi come ombrelli e farfalle-ventagli,
rami che uniscono l’alba al tramonto,
tu solo deciderai di quanta bellezza fregiarti
e io ti giuro, non sarà mai abbastanza.

Di Chiara Pagliochini 

lunedì 1 aprile 2013

I sintomi


Ricardo Fernandez Ortega, Agua

Alimentando il fuoco esteriore,
ravvivando la brace come
non si può con l’anima spenta
(non la rassicurano
quieti gesti rassicuranti);

auscultando i lamenti del corpo
che lamenta il nulla, il non lamentabile,
un cavo di ghiandole, di pensieri felici;

assistendo con sconcerto al decadimento
di un orizzonte esterno di ferme convenzioni
non più così ferme;

e venute a cadere certezze e convenzioni
e moltiplicandosi le convulsioni corporee,
interrogo i miei sensi sciocchi come una pizia
non chiedendo altro che una pausa
da me, dal mondo, dalla paura
di me e del mondo

perché sono come morta e non lo sono
e mangio e parlo
come una bambola quasi vera,
meno vera di una vera bambola.

Dalle palpebre monta un’effervescenza
di lacrime che cascando scavano
un’acquasantiera nel bacino.
Nei fianchi stanno fitte le croci
di cui mi faccio il segno.
I reni si bagnano nel desiderio
del tuo corpo, delle costole magre,
della voglia franca e potente
della tua passione fra le dita.
Pulsa un secondo cuore nel mio sacrario.

Ma il catalogo delle cause, degli sfoghi cutanei
mi allontana dalla ricerca di una cura
che foglie sparse al vento suggeriscono
di inseguire in questi versi o nel tuo abbraccio.
Nei foglietti illustrativi non ci leggo
alcuna controindicazione.  

Di Chiara Pagliochini

domenica 13 gennaio 2013

Jules e Nadine

László Moholy-Nagy, 7 A.M. (New Year’s Morning). 

La nebbia saliva dai campi arati come un respiro. Nadine si figurava i semi rabbrividire gentilmente nella terra nera. Il finestrino del treno si apriva sul paesaggio in un alone circolare, pulito con la manica della giacchetta. Nadine guardava fuori dentro quel cerchio, aspettando il fischio.
Il treno doveva entrare a Shrewsbury alle dodici e trenta. Jules l’avrebbe aspettata sulla banchina. Era una bella giornata per fare l’amore.
Pensò a come giocavano con le parole, a come avevano sempre giocato con le parole. “Prendere una stanza” invece di “fare l’amore”, “l’affetto che ti porto” invece di “la voglia che ho di fare l’amore con te”… era una forma di pudore ancora, un modo per non smettere di cullare la propria infanzia, ma aveva anche qualcosa di morboso e di disonesto, che la faceva sentire sporca, impacciata. Usare le parole sbagliate era come un’ammissione di colpevolezza, la prova che c’era qualcosa di cui vergognarsi in una conclusione che avrebbe dovuto essere così naturale. E non era perché credesse in Dio, non era perché ricordasse le imbeccate di sua madre – gli dei e le madri sono fatti per quando sei bambina – ma perché non era una donna ancora e non si sentiva donna e sapeva che diventarlo significava perdere qualcosa. Non sapeva che cosa si dovesse perdere, non era qualcosa che si potesse circoscrivere. Forse quel pudore stesso, forse il sentimento di quella vergogna.
Venne il fischio. Erano le dodici e venticinque. Il piccolo orologio da polso lo annunciava senza alcun timore. Nadine si alzò e prese la valigia dalla rastrelliera, poi attese sulla porta dello scompartimento finché il treno non si fu fermato. Salutò con un cenno del capo una signora che rimaneva seduta. La valigia le sbatteva contro la coscia mentre camminava fino all’uscita più vicina. Un uomo in berretto grigio le sorrise e l’aiutò a scendere dal treno. Pensò che avrebbe voluto che fosse Jules.
Per qualche motivo, Jules non si trovava mai nel punto giusto. Ogni volta doveva strizzare gli occhi per cercarlo e non era mai sicura di averlo individuato finché non erano a pochi passi di distanza. E quasi non alzava gli occhi e non parlava finché non era sicura che fosse lui. La vista le si era stancata per gli anni nella sartoria e il cuore anche le si era stancato e spaurito, non nella sartoria, ma dappertutto.
Stava lì, con la valigia per terra sulla banchina, guardandosi intorno. Lui venne da destra, camminando piano, e vide le sue suole strisciare mentre si toglieva il cappello, un cappello di panno verde, dalla foggia miliare. Alzò la testa.
« Ciao. »
Nadine si sporse sulla punta dei piedi e si appoggiò contro di lui per baciarlo sulle labbra. Jules le restituì un bacio frettoloso, come faceva sempre quando non si vedevano da tanto tempo. Ogni volta quella distanza restava tra loro per qualche minuto, tenendoli più lontani l’uno dall’altra di quanto non fossero stati finora. Poi un gesto, una parola, allora l’isolamento si rompeva ed erano di nuovo insieme e ricordavano chi fossero e che si amavano. Ma quei momenti sulla banchina, i primi momenti, allora era sempre come se ancora non si conoscessero, l’imbarazzo di due che si vedono per la prima volta.
« Ciao. »
« Fatto buon viaggio? »
« Sì. »
« Andiamo? »
« Sì. »
Nadine sollevò la valigia. Jules la prese per la mano libera. Allora si guardarono negli occhi, si sorrisero e ancora l’isolamento fu vinto.

Non si vedevano da quasi tre mesi. Settantadue giorni, per essere precisi, appuntati in un’ordinata serie di crocette sul calendario, un cimitero dell’attesa. Da quando era arrivata la lettera, di giorni ne erano passati duecentoventitre. Nessuno sapeva se ce ne sarebbero stati degli altri. Una settimana, due settimane poteva darsi, ma nessuno sapeva cosa sarebbe accaduto dopo. Se sarebbe tornato. Se Jules sarebbe tornato. Nadine l’avrebbe aspettato e questo era fuor di discussione – non fuori dalle loro discussioni, che sempre e sempre, al telefono e per lettera, ritornavano su quel punto, ma fuori discussione dal suo pensiero, che non ammetteva una vita senza di lui. Non l’avrebbe ammessa, forse, neanche se vi si fosse trovata costretta.
Era una romantica, una sciocchina romantica. Questo il padre di Nadine ci teneva a ribadirlo ogni volta che si mettevano a tavola, quando si aggiustava il tovagliolo dentro la camicia, e le mani di Nadine si intrecciavano con forza sopra la tovaglia per non urlare.
« E se anche va tutto bene in Belgio o dove cavolo lo mandano, che noi ci dobbiamo sorbire questo muso lungo? Ci viene tanta gente alla sartoria e un giorno ci capita magari uno che non è così poveraccio e ci fa un piacere se ti toglie da lì e ti si piglia. Magari arriva uno che ti piace e te lo scordi. C’è la festa di primavera. Sono ragazzate. Non ti pensare che lui in Olanda… Belgio dove cavolo sta, ci resti come un pero a pensare a te. Che va bene che sei una ragazza carina, ma gli uomini sono uomini e insomma,… »
Qui faceva una tossitina, per sottolineare le vaste possibilità di quella reticenza, e tuffava la forchetta nella coscia di pollo.
Sembrava, da come ne parlava il babbo, che in Belgio Jules ci andasse a cercare moglie, invece che a combattere per la « nazione ». La « nazione » era una parola che piaceva tanto a papà, da quando era rimasto zoppo a un piede per averci preso una pallottola nel ’17, per caso, per incidente, chissà perché. Ma Jules pallottole non aveva nelle mani e non le aveva nei piedi e aveva il cuore molto buono, le spalle larghe, lui sì che andava bene per la « nazione ».
E adesso, in quest’ultimo giorno di licenza prima di partire, la « nazione » lo aveva gentilmente prestato a Nadine in un giorno nebbioso nelle strade di Shrewsbury.

Il passo di Jules era diverso da come lo ricordava, più sicuro, reso quasi marziale dall’addestramento pure in quella passeggiata mano nella mano. Ma la sua mano era sempre la stessa, calda contro la sua mano fredda. Era la mano di Jules che li ricomponeva, la sua mano che disperdeva i pensieri cattivi del treno, assiepandoli ai lati delle tempie come due tende. La sua mano chiedeva scusa per il tempo che non avevano passato insieme, le prometteva spudoratamente che sarebbe restata, oliava quegli ingranaggi dell’amore che devono essere puliti tutti i giorni. Tutti i giorni, con lettere e parole di carta e parole bisbigliate dentro le cornette del telefono, ingranaggi dell’amore smontati, sistemati sui tavoli, puliti delicatamente con un fazzoletto, in attesa di essere rimessi insieme e oliati e di nuovo spinti a funzionare dalla mano di Jules, che era quella che faceva tutto il lavoro. Un amore lontano ha bisogno di più manutenzione di uno vicino, va accudito e spolverato tutti i giorni, con profusione di piccole attenzioni bugiarde e frasi che non si ripeterebbero mai ad alta voce. Bisogna dire più di quel che si pensa, pensare più di quel che si dice, bisogna amare più forte e meglio, per fare il lavoro di due anche quando si è soli. Nelle notti tristi, un amore lontano richiede un grande sforzo di immaginazione. Un amore lontano ha sempre il fianco vuoto. Fino a che la mano di Jules non è gettata come un ponte tra un fianco e l’altro e non si sente più l’attrito.

L’albergo era un edificio a due piani, con cinque camere al piano superiore, le finestre rettangolari affacciate su una modesta piazza di pietra chiara, schermate da tende arancioni. L’esterno era affrescato di bianco, c’era una veranda di legno, e l’insegna oscillava sulla sua asta in un misterioso rollio. Nadine si sentì stringere più forte la mano, guardò in su. Il sorriso di Jules era teso, un po’ balordo.
« Su, dai » disse lei.                                                                  
Quando entrarono, un pendaglio di campanelle scintillò sopra le loro teste, sparpagliando nell’atrio un suono frivolo. Una donna vecchia e grossa, coi seni ingombranti come colline e i fianchi larghi di tanti figli, prese il registro da sotto il bancone. Jules bisbigliò il suo nome. La signora gli chiese di ripeterlo. Lo ripeté, appena più distinto, e appose una firma illeggibile in una casella bianca. Nadine non staccava gli occhi dalla donna, chiedendosi se avrebbe ricambiato il suo sguardo. Quando lo fece, fu come avere uno scandaglio giù nella pancia. Quella donna, un giorno, si era sentita come si sentiva lei, e non un giorno solo, ma tanti. Sapeva cosa c’era da perdere, cosa andava smarrito, cosa si guadagnava in quel cambio tanto straordinario. In quello sguardo a Nadine pareva di vedere tutto, il ricordo, la paura, la solidarietà, il rimpianto, la pietà, la condanna, tutta una storia di donna che non avrebbe mai conosciuto, ma che le veniva tacitamente offerta e raccontata. Si sentiva meno sola, più sola.
Una chiave poggiò sul palmo aperto di Jules, che la guardò.
« Andiamo? » disse.
Dietro il bancone si avvitava una scalinata di legno. Il primo gradino scricchiolava. Nadine si sentiva sulla schiena gli occhi della donna. Sentiva che la spingeva avanti e intanto la riportava indietro.

Quando furono soli, nella camera, Nadine si accoccolò in un angolo accanto alla finestra. Con due dita scostò un lembo della tenda e guardò giù, verso la piazza. Un uomo dietro un carretto vendeva mele caramellate, appollaiate su bastoncini di legno come cocorite. Un’infermiera con una gonna blu camminava tenendo per mano una bambina. Un cane pisciava contro l’angolo di una casa.
Quando si voltò, Jules si toglieva la cintura dai pantaloni color cachi, di un tessuto un po’ liso. Lo guardò negli occhi, quasi lucidi nella luce lattiginosa che veniva dalla finestra. Jules ricambiò lo sguardo, imbarazzato, e smise di trafficare con la cintura. Si avvicinò lentamente e tenne sollevata la tenda per lei.
« Tuo padre sa che sei qui? » chiese, come dal nulla.
« Era fuori per certe commissioni. »
« E i soldi per il biglietto? »
« Sono miei. »
« A che ora devi ripartire? »
« Alle tre. »
Jules si cercò al polso l’orologio. Non ne aveva.
« È l’una e dieci » disse Nadine.
« Non abbiamo tanto tempo. »
« Abbastanza. »
Jules lasciò cadere la tendina. « Devi usare il bagno? »
« Vai prima tu. »
La carta da parati, con un motivo di roselline, era scollata da una parte, dietro il comodino accanto al letto, e si arricciava sporgendo verso l’esterno. Il letto era grande, con una trapunta gialla di stoffa ruvida, sormontato da un crocefisso nero, sottile ma minaccioso. Il pavimento era di assi di legno. In un punto la testa di un chiodo stava leggermente sollevata. Dietro la porta del bagno, Jules tirò l’acqua. Quando uscì non si guardarono negli occhi.
Nello specchio del bagno, dietro il lavabo di ceramica, Nadine cercò nel proprio viso un indizio. Doveva esserci un segno, anche uno piccolo, che annunciasse la portata del cambiamento che la aspettava. Non era un segno fisico, quanto un segno spirituale che cercava, una certa espressione negli occhi, il modo in cui si incurvava il suo sorriso. Non è questa l’espressione, diceva, che una donna ha prima di fare l’amore. Si guardò e non si piacque e pensò che non sarebbe piaciuta. Ma forse non era adesso che doveva cercare, forse non era adesso che qualcosa avrebbe dovuto manifestarsi. Forse più tardi, dopo, guardandosi allo specchio non si sarebbe riconosciuta. Fece scorrere l’acqua, si sciacquò il viso dalla foschia del viaggio e strofinò l’asciugamano contro le guance, che subito si arrossarono. Al riflesso nello specchio mormorò un silenzioso arrivederci.
Jules era nel letto con le coperte fino al mento e fissava il soffitto. A Nadine si strinse il cuore a vederlo così. Stare nel letto a quell’ora le parve buffo, non riusciva a spiegarlo altrimenti. La camera che non conosceva, il letto così grande e quella piazza fuori in cui non c’era niente che le corrispondesse… solo Jules, il suo Jules, così rannicchiato zitto sotto le coperte. Si sentiva felice e vagamente ammalata.
Camminò verso il letto e toccò la trapunta con una mano, tastandone la consistenza come faceva al negozio. Tutto fu un po’ più pauroso, più vero. Si sedette sul bordo del letto, voltata verso la parete, e in fretta sbottonò la giacchetta, la gonna. Fece una pallina coi collant. Si chiese se Jules la guardava e, se la guardava, che cosa pensava di lei che faceva una pallina coi collant e lasciava i suoi vestiti così, tutti spiegazzati per terra, accanto al letto. Ma doveva capire, Jules, che non poteva muoversi, non poteva muoversi perché avrebbe attirato la sua attenzione, perché così facendo si sarebbe esposta di più al suo sguardo, che insieme desiderava e che scansava, che sentiva come un complimento e come offesa. E un secondo stare con lui in quella stanza le sembrava bellissimo, il secondo dopo si sentiva morire. Si lisciò la canottiera e la sottoveste e, in un’unica mossa fluida, senza guardarlo, si infilò sotto la coperta. Con gli occhi chiusi, per un istante, sentì come se fosse suo padre, quando le parlava a tavola col bavaglino al collo – gli uomini sono uomini. Lo sentì che si muoveva al suo fianco, dall’altra parte del letto. Si chiese che movimenti faceva.

Più tardi, carezzandole la schiena, lui disse che non era importante. Nadine alzò la testa dai suoi singhiozzi e pianse più forte contro la sua spalla, affondandoci dentro col naso. Le sue gambe, i suoi seni, il suo corpo chiedeva scusa a contatto col corpo di lui. Jules ripeteva che non era importante, le carezzava dolcemente la testa, oliava e risistemava per lei gli ingranaggi del loro amore.
Non era importante, certo, che non avessero saputo fare l’amore. Chissà quanti altri avevano dormito in quella camera, tra quelle lenzuola, e non avevano saputo fare l’amore, quanti altri a cui il tempo aveva insegnato, riflessi che rispondevano giusto all’interrogatorio dello specchio. Ma Jules e Nadine - quella era l’ultima volta che si vedevano. 

Di Chiara Pagliochini