lunedì 7 novembre 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap.11


« Vent’anni, sette mesi, ventisette giorni. »
Aveva questo modo un po’ teatrale di dire le cose, come se volesse impressionare qualcuno o recitare una parte, come se le rimuginasse tra sé e sé per giorni, prima di pronunciarne una sola. Ma io non sapevo cosa rispondere. Ero lì, sdraiato sul suo letto, faccia al soffitto, e non sapevo cosa rispondere.
Come fossi finito sul suo letto è una storia che merita di essere raccontata più distesamente. Dev’essere stato quel giorno, sì, ne sono quasi sicuro, il giorno in cui mi trovò che vomitavo nel bagno. Non avevo avuto l’accortezza di chiudere la porta ed ero lì sul pavimento, in ginocchio, piegato in due sulla tavoletta. Dovevo essere un ben misero spettacolo, grande e grosso come sono. La sua mano gentile mi si era posata sulla testa e l’avevo vista piangere, piangere da una parte sola.
« È andata » aveva detto. E poi « Puoi venire qualche ora da me, se ti va. »
Era un’offerta molto generosa da parte sua.
Aveva strappato due strisce di carta igienica e mi aveva pulito gli angoli della bocca. Dovevo essere un ben misero spettacolo.
« Va bene » avevo risposto, alzandomi in piedi. Avevo tirato lo sciacquone.
E così eravamo usciti nell’aria fredda della sera, stringendoci contro il bavero del cappotto. Il bimbo di ottone intirizziva sotto il faro sterile del lampione. Non c’era nessun altro e il silenzio rimbombava da un capo all’altro di Via Santa Chiara, rimbalzando tra le pareti di mattone. Avevamo attraversato la piazza, superato il Duomo e allora Irene s’era voltata un attimo per prendermi per mano. Non capivo perché l’avesse fatto.
« Andiamo, dai » aveva detto.
Solo allora m’ero accorto di essermi fermato, fermato così senza un motivo, fissando un punto a caso della scalinata del Duomo, e un gruppo di ragazzi mi aveva fatto ala attorno. Mi guardavano tutti. Non ci si doveva fermare così per strada.
Avevo ripreso a camminare, gettando appena un’occhiata a una ragazza con il rimmel azzurro e una birra in mano. Irene mi strattonava come se fosse mia madre. E poi non credo di ricordare più niente. Dovevo aver camminato, camminato e basta, senza dire una parola.
All’improvviso quella frase di Irene:
« Vent’anni, sette mesi, ventisette giorni. »
Io sul suo letto. Questo me lo ricordo.
Era sdraiata accanto a me, con il viso rivolto verso la parete, e mi dava le spalle.
« Cos’è? » chiesi ai suoi capelli.
« Il tempo che sono viva. E il tempo che sono sola. »
« L’hai contato? »
Era una domanda piuttosto stupida.
« No, no » la vidi stringersi nelle spalle, le scapole che si contraevano leggermente « Solo immaginato. »
« È tanto tempo. »
« Lo so. »
« È per questo che… ? »
Si voltò lentamente, rotolando su un fianco, e mi guardò cogli occhi sgranati attraverso la frangetta. Erano umidi.
« Per favore, non ora » rispose. Mi si stringeva il cuore a vederla così, e non potevo fare niente, niente per aiutarla. Non potevo chiedere. Non potevo muovermi. E non potevo neanche stringerle la mano. Qualsiasi cosa sarebbe stata troppo, troppo da fare, troppo da accettare. Allora rimasi semplicemente così, immobile, con le mani lungo i fianchi strette a pugno.
« Vuoi che vada giù a farti un… tè? »
« No, no » disse, scuotendo la testa pian piano sul cuscino.
« Allora… ? »
« Niente, non fare niente. »
Ed io feci niente per un minuto, due minuti, tre minuti. Ma quattro mi sembravano troppi. Non potevo restare così, congestionato sul suo letto come se fosse un sarcofago. E poi non c’era abbastanza spazio per entrambi. Mi alzai a sedere, le gambe che penzolavano giù, i piedi nei calzini. Non ricordavo di essermi tolto le scarpe. Mossi il pollice, così, tanto per vedere se funzionava, e non feci niente per un altro, per altri due minuti. Irene non si muoveva, il lenzuolo non frusciava, la sua gola non singhiozzava. Niente.
I grossi ritratti dagli sguardi persi e concentrati erano ancora là, paurosi come li avevo lasciati l’ultima volta. E c’era anche la ragazza distesa sull’acqua. Vederli da quella distanza, dalla sponda del letto, faceva un’altra impressione. Era come se fossero una sinfonia, come se si legassero l’uno all’altro in modo spontaneo ed immediato. Ma io non sapevo fare il collegamento.
Mi voltai verso Irene. La trovai con la testa appoggiata su un gomito, che guardava me, guardava la parete dietro di me. Non piangeva più.
Indicai i ritratti, solo questo. Lei alzò le spalle, come a dire, “pazienza” o “che vuoi farci”, anche se non c’entrava assolutamente nulla. Si distese in un sorriso piccolissimo.
« Sono i miei… spiriti guida? »
C’era un che di interrogativo nel tono in cui lo disse, come se non ne fosse certa neanche lei. E non potevo certo esserlo io.
« Le due donne sono Virginia Woolf e Sylvia Plath. Quello che sembra un marinaio è Hemingway, il signore con gli occhialetti è Cesare Pavese. E quello coi baffetti è… »
« Salgari » completai per lei.
« Come… ? » sembrava sorpresa.
« Ti ricordi quella volta, alla lezione di harakiri? »
« Ah, certo. »
« E sono tutti… ? »
« Già. Tutti colleghi nostri. »
« Morti. »
« Sì. »
« Non è allegro. »
« Neanche un po’. Ma poi… perché dovrebbe esserlo? »
Sorrideva più distesa adesso, come una mamma che racconta una storia. E io che potevo essere suo padre… Ma mi sentivo così annientato, così annientato quando c’era lei, così soverchiato da tutto quello che lei era che mai, mai riuscivo a comportarmi come avrei dovuto. Ero indietro di dieci, vent’anni, vent’anni sette mesi ventisette giorni. Ero un bambino curioso che chiede. Ero un bambino curioso che ascolta.
« Come? » domandai, indicando col capo la parete. Il bello è che bastavano così poche parole.
« Lei » rispose, indicando col dito la signora dal lungo collo, ed io mi mossi lungo la traiettoria del suo polpastrello « Lei è Virginia. Era un poco… non stava molto bene, ecco. Ed era infelice e tanto tanto intelligente. E scriveva come se avesse un pennello in mano. È affogata in un torrente. »
La guardavo boccheggiare, cercare le parole più adeguate, le più lievi e le più adatte per spiegarsi, proprio come se fossi un bambino da istruire. Un bambino di quelli che non devono essere feriti.
« L’altra, Sylvia, era un poeta. E non era così felice neanche lei. E aveva tanto odio e tanto amore dentro. Imburrò due fette di pane e riempì due tazze di latte da lasciare sul comodino nella camera dei bambini. Poi chiuse tutti gli spifferi della casa. Come nelle fiabe, hai presente? Quando arriva la strega cattiva e allora gli eroi si sigillano nei castelli. Lo fece anche lei. E infilò la testa nel forno. »
Rividi l’espressione ammirata di Iris, la sua sorpresa quando avevo detto che… detto che… io la testa il forno a gas. Non era andata così. Ma c’era gente che l’aveva fatto. L’avevano fatto davvero.
Gli occhi di Irene erano fissi, vitrei. Sembrava determinata ad arrivare fino in fondo.
« Cesare è il mio preferito. Non lo pensava nessuno che l’avrebbe fatto. Non lo pensava neanche lui. Perché era da tutta la vita che ci pensava, capisci? Ci pensava così tanto che era quasi sicuro che non l’avrebbe mai fatto. Ma poi… beh, l’ha fatto. Ha scritto, “non scriverò più” e “non fate troppi pettegolezzi”. E non gli piacerebbe neanche un po’ che stiamo ancora qui a parlare di lui, ma tant’è… sonnifero, comunque. Sembra quasi una morte da donna. Hemingway si è sparato alla tempia con un fucile e Salgari… »
« Ha fatto harakiri. »
« Con un rasoio in un bosco. »
Io non sapevo propriamente cosa fare. Era tutto così tragico e così comico al tempo stesso che non ti veniva voglia di far nulla. Non ridevi, non piangevi. Era solo grottesco. Grottesco che potessi stare lì a parlare di cose come queste quando potevi prenderla e schiacciarla contro il materasso e baciarla, no? Baciarla fino a farle passare la voglia di ammazzarsi. Non era forse la cosa giusta da fare?
No, non era giusto neanche un po’. Perché questo era ciò che volevo io, non quello che voleva Irene. Irene aveva la sua bacheca e il suo conto dei giorni, il suo piccolo calendario di solitudine e di morte. I suoi occhi erano proprio come i loro. Tutti quegli stupidi scrittori morti. Tutta quella banda di idioti che io odiavo e le cui foto avrei strappato brano a brano. E poi c’era la ragazza, la ragazza sull’acqua, certo.
« Ofelia » disse Irene, e io seppi che lo sapevo. Ero solo troppo stupido per ricordarmelo.
Sospirai e sentii la cassa toracica che si rilassava, si dilatava, come se un peso fosse stato appena spinto via. In realtà c’era appena caduto. Era caduto un grosso peso, come cadevano le parole di Irene, e io ero lì a ricevere entrambi.
Aveva il capo reclinato e quel sorriso impercettibile e un po’ storto, felice di una felicità malsana e irraggiungibile. Era certamente un sorriso crudele.
Restava una domanda sola. Fatta quella, non ce ne sarebbero state altre. Non ci sarebbe stato altro da dire, da chiedere, da fare. Nessuna mano da tendere oltre l’abisso. La feci. Lei rispose.
« E tu? »
« Io questo non posso dirtelo. »
« Perché no? »
« Cosa cambia? »
« Cambia. »
« Non adesso. »
« Aspetterò. »
« Va bene. »
« E adesso? »
« Vieni qui. »
Mi sdraiai di nuovo al suo fianco e restammo lì fermi, un po’ zitti e un po’ parlando, a guardare il soffitto, senza toccarci, proprio come due morti in un sarcofago vicino. Ma eravamo insieme. Ed era così strano.

Di Chiara Pagliochini

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