lunedì 22 agosto 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap.6

Numbers by ~tay-illustration
Mi costa ammettere che il diario di Irene fu profondamente deludente, almeno sotto certi punti di vista. Confesserò che nutrivo grandi aspettative in merito. Per secondi, per minuti e poi ore me lo passai incredulo da una mano all’altra, come per assicurarmi che ci fosse davvero, che non l’avessi inventato di proposito solo per soddisfare un mio cruccio. Non l’avevo inventato, tuttavia non avevo il coraggio di aprirlo. No, non lo aprivo, lo soppesavo, lo spiavo da strane angolature, lo poggiavo sui piani più disparati per osservarlo da tutti i punti di vista, un po’ come un contadino che avesse trovato un idolo di legno in un campo.
Finché non l’avessi aperto, tutte le ipotesi sarebbero state credibili. Mi vedevo davanti la mano di Irene, la penna, stretta senza troppa forza né convinzione. O forse proprio con forza e convinzione, proprio come aveva impugnato il coltello. Chissà cosa scriveva. Chissà se disegnava.
A vederla, si sarebbe detto che scrivesse, piuttosto che disegnare. Forse metteva per iscritto tutto quello che le sue labbra non dicevano. Tutte le smorfie, i silenzi, gli sguardi tesi trovavano su quelle pagine una giustificazione e uno sfogo. Forse ricopiava frasi di libri letti. Forse scriveva lei stessa, versi, aforismi, racconti. Certo, era un diario troppo piccolo perché potesse usarlo per scrivere “qualcosa di serio”, ma era pur sempre un punto di partenza. E poi, che ne sapevo io di cose serie?
Ma magari disegnava, magari mi ingannavo. Disegni sottili sottili, farfalle, volute o fiamme, ghirigori tracciati con la biro, la stilografica, gli acquarelli. O forse grottesche caricature, caricature di noi dell’agenzia, i nostri volti goffi e gonfi e mostruosi ai suoi occhi. Avrei scoperto il mio e provato raccapriccio. L’infinito delle possibilità mi incantava ed io mi divertivo a sguazzarci dentro.
Ma alla fine lo aprii. Decisi che glielo dovevo. Sedevo sul divano, composto, Ryanair che mi puntava gli occhi addosso dall’angolo della sala. C’era tensione nell’aria. Il diario giaceva sul tavolino a pochi centimetri dalle mie ginocchia, nero contro il vetro. Mi chinai, lo presi, tenni l’elastico tra le dita. E poi con un sospiro o un’esitazione, come quando si spoglia una donna e le si fa scivolare la bretella del reggiseno o l’orlo delle mutandine, spogliai quel diario dal nugolo infinito del suo poter essere. Accettai che fosse una cosa sola, per sempre.
Ecco, il diario mi deluse. La realtà delude sempre.
Giusto poche pagine scritte e neanche troppo fittamente. Sulla prima, nei campi predisposti, nome, indirizzo e numero di telefono. Avventata, la nostra Irene. O giudiziosa, fa lo stesso? Conoscevo la via in cui abitava e il numero di telefono era molto bello, con tanti otto e tanti tre, rotondo come lei non era. Quanto al nome era sempre quello, ma mi colpiva che all’improvviso le stesse così bene.
Seconda pagina, una lista della spesa. Salviette struccanti. Tonno. Latte. Gomme da masticare. Panna da cucina. Detersivo piatti. Mollette da bucato. Forse era stata scritta sotto la dettatura di una madre previdente o forse Irene viveva da sola e da sola cucinava, lavava piatti, stendeva panni. Forse non comprava quelle cose per sé, ma faceva spesa per un’anziana vecchietta che non poteva scendere le scale e che le allungava dieci euro più del dovuto. Come si poteva stabilirlo?
La grafia, altra nota stonata. Per niente aggraziata o obliqua o ricercata. Uno scarabocchio, piuttosto, senza curarsi di essere leggibile. Forse perché nessuno avrebbe dovuto leggere quella lista o forse perché lei stessa non si curava di essere leggibile per gli altri. Una persona che scrive per sé e non teme giudizi, perché non li cerca. Una persona sciatta. Una persona frettolosa, in ritardo. Come si poteva uscire da questo intrico senza sentirsene risucchiati?
Ma furono le pagine seguenti a sgomentarmi, gettandomi nel panico. Pagine e pagine di numeri. Non erano equazioni e neanche sequenze per passare il tempo, non erano i sudoku del Mishima. Erano prezzi, annotati con scrupolosità e ordine, uno sotto l’altro, e accanto la dicitura del prodotto cui corrispondevano.
Maglia da Benetton, 29.90.
Ombrello, 3.
Gomma da cancellare, 1.20.
Caffè, 0.80.
La campana di vetro, 9.
Pile, 5.75.
Crema viso, 7.50.
Fiori secchi, 10.
Sali da bagno, 6.40.
Era sorprendente che una persona potesse permettersi di essere tanto pignola e al tempo stesso non curarsi affatto della propria grafia. Allora nulla le importava davvero. Queste cifre erano soltanto per lei. Ma a cosa servivano e perché le annotava con un puntiglio da ragioniere? In fondo a ogni pagina tirava sempre una riga, e faceva la somma. Sembrava che la sua vita fosse tutta un accumulare oggetti e acquisti e cartellini e scontrini. Nient’altro. Quelle cifre, quelle somme erano per lei di vitale importanza. Non ne vedevo il motivo.
L’ultima pagina, l’ultima di quelle poche, mi tolse il sonno. In alto, al centro, campeggiava un cerchio, in cui era racchiusa la dicitura, “600 euro”. Al di sotto Irene sottraeva, invece di sommare.
-  Soluzione finale, 100.
-  Lezioni, 30 x 7 = 210.
-  Affitto, 150.
-  Spese generiche, 140.
Ed ecco che il seicento si svuotava di tutta la sua grazia e pienezza, crocefisso da quei meno, quei meno tracciati con forza, a bucare la pagina, cattivi. Quei meno che sembravano togliere qualcosa non soltanto al numero in alto, ma a Irene stessa, lentamente, lentamente, dei numeri vivi.

Nel dormiveglia capii cosa mi avesse tanto turbato. Avevo cercato parole e avevo trovato numeri. Avevo cercato una storia, qualcosa che raccontasse di lei, qualcosa che me la facesse conoscere, e avevo trovato freddi dati, oggettività. Avevo cercato Irene senza trovarla. Ma non era tanto questo.
Nella mia personalissima idea un diario serviva per appuntarci qualcosa, qualcosa di personale, un aneddoto, un fatto, una tristezza. Per anni Raffa aveva compilato il suo alla luce della lampada. Lo teneva sotto il cuscino, ci dormiva sopra perché le mie dita non potessero raggiungerlo. Avevo sempre voluto leggerlo, ma non c’ero mai riuscito. Ogni giorno inventava nuovi nascondigli: sopra l’armadio, sotto una pila di maglioni, nella credenza, confuso tra altri libri. Raffa mi aveva nascosto il suo diario perché aveva qualcosa da raccontare, qualcosa di segreto e suo che non voleva che sapessi. Ed io, che capivo perfettamente le sue necessità, ne ero tanto più incuriosito. Ma Irene non nascondeva il diario, Irene non aveva niente da raccontare. Una persona che non scrive è una persona che non spera.
Ryanair, nel buio, comprese che m’ero rattristato. I suoi occhi gialli lampeggiarono. Con un balzo mi fu accanto sul letto e si accoccolò contro il mio torace.

Il giorno dopo mi convinsi a fare quel che andava fatto. Pranzai in un bar, in piedi accanto a Greta, un sandwich con tonno e pomodoro. Lei mi sorrideva nel solito modo rassicurante e ogni tanto si puliva le briciole dalla camicetta. Mi raccontava di un tizio che era andato ubriaco a urlarle sotto casa.
« Il tuo fidanzato? »
« Macché, non ho proprio idea di chi fosse. Secondo me aveva sbagliato palazzo. »
« E che hai fatto? »
« Niente, l’ho lasciato strillare. Dopo un po’ s’è stancato e se n’è andato. »
« Che paura. »
« No, paura no, solo un po’ di tristezza. »
« E perché? »
« Perché l’unico uomo che mi abbia mai urlato sotto casa non urlava per me. »
Si strinse nelle spalle. Io mi sentii imbarazzato. La tristezza mi imbarazzava.
Le spiegai che dovevo sbrigare una commissione e che sarei tornato in ufficio per tempo. Lei disse che sarebbe rientrata un po’ prima, doveva far sparire una serie di incartamenti dalla scrivania.
« Affari loschi. »
« Loschi, assolutamente » sorrise.
Con il diario che ballonzolava allegro nella tasca interna della giacca, mi incamminai verso Via dei Celesti. Lo sentivo scottare attraverso la stoffa, come se rifiutasse la mia presenza, fiutando quella del suo vero proprietario. I numeri, con le loro aste e picche, mi artigliavano come una falange di formiche. Ma dovevo resistere, dovevo arginare l’irritazione. Il diario voleva tornare da Irene: era giusto, pietoso, comprensibile.
Il numero 33 era una casa a due piani, con un balcone scrostato. Dava sulla strada e sulla strada guardavano tutte le finestre, sia quella lunga e stretta di una cucina, sia quelle delle camere al piano di sopra. Non c’era un giardino, non c’era un cancello. Solo un campanello di ottone bisunto accanto alla porta. Non leggevo Irene in nessun luogo.
Mi feci coraggio e suonai. Non sapevo chi aspettarmi dall’altra parte: un marmocchio, un genitore, un marito, Irene stessa. Nulla di tutto questo. Aprì una ragazza che non era Irene. Aveva gli occhi gonfi di sonno e i capelli legati, indossava un pigiama bianco con una grossa mucca stilizzata. Nel complesso mi dispiacque per lei che avesse aperto. Capii che non aspettava me, perché il suo sguardo si fece più duro e insieme più vergognoso. Mi costrinsi a non guardare le sue ciabatte, per non crearle ulteriori fastidi.
« Chi cerca? » domandò, vagamente seccata.
« Cercavo Irene. »
La ragazza si voltò verso l’interno. Il suo strillo riecheggiò attraverso la cucina.
« Potevi anche dirmelo che aspettavi qualcuno! »
Non risposero. O, se lo fecero, risposero a voce troppo bassa perché potessi capire.
« Un attimo » disse quella, e mi lasciò sulla porta senza salutare.
E quando vidi Irene camminare verso di me dalla stanza attigua mi parve tutto troppo strano per essere vero. Irene che camminava verso di me invece di fuggire. C’era da scriverci un libro.

Mi guardò senza vedermi, o mi vide senza guardarmi. Gli occhi erano i soliti, fuggitivi, serissimi. Non indossava un pigiama e non aveva i capelli legati, ma era chiaro che non fosse vestita per uscire. Indossava una tuta morbida, nera, e scarpe di tela. Era struccata, senza rossetto. Mi parve più umana.
« Cosa vuoi? » chiese, in una sola emissione di fiato, con tanta veemenza da farmi trasalire. Era evidente che la mia presenza la imbestialiva.
« Sono…Ryan, dell’agenzia » risposi scioccamente.
« Certo, lo so chi sei. »
« Sono venuto a…riportarti questo » dissi e infilai la mano nella tasca della giacca per prendere il diario. Esitai un istante, poi glielo porsi. Lei lo prese senza degnarlo di un’occhiata.
« Non dovevi scomodarti » ringhiò.
« Volevo solo…essere utile… »
« Potevi riportarmelo a lezione. »
« Certo, ma… »
« Non mi piace che si ficchi il naso nei miei affari. »
« Lo immagino, però… »
« L’hai aperto? » mi fissò, un lampo di indignazione « Certo che l’hai aperto. Ci hai trovato qualcosa di carino? Immagino che per voi sono una specie di puzzle, no? Sempre lì a parlare di me. Cassandra bocca larga. Simpatici. Molto. »
« Noi non… »
« Lo so cosa dite, non mi interessa. Non vi riguarda. Non sono lì per avere a che fare con voi. »
« Ma… »
« È bello che la gente mi riservi tanta attenzione proprio ora che non ne ho più bisogno. Comico. Strani scherzi del destino. »
« Volevo solo aiutarti » mi sforzai « Solo aiutarti. »
« Lo so. »
E all’improvviso fu come se qualcosa si rompesse. Una crepa lungo un vaso o una maschera che si riga, il gessetto che stride sulla lavagna. Si avvertì quel fischio per tutto il mondo e trasalimmo insieme. L’espressione di Irene si addolcì. Più triste, meno corrucciata.
« Ti ringrazio, comunque. Ne avevo bisogno » alzò il diario e finalmente lo guardò « Non posso stare senza. »
« Anch’io impazzirei senza la mia agenda di appuntamenti. »
Non avevo un’agenda di appuntamenti, ma a chi volete che importasse?
« Sì, certo. Se c’è qualcosa che posso fare per sdebitarmi… »
« No, no, non preoccuparti. È stato un piacere. »
Come una pugnalata, aggiunsi.
« Ci vediamo in giro, allora » disse, come se fosse una persona normale, vestita da persona normale, con la faccia di una persona normale. Ma era Irene, stava recitando, era chiaro. Stava sforzandosi di apparire civile, di fare quel che l’etichetta imponeva. Anni e anni di educazione dovevano esserle confluiti nel sangue tutti assieme.
« Certo, allora ciao. »
« Ciao, grazie ancora. »
Chiuse la porta. La accostò, anzi. Piano perché non sbattesse. Non mi rivolse altri sguardi. Il suo compito di donna qualunque era stato assolto, la rabbia era rientrata negli argini, la persona aveva prevalso sulla cosa. Eppure, per un momento, avevo preferito l’altra Irene, la furente, gli occhi accesi, l’animale in gabbia. “Immagino che per voi sono una specie di puzzle, no?”, lo era, lo era sicuramente, e ogni giorno quel puzzle appariva più caotico. Non un puzzle di immagini, non un tramonto, una Tour Eiffel, non un puzzle di parole. Un puzzle di numeri e somme e sottrazioni, di virgole e punti, di merci sconclusionate. Dov’era, Irene? Dov’era in fondo al mucchio?

Di Chiara Pagliochini

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