domenica 19 febbraio 2012

L'agenzia dei suicidi. Cap.23

Ecce Ancilla Domini, Dante Gabriel Rossetti

Il trattamento di Irene era il dodici maggio. Me lo disse quel giorno, sul ponte, stringendomi un pochino la spalla mentre parlava, quasi dovessi finire oltre il parapetto per lo spavento. Io feci solo di sì con la testa e dissi che sarei rimasto con lei. Mi fece promettere che avremmo ancora trascorso tanto tempo insieme, c’erano tante cose da fare, cose da comprare, il numero degli invitati da decidere, come disporre il tavolo degli sposi. Mi sentivo come un amico gay cui fosse stato chiesto di fare da testimone. Perché quello era certo il matrimonio di Irene, il suo ultimo modo di sposarsi a qualcosa.
Come un testimone di nozze la accompagnavo in giro per negozi. La osservavo provare vestiti e sottane e camiciole bianche bianche che non lasciavano niente all’immaginazione. Ero tenuto a starla a guardare, ad azzardare commenti, sentendomi sempre troncare le parole di bocca quando dicevo cose poco appropriate. Ma dire cose inappropriate era facile, con lei che usciva dai camerini magrissima e seminuda e mi sfilava sotto gli occhi come se non fossi neanche umano. Suppongo mi vedesse come una specie di infermiere, di amica del cuore, e invece io dovevo correre in bagno e restarci per dei minuti.
Alla fine, quando risalivamo in macchina, mi lanciava di quelle occhiate maliziose e un po’ incerte, lascive di una impudenza di ragazza, e diceva di sentirsi offesa, perché non avevo visto il suo ultimo completo.
Quando la mia pazienza era ormai arrivata al limite e un solo cenno del suo dito bastava a procurarmi acute fitte di frustrazione, finalmente giunse a una decisione. Si sarebbe immersa nuda, e fine dei giochi. Non aveva abbastanza soldi per pagarsi una camicia carina, se voleva prendere anche i fiori. Mi offrii di pagarla al posto suo, ma non volle sentire ragione.
In un discount acquistò quattro confezioni di petali secchi, di quelli per profumare gli ambienti. Spiavo nel cellophan per cercare più varietà possibili e ce n’erano di un rosso cupo, graveolente, di fucsia e di arancioni, di marroni e di blu. Mentre li stipava nel carrello lamentava di non poterne avere di veri, perché a comprare fiori freschi si spendeva troppo, e io le suggerii di passare dalla fioraia. Forse c’erano fiori un poco sciupati che potevano darle a buon mercato. Irene disse che ero brillante – brillante, proprio così! – ma che bisognava passarci la mattina del trattamento, perché riuscisse bene.
« Posso passarci io per te. »
« Sarebbe splendido. »
Mi ero ormai piegato a quella farsa con tanto convincimento quanto era il suo.
Il giorno prima del trattamento era domenica e volle far visita ai miei genitori. Mi fece guardare mentre si vestiva, perché voleva fare una buona impressione sui miei, e io dovevo dirle cosa le stava meglio. Fece di tutto per ignorare i miei consigli e alla fine optò per una gonna bianca, larga come la corolla di un fiore, e un camicia di chiffon. Sembrava più grande dei suoi vent’anni ed infinitamente più stanca. Aggiunsi sette mesi e ventisette giorni al conto, che pure continuava a non tornare. Avevo voglia di restare con lei per sempre.
Durante il viaggio ripassava i nomi dei miei nipoti e se li fece descrivere ancora una volta, per saper distinguere Mirco da Tommy non appena li avesse visti. Le ricordai di non far parola dell’agenzia e soprattutto di non dire che eravamo fidanzati.
« Ma noi non siamo fidanzati. »
« I miei si fanno sempre strane idee. »
« Vorresti che lo fossimo? »
« Non direi. Non oggi. »
« E domani? »
« Meno che mai. »
« Dopodomani? »
« Fosse possibile. »
Tener saldo il volante era difficile, con lei che continuava ad interrogarmi scioccamente, forse per il gusto di aggiungere dolore al dolore. Mi sentivo come un uomo che stava per morire e a cui si parlava senza alcuna gentilezza. Eppure era lei che stava per morire. Come poteva essere così tranquilla, così spavalda? La amavo e la odiavo con pari intensità.
A mamma la presentai come una collega.
« No, mamma, non Greta. »
Si chiamava Irene e soffriva di bronchite, così il dottore le aveva consigliato una gita in campagna. Non vorresti venire a casa mia? Perché no? Sarò lieto di ospitarti! Ma certo!
Irene era tutta sorrisi e mezzi inchini e si comportava bene, come se la camicia di chiffon le avesse aggiunto una nuova maturità. Mio padre la scortò a tavola sottobraccio e mentre andavano le parlava del ciliegio sul colle che l’aveva piantato suo nonno e di noi figli che non volevamo prendere in mano l’attività. Irene annuiva e sentivo scintillare per l’aia la sua risata. Mamma mi si accostò e disse che era carina ma troppo magra, e mi chiese se le piacevano le tagliatelle. Io non lo sapevo, così mi fermai a salutare Raffa, come se fossi molto interessato a lei che rimestava tra i sedili della macchina, cercando non so quale giocattolo di Elisabetta. Elisabetta era incantata dalla gonna di Irene e correva in tondo da lei al nonno, piena di smorfiette come sono le bimbe quando vogliono attirare l’attenzione. Mirco e Tommy erano già in sala da pranzo, seduti ai loro posti, braccia conserte: scoprii più tardi che erano entrambi in punizione.
A tavola Irene mi era seduta accanto. Io facevo la mia brava scena per svuotare il piatto dalle tagliatelle e ogni tanto cercavo la sua gamba sotto il tavolo, perché non riuscivo a parlare. Lei rispondeva al gesto appoggiando il suo palmo contro il mio, così non c’era bisogno di parole.
Non la vidi mai mangiare con più appetito di allora e, conoscendo i suoi trascorsi, mi parve straordinario. Si pulì la bocca col tovagliolo, cercò una seconda porzione e persino si voltò allegra verso di me, dicendo:
« Tu non ne prendi ancora? »
Mi affrettai a stringerle la mano sotto il tavolo per dirle che no, davvero non ne prendevo.
Dopo pranzo Raffa la sottopose a un interrogatorio serrato. Non so cosa si dissero, ma ricordo che le guardavo in silenzio dalla poltrona e mi veniva da mangiarmi le unghie per l’agitazione. Speravo che riuscisse a non tradirsi. Difatti non si tradì.
« Tua sorella ti vuole molto bene, però è un po’ una rompicoglioni » disse, mentre la accompagnavo sul colle a vedere il ciliegio. Papà aveva rinunciato alla sua passeggiata pomeridiana, sperando forse che sul colle, da soli, potessimo fare tanti bei nipotini. L’avevo osservato a lungo, l’avevo osservato osservare me che osservavo Irene e Irene che osservava me e tirare le sue conclusioni. Le mie farse non reggevano un secondo alla sua indagine, ma ero contento che non ne facesse parola con nessuno. Avrei voluto chiedergli quanto in lungo vedevano i suoi occhi. Se sapeva cosa sarebbe successo domani. Se poteva prevederlo per me.
Irene si aggrappò al mio braccio mentre i tacchetti delle scarpe sprofondavano nella mota. Se le tolse e continuò a camminare con le scarpe in mano, e il suo sguardo ondeggiava attento sul paesaggio coi suoi scorci, come se volesse imprimersi tutto sulle retine. Come se fosse l’ultima cosa che voleva guardare e trattenere.
Ci sedemmo sul poggio, faccia alla campagna, la mia schiena contro il tronco del ciliegio. Per terra era una distesa di petali passiti e scricchiolanti, che Irene soffiava via dalla sua camicetta tenendoli sul palmo della mano.
« Mi dispiace che non sei venuta quando è fiorito. È così bello quando è fiorito. »
« È bello anche adesso. »
« A me mette tristezza. Sembra che si stia svestendo. »
« Magari si sveste per qualcuno. »
Sorrise e avvicinò la sua spalla alla mia e rimase in quella posizione rannicchiata, come se volesse entrare nei miei fianchi. O restituirmi una costola. O un altro di quei pensieri scemi che ti vengono quando sei troppo innamorato.
« Non resteresti con me? »
« In che senso? »
« Viva, come in questo momento. Non vorresti restare, fermarti? Stare con me. »
« Non lo so. »
« Cercavi una persona che ti volesse bene. Hai fatto tanta strada. Io sono qui. Lo so che non sono proprio quello che volevi, che magari avevi aspettative un po’ più alte, ma non potresti fermarti, accontentarti? »
« Non è così che funziona. »
« E come, allora? »
« Mi sono spinta così avanti, troppo avanti. »
« Ti sei spinta da te. Significa che puoi tornare indietro. »
« Non voglio. »
« Non vuoi. »
« Tu mi vedi così e pensi di volermi bene, ma non è vero. Pensi di volermi bene, ma in realtà è tutta una cecità. Non c’è niente di bello in me da viva quanto ce n’è in me che sto per morire. È la morte che ti fa sentire così. Prende una cosa banale e la trasforma in una cosa magnifica soltanto perché stai per perderla. Come quando muore una persona famosa e senti un vuoto, ma in realtà fino a ieri non ti fregava niente. E non dico che sia una cosa ipocrita, perché è la morte che fa così. Tu non mi ameresti se non stessi per morire. »
« E tu non mi ami? »
Volevo urlarle che mi desse la possibilità di non amarla, urlarle che aspettasse un mese o un anno, il tempo per capire se l’avrei amata o meno. Il tempo per capire quanto tempo ancora avrei amato le sue tristezze e se mi sarebbe ancora piaciuta struccata. Il tempo per capire se riuscivo a staccare quei ritratti dalla bacheca e attaccarci invece una foto nostra. Il tempo per capire se eravamo una coppia che litigava spesso o che andava sempre d’accordo su tutto. Il tempo per capire se davvero le piacevano le tagliatelle o aveva vuotato il piatto solo per compiacere mia madre. Il tempo per capire se era troppo giovane per me. Il tempo per capire se poteva innamorarsi di un altro e lasciarmi. Il tempo per capire se le piaceva fare l’amore. Il tempo per capire se era brava. Il tempo per capire che c’è ancora qualcosa per cui valga la pena e che dobbiamo aggrapparci, aggrapparci e tenerci stretti per non lasciarci più andare. Ma il tempo era la vera rinuncia di Irene. Rinunciando al tempo, ci priviamo di tutto il resto.
Non urlai nulla, ma la strinsi tra le braccia e cominciai a baciarle tutto il viso. La fronte spaziosa con le rughe di espressione molto evidenti e l’attaccatura dei capelli, la punta del naso lucida come un bottone, le guance che profumavano di fard, le orecchie friabili di marzapane. Le baciai le palpebre, che frullarono al tocco come le ali di un uccellino e sbatterono mentre spiccavano il volo.
Tra le ciglia mi guardò e la vidi così spaventata che pensai si sarebbe ritratta o racchiusa in un bozzolo o, peggio ancora, che sarebbe rimasta così immobile e impaurita senza neanche tentare una difesa. E quando avvicinò le labbra e sentii il suo primo bacio colarmi sulla tempia non ci vidi più e le sbottonai la camicia e lei si lasciò sdraiare sulla schiena, coi petali che scricchiolavano tutti sotto il nostro peso. Le baciai il collo e le spalle scoperte, baciai i seni nudi attraverso una canottierina e sentii il petto che si scuoteva come una tromba delle scale quando cade un pallone e rimbalza per centomila gradini. La sua bocca si perdeva in un piccolo mugolio sommesso, come se stesse per piangere o parlasse nel sonno, e ogni tanto veniva più lungo un sospiro che mi sentivo soffiato forte contro la pelle.
Trovai le mutande sotto la gonna e le abbassai l’elastico, ma lei scattò a sedere come se avessi tirato una molla. Mi restarono le dita bagnate e restò l’orma delle mie dita nella carne morbida tra le cosce.
« No » disse solo, scuotendo la testa in modo confuso e imbarazzato, tutta rossa dalla bocca in su.
« No » ripetei stordito e arrabbiato, indeciso se guardarla.
« Non… no. »
« Guarda che non importa. Non devi avere paura. Non… fa molto male. »
Mi avvicinai e cercai di carezzarle la guancia con le dita ancora umide di lei, ma scansò la mia carezza come se potessi ustionarla.
« Non è questo. »
« Allora? »
« Non voglio oggi » disse in tono tremolante e poco energico, con gli occhi sull’orlo delle lacrime.
Mi veniva da ridere e da piangere per lei e sinceramente mi faceva anche un po’ ribrezzo.
« Hai paura che potresti cambiare idea. »
« No. »
« Sai che è così. »
« No. »
Farfugliò qualcosa di insensato che io non ascoltai. Ero certo che se l’avessi lasciata parlare mi avrebbe rifilato una trita teoria sulla purezza o magari sul peccato o una teoria ancora più da Irene, del tipo che si trattava del segno che non amava e non era mai stata amata, e questo era il motivo per cui doveva morire. Uscii pazzo e mi costrinsi letteralmente a non ascoltare. Quando ebbe finito e il colore le era rientrato nelle guance, io la guardai e dissi:
« Vorrei che potessi pentirtene, ma tanto so che non potrai. »
E questo la fece piangere, e io dovetti consolarla.

Eravamo ancora sul colle, stretti l’uno all’altra, quando sentimmo l’esplosione. Irene si era piegata dentro il mio orecchio e mi sussurrava qualcosa. Era strano, perché non c’era nessuno sul colle che potesse ascoltarci, nessuno oltre me che potesse ricordare le sue parole, eppure Irene s’era piegata dentro il mio orecchio, come se non volesse udire il suono della sua stessa voce.
Ci parlò dentro e disse la cosa più orribile che avessi mai sentito. Ci parlò dentro, si staccò ed esclamò:
« Prometti! »
Io avevo tagliato via le parole dalla bocca. Le avevo tagliate via, sgomitavano per scappare giù dal colle, per rotolare altrove.
« Prometti! »
Non potevo promettere. Non potevo. Era la cosa più sordida e orribile che mi avessero mai chiesto, una di quelle cose che dici, è la fine del mondo. Ed è la fine del mondo. È davvero la fine di un mondo. Una di quelle cose orribili da cui non si può tornare indietro.
« Prometti! » urlò per la terza volta, strattonandomi il collo della felpa.
« Prometti! Prometti! »
« Prometto » mormorai, voltandomi dall’altra parte.
Subito dopo esplose il camino, e fu come se l’avessimo fatto esplodere noi.
Da sotto il poggio si alzava una nube di denso fumo nero, una colonna maestosa che saliva in fretta e incipriava le nuvole di fuliggine. Presto mi fu alla gola e mi alzai per capire cosa fosse successo, da dove venisse. Si alzava da casa mia, giù in basso, e il camino era in fiamme. Aveva preso fuoco, e d’un tratto erano tutti sull’aia, i bambini che correvano da un lato all’altro, piccoli come sassolini. Sentii mio padre urlare il mio nome e vidi Irene confusa, perché non sapeva il mio nome. Era straordinario che non l’avesse ancora scoperto.
Le dissi, vieni!, e dimenticai la promessa appena fatta. La cancellai dalla testa dove s’addensava il fumo e insieme ridiscendemmo la collina. Mio padre usciva dalla cantina imbracciando un fucile.
« Ma che diavolo succede? »
« S’è tappato il camino » rispose, strofinandosi la fronte con la canna lucidata. 
« Da quant’è che non lo pulivi? »
« Eh, un paio d’anni. »
« Il fucile? »
« Ci sparo dentro per stapparlo. »
Annuii come se fosse una pratica consolidata.
Lo seguii in cucina, dove lo vidi piegarsi dentro la canna fumaria e infilare la cartuccia nel fucile. Mi coprii le orecchie per prepararmi al colpo. Tuonò un bum che scosse la casa da cima a fondo e la mamma entrò urlando dalla sala da pranzo, si portò le mani alla bocca e disse:
« Misericordia! »
Una pioggia di fuliggine venne giù dal camino, investendo noi e le mattonelle della cucina. Papà fece un salto all’indietro mentre un tizzone ardente rimbalzava sul pavimento e finiva rotolando ai piedi della mamma.
« Presto presto, vai a prendere la carriola. Dobbiamo spalare via questa roba! »
Siccome papà si stava già preparando al secondo colpo, era evidente che parlava con me.
« Prendi anche il secchio della cenere! » mi urlò dietro, scrollando la polvere dal grembiule. Eravamo tutti neri come cornacchie.
Sull’aia trovai i bambini che additavano il camino in fiamme e l’entusiasmo sulle loro faccette era troppo evidente per non far sorridere. Doveva essere l’avvenimento più eclatante da mesi. Raffa tossiva e parlava al cellulare con chissà chi, sciorinando una lunga serie di imprecazioni.
Feci il giro della casa fino alla rimessa delle legna, dove stava di solito la carriola. Mi fermai in cima al prato che mi divideva da lei, e fu allora che la vidi. Vidi Irene che mi correva incontro con le maniche della camicia rimboccate e la faccia impolverata, le braccia che impugnavano saldamente i manici della carriola e la guidavano a zigzag attraverso il prato, fino a fermarsi ai miei piedi esausta, col fiatone.
Aveva le guance rosse come se scoppiasse di vita. Guardai il fumo in alto, le fiamme che lambivano la base del camino come una corona di lampadine.
« Grazie. Dai a me » dissi, carezzandole una guancia. Le tolsi una riga nera.
Aveva le guance rosse come se scoppiasse di vita. Invece, scoppiava di morte.

Di Chiara Pagliochini

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