a mia nonna Gensina
Ricordo ancora com’era a casa quando arrivava
una lettera da Pasqualino. Il postino veniva sulla bici sbilenca, con un
moccioso arrampicato sulla canna, e i freni fischiavano giù per la discesa di
Cecanibbi. Si fermava sull’aia in un gran polverone, tra lo stridio dei freni, e
mi chiamava a gran voce dalla finestra:
« Gensina, scenda, scenda! »
A casa c’ero sempre io, che ero la più piccola.
Mi toccava fare il pranzo per quando il babbo e la mamma tornavano dai campi. Così,
quando arrivava una lettera da Pasqualino, ero io la prima a metterci le mani
sopra e me la stringevo al petto e la baciavo e la ribaciavo, tutta sudicia e sgualcita
com’era. Il postino, che si chiamava Gianni, mi faceva un sorriso grosso, il
suo marmocchio uno sberleffo, e mi pregava di salutargli i miei. Io gli dicevo,
« Presenterò! », e lui si ricacciava in testa il berretto rotondo. Poi dava una
spinta ai pedali e sfilava via sollevando un nugolo di pagliuzze. Passava tra
le galline che si scansavano con un chioccio indispettito e s’arrampicava su
per la salita. Ogni settimana era la stessa cosa.
Le lettere di Pasqualino, però, non arrivavano
tutte le settimane. Anzi, se ne arrivava una al mese era già tanto. Questo non
m’impediva, però, di sperarci sempre e di pensare che quel « Gensina, scenda! »
m’avrebbe portato altre notizie di mio fratello, e chissà che storie
strampalate stavolta. Io non sapevo ancora leggere bene, così la lettera la
appoggiavo sulla panca vicino alla porta, in attesa che ritornasse la Marina. Me
la spiavo mentre rimestavo i fagioli nel callaretto
e canticchiavo intanto per passare il tempo. Poi dalla finestra veniva la voce
del babbo, il suono d’uno scaracchio, e mamma che saliva le scale in un fruscio
della vestaglia, le gambe secche e scorticate.
« Gensina, è pronto, è pronto? » mi chiedeva
ancora prima di salutarmi e poi mi faceva scansare e s’appropriava del mestolo,
come se i fagioli fossero roba sua e non voleva che potessi accamparci qualche
pretesa. Papà si sedeva a tavola con le dita unte di grasso stampate sulla
tovaglia e mi guardava da sotto le sopracciglia sudate, poi mi chiedeva di
andare a dargli un bacio. Io ero la sua piccola, « la sua bestiaccia », e per
me aveva sempre una parola di riguardo. Aveva anche le cinturate di riguardo, ma
solo quando lo mandavo fuori dei gangheri.
La Marina arrivava in cucina tutta vestita come
una signorina. Passava sempre dalla camera a pettinarsi quando tornava dai campi,
come se in cucina ci avesse il moroso. Al paese il moroso ce lo aveva, ma il
babbo non lo sapeva ancora. Io li avevo visti baciarsi dietro il fico e alla
fontana, ma mi diceva sempre « tu fa’ la spia e io ti struppio ». Così me lo tenevo per me.
I giorni che arrivava una lettera da Pasqualino
la Marina però non passava dalla camera. Era sempre la prima a vederla, perché la
mamma e il babbo non sapevano leggere e quindi non si curavano della posta. Dalla
cucina io aspettavo impaziente il suo strillo – strillava sempre – e nel cuore
mi cresceva tanta ansia e una voglia di star bene.
« Mamma, mamma, è di Pasqualino! »
Solo a quel punto la mamma strillava e si
metteva a piangere ancora prima che la lettera fosse aperta. Poi soffiava il
naso nel sinale e si sedeva vicino a
papà, una mano sulla sua. Il babbo non piangeva: solo alla fine gli trovavi
sempre gli occhi lucidi. Allora Marina entrava in cucina tenendo alta la
lettera sopra la testa, mi faceva segno di sedermi « zitta e buona » e si
schiariva la voce. Piano piano sollevava i lembi della busta, un po’ per fare
scena, un po’ per non sciuparla di più. Le dita con le unghie nere spiegavano
il foglio. Schiariva la voce un’altra volta.
Le lettere di mio fratello Pasqualino
cominciavano sempre così, « Cara mammina,
caro babbo, io sto bene. Come state voi? E Gensina? E la Marina? ». Ogni
tanto l’ordine cambiava e metteva la Marina prima di me, ma io non ci restavo
male. Questa era l’unica parte uguale. Il resto era diverso ogni volta, perché diverse
erano le cose che gli capitavano ed erano sempre buffe e divertenti e sembrava
che, invece di essere prigioniero, fosse partito per una scampagnata. Così i
pianti che ci facevamo erano sempre di gioia e mai eravamo tristi perché stava
male.
Pasqualino lo avevano preso a Lubiana nell’ottobre
del 1944. Adesso so che era un posto lontano, così lontano che non mi capacito
di come fosse finito laggiù. Che ci aveva a spartire con quelle terre e quella guerra
e quel modo di parlare? Certo, non aveva deciso lui di andarci, lui che aveva
sempre pensato di aiutare il babbo col tabacco e mettere su famiglia e venire a
stare a casa con la moglie e dieci, quindici bambini. Però alla guerra ci era
dovuto andare lo stesso e non aveva fatto in tempo a ingravidare la Lucrezia,
che adesso era la morosa di un altro e non ci salutava più per strada. Per la
Lucrezia non mi dispiace, lo dicevo che era una smorfiosa (a costo di buscarmi
un boccatone).
Nell’ottobre del 1944 mio fratello lo avevano pescato
che se la batteva nella macchia e, prima che potesse darsi alla fuga, s’era
ritrovato la canna d’un fucile puntata alla schiena e gli avevano detto, «
Marsch », e qualche altra parola brutta tedesca, sicuro. Adesso erano sei mesi
che stava a Francoforte, una città ancora più lontana, tedeschissima, e faceva i
lavori per una famiglia di lì. La famiglia non era malaccio, lo diceva in tutte
le lettere, anzi lo trattavano bene e la domenica gli permettevano di andare al
mercato, guardato a vista, s’intende, ma sempre due passi erano. Sapeva parlare
anche un po’ di tedesco, ma non ci scriveva mai che parole.
Dopo i saluti poteva venire qualsiasi cosa. Tra
« E la Marina? » e il resto, la Marina faceva una pausa e ci guardava dritto in
faccia, come se non sapesse come andare avanti, come se avesse disimparato a
leggere. Poi mandava giù un groppo di lacrime, rifissava gli occhi alla lettera
e seguitava.
Una lettera che mi ricordo diceva così:
« Cara mammina, caro babbo, io sto bene. Voi
come state? E Gensina? E la Marina?
Non ci crederete, ma oggi mi hanno dato per
pranzo una bistecca. Ci sono proprio rimasto. Ho alzato la testa per chiedere
se la potevo mangiare tutta e la signora mi ha detto di sì. Cavolo, una
bistecca, gli è saltata una rotella. E tu babbo l’hai scannato il maiale? E quanti
quintali faceva quest’anno? Vorrei tanto essere lì con voi e cuocere la pizza
sotto il fuoco colle salcicce. Ma voi
non state in pensiero, perché qui mi danno da mangiare la bistecca e quindi va
tutto da Dio, solo che mi mancate.
Un saluto alla Lucrezia se la vedete. E ditele
che non importa se s’è messa con Primetto. Aveva ragione la Gensina, è una
smorfiosa e basta. E tanto me la sono rifatta anch’io la morosa qui. Alla
faccia sua.
Vi abbraccio, vi voglio bene. Torno presto. »
Ma presto non tornava e il mese dopo lasciavo
un’altra lettera sulla panca e di nuovo Marina strillava e di nuovo i suoi occhi
si perdevano nel vuoto e inghiottiva il pianto.
« Cara mammina, caro babbo, io sto bene. Voi
come state? E la Marina? E Gensina?
Qui sono tanto buoni con me. Mangio tanto e
sono pure ingrassato e non sgobbo come a casa. È meglio qui che stare alla
guerra, dove potevo rimanerci secco. Ce la spassiamo, insomma, e vorrei che
foste qui anche voi perché staremmo sempre a pancia all’aria. Qui nessuno va a
cogliere il tabacco per gli altri, sono tutti puliti, le camicie stirate e
lavorano nelle fabbriche e negli uffici e non vedi in giro nessuno con le
scarpe bucate. È un posto strano, ma mi ci trovo bene.
Se potessi vi manderei dei soldini, ma non me
li fanno mandare, però ho messo da parte un bel gruzzoletto e faremo festa
quando torno. Accenderemo il fuoco sull’aia e arrostiremo il capretto e
chiameremo Faustino: suona ancora la fisarmonica? Mi ricordo che era bravo
parecchio e io posso sempre accompagnarlo con la chitarra. Ma poi l’avete
venduta la mia chitarra?
Fatemi sapere come state. Vi voglio tanto bene,
so che ci vedremo presto. »
E ancora, settimane, settimane.
« Cara mammina, caro babbo, io sto bene. Voi
come state? E Gensina? E la Marina?
Oggi vi voglio parlare della mia fidanzata e se
il babbo mi darà la benedizione me la riporto a casa e facciamo un sacco di
bambini. È una come non se ne trovano giù da noi, bionda bionda e con la pelle
come una bambola. Si chiama Hella ma io la chiamo sempre Nena, come la nonna, e
lei ride scoprendo i denti grossi perché le sembra un nome divertente. È tedesca,
ma è a posto. È gentile. La sua famiglia non la conosco ancora, ci vediamo solo
i giorni di mercato. Sembra una poverella come noi, ma ha detto che mi presenta
ai suoi. Ed è davvero tanto buona, quindi la mamma non si deve preoccupare. E poi
le sto insegnando l’italiano, quindi quando viene sa già tutte le parole e non
dovete preoccuparvi di niente. E non preoccupatevi, perché sono serio e casini
non ne combino. E lo dico soprattutto per il babbo, che lo so che sta in
pensiero.
Scrivetemi cosa ne pensate e se faccio bene a
parlare col suo babbo. Ma se mi dite di no, non lo faccio, state sicuri. Soprattutto
la Gensina voglio sapere cosa pensa, perché le mie morose non le stanno mai
simpatiche.
Vi abbraccio forte, ci vediamo presto. »
Ma non ci siamo rivisti tanto presto. Però ci
siamo rivisti e forse è solo questo che conta. Pasqualino ci ha messo cinque
anni per tornare a casa. E quando è tornato era da solo, nessuna Hella, nessuna
Nena, ed era sciupato, con la barba, secco come un chiodo. S’è presentato sull’aia
senza scriverci niente, così, dalla mattina alla sera. Io avevo già dodici anni
quand’è tornato, ormai sapevo leggere e avevo scoperto l’inghippo. Marina s’era
sposata col suo moroso ed era andata a stare alla Pizzichina.
Quando Pasqualino è tornato, non ha voluto
raccontarci niente. E mi ricordo che la mamma e il babbo si stupivano, perché per
tanti anni ci aveva raccontato tante cose belle. E le cose erano due: o era diventato
cattivo o le aveva dimenticate tutte. Non abbiamo fatto nessuna festa sull’aia.
Cioè, l’abbiamo fatta, ma lui non si divertiva. E gli è rimasta ancora oggi un’ombra
negli occhi che non era mai scesa sulle sue parole.
Quando Pasqualino è tornato, la Marina l’ha
salutato con un certo imbarazzo, dicendogli qualcosa nell’orecchio. Io penso di
sapere che cosa gli ha detto, perché ormai sapevo leggere, al contrario della
mamma e del babbo.
Sapevo leggere ed ero andata a riaprire quelle
lettere una per una e avevo visto che dopo «
Cara mammina, caro babbo, io sto bene. Voi come state? E Gensina? E la Marina? »
non dicevano mai niente, erano tutte righe nere, scarabocchiate con la penna,
di parole che la censura non aveva fatto passare, di storie che non ci aveva
potuto raccontare. Così la Marina, che era l’unica che sapeva leggere,
inventava per noi quelle parole e quelle storie, tessendo per noi un’invenzione
fantastica, un’invenzione che ci scaldava il cuore.
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