martedì 3 gennaio 2012

L'agenzia dei suicidi. Cap.18

L'urlo, Munch

Uscito da casa di Irene, mi incamminai verso la piazza. L’aria fredda della notte mi tagliava la fronte, ma ci badavo poco. Per quanto mi riguardava, poteva piovere o nevicare o anche sprofondarmi la terra sotto i piedi.
Percorsi via Raffaello a rotta di collo, le ginocchia che arrivavano prima delle scarpe. La piazza, in fondo, era chiassosa e tutta luccicante. La attraversai scansando i passanti e sedetti sul bordo di marmo della fontana. Era una fontana squallida, senza pesci. Non m’era mai sembrata così triste. Dal bar di fronte venivano musica e vocio e a volte non sapevo distinguere l’una dall’altro. Alcuni ragazzi sedevano sui gradini del portico, con in mano delle bottiglie di birra. A pochi passi, accatastati, bicchieri di plastica con dentro le cannucce. Altri ragazzi, tutti sui vent’anni, erano in piedi e parlavano e ridevano in gruppi, un po’ davanti al bar, un po’ vicino a me, accanto alla fontana, un po’ davanti alle locandine del cinema. Era una sera come tante. Anche se faceva freddo, la gente non aveva voglia di restarsene a casa. E poi erano giovani, potevano permetterselo. Per un attimo pensai a Irene – era giovane anche lei – e a come faceva a essere così diversa. Scacciai l’immagine e mi cacciai la testa tra i palmi. Ero un vecchio intruso seduto su una brutta fontana in una piazza piena di vita.
Mentre stavo così, una mano mi si posò su una spalla e al tocco alzai la faccia per vedere chi fosse. Era Ascanio.
« Ehi » lo salutai.
« Non ci siamo mai beccati in giro. »
« No, già. »
« Dispiace se mi siedo? »
« Fa’ pure. »
Ascanio si accoccolò accanto a me e incrociò le braccia dietro la nuca. Fissava un punto davanti a sé, sotto il portico.
« Vedi laggiù? » disse e io fissai la punta del suo indice come se fosse molto interessante. « Quella è la mia ragazza. Cioè, non stiamo ancora insieme. Però usciamo. E pensavo di chiederglielo domani, che è il suo compleanno. »
« Quella mora con la gonna? »
« No, quella con la cresta! »
Un ragazza con una cresta rosa ravanello e una gonna strappata di jeans rideva con un bicchiere di plastica in mano. Rideva così forte che si sentiva da dove eravamo. A un certo punto rise troppo e un liquido fucsia le uscì dalle narici mentre si piegava in due sul busto. Se non altro, era una persona di spirito.
« È anche lei una… ema? » esitai.
« Emo. »
« Sì. Lo è? »
« No. »
« È una punk? »
« No, è lei e basta. Si chiama Jane. »
« Jane » ripetei.
« In realtà si chiama Gianna. Ma si incazza da morire se la chiami così. »
« Giustamente. »
« E quindi » Ascanio spostò lo sguardo su di me « che ci fai in giro? »
« Boh, passavo. »
« Sei andato a casa di Irene? »
« Abbiamo litigato. »
Un momento di pausa. Ascanio fissò pensoso la sua Jane, poi fissò me.
« Te la sei scopata? » domandò.
« No. »
« Ah, beh. Neanche io. Cioè, in realtà non l’ho mai fatto. »
« Tranquillo, » cercai di sorridere e, stranamente, venne quasi naturale « è più facile quando lo fai che quando ci pensi. »
Quel ragazzo mi metteva di buon umore. Non era depresso come Irene, ma non era neanche uno stupido. Era un ragazzetto sensato, per la sua età.
« Ci siamo portati da bere da casa. Vuoi qualcosa? »
« Meglio di no. »
« Ti ci vuole qualcosa. Vado a prenderlo. »
Aspettai che tornasse e intanto guardavo Jane. Pensai che non mi piacevano i capelli, non si potevano accarezzare. A pensarci, forse non era più tempo di carezze. La gente le faceva ancora, le carezze? L’ultima era stata il Natale scorso, da parte di mamma.
« E quest’anno cerchiamo di sistemarci, eh. »
Certo, mamma, ci sistemiamo in una bella bara.
Ascanio tornò con una bottiglia di vetro, con dentro un liquido trasparente.
« È sambuca. »
« Di che sa? »
« Liquirizia. È buona. »
Svitai il tappo e appoggiai le labbra.
« Giù giù. Una bella sorsata » disse Ascanio, con un sorriso da parte a parte.
Alzai la testa e bevvi un lungo sorso senza assaporare. Quando il sorso arrivò in fondo alla gola e poi ancora giù e poi allo stomaco, mi sentii tutto bruciare. Il sapore era forte, ma il bruciore di più, e così finivo per sentire solo un caldo e un pizzicore atroci. Ascanio rise mentre gli restituivo l’impiastro.
« Vedrai tra un minuto. »
Gradualmente il calore si acclimatò e cominciai ad avvertirlo di meno. Lo avvertivo di meno, ma non era scomparso: si era solo distribuito, e adesso era calda la pancia, era calda la fronte, erano caldi i piedi e i palmi e in mezzo alle gambe. La testa fece un’onda e disse, oh. Io dissi:
« Ancora. »
Ascanio mi tese la bottiglia e mi assestò una pacca al centro della schiena mentre tracannavo. La sambuca mi andò di traverso e tossii. Lui rise più forte. Dopo di quello ricordo che poggiai la bottiglia sull’asfalto e mi misi a guardarla: era tutta fuori fuoco. Oltre il vetro, che ballava e ballava, mi sembrava di vedere una fatina.

L’asfalto era molto caldo molto comodo. Era come quando nevicava e si faceva l’angelo in terra muovendo le braccia e le gambe a forma di ventaglio.
Il cielo era un po’ liquido e le luci delle stelle e le luci dei lampioni erano tutte la stessa luce o forse non c’erano che lampioni e le stelle non si vedevano. Anche la strada e la faccia di Ascanio sembravano sciogliersi dentro il contorno delle palpebre. Povero Ascanio, si sfilacciava per il caldo.
Se mi sforzavo sentivo il corpo scivolare nell’asfalto, sprofondare come un pietrone nell’acqua. C’era tanta schiuma. Era uno scivolare morbido come era morbida la guancia sul cuscino.
« Ti senti bene? »
Certo che mi sentivo bene. Mi sentivo davvero bene. Era roba da non rialzarsi più.
« Ti viene da vomitare? »
Che vomitare? Lo stomaco era così caldo e piacevole e gorgogliante ed era merito suo se stavo bene.
« Forse è meglio se ti alzi. »
Rialzarmi? Stronzate. Non c’erano un alto e un basso. Il mondo era tutto un indistinto rasoterra. E dalla mia posizione godevo del panorama migliore.
« Aiutatemi a tirarlo su. »
Qualcuno mi prese da dietro, per le spalle. Gridai che mi lasciassero, ma non volevano lasciarmi. Il mio orizzonte si disfaceva, la mia visuale si ingigantiva per colpa loro, né le stelle né i lampioni brillavano più. Adesso vedevo la superficie della strada, ma dall’alto. Non capivo se fosse diritta, perché non mi si fissava negli occhi. Continuava ad oscillare su e giù.
« È una barca » dissi.
« Certo » risposero.
La linea di mezzeria era frastagliata, i pezzetti si muovevano, il tratteggio si mordeva la coda come un cane.
« Ti porto a casa. »
« No, adesso no. »
Qualcuno mi reggeva dai due lati, i loro bracci incastrati sotto le ascelle. Ondeggiai a destra e ondeggiai a sinistra, tentando di coinvolgerli nell’onda. Loro non ridevano.
« Come sta messo. »
Come stavo messo. Avevo la testa così leggera.
Dall’angolo in alto a destra stava arrivando un treno, perché quando chiudevo gli occhi potevo vedere una lucina. Allungai le mani per acchiapparla, ma qualcuno mi diede una gomitata nelle costole. Quella mi fece la linguaccia e disse che non voleva venire con me.
« Lo portiamo al pronto soccorso? »
È pronto il soccorso? Il pronto è soccorso? Chi soccorre il soccorritore se il soccorso non è pronto? Mi stavano portando verso una bella ragazza con dei brutti capelli. Trascinando, più che altro. Mi sentivo svolazzare a un pelo da terra come un vestito appeso. La ragazza aveva una bella faccia e portava la gonna. Sotto, niente. Chissà se portava le mutandine.
« Ma che ha? »
« Mi sa che ho esagerato. »
« Ma sei cretino? »
« Per favore, aiutami, tienilo un attimo. »
Adesso ero addosso alla ragazza e la guardavo giù nello scollo della camicetta fin sotto l’ombelico. Quant’era carina. Volevo allungare una mano, ma quando ci provavo non riuscivo a trovarla, come se la avessero cucita da un’altra parte. Così potevo solo immaginare senza toccare. Guardare e non toccare. Chi rompe paga.
Mi  immaginai che le mettevo un dito nella pesca e spingevo e la pelle della pesca si contraeva tutta intorno al dito, bagnata. E la buccia non era grinzosa neanche un po’, era succosa. E io entravo fino a che non trovavo il nocciolo e lo prendevo in mano, poi lo spolpavo nella bocca fino a che non c’era più niente attaccato. Adesso lo potevo piantare e sarebbe nato un albero. E a primavera l’albero avrebbe dato le pesche come il ciliegio di casa dava le ciliegie. Anche le ciliegie sono succose, però sono piccole, un morso e ti tocca sputarle via subito. Da piccoli ci mettevamo sopra il tetto e sputavamo sulla gente che passava. Poi Raffa non era più venuta sul tetto perché era diventata grande. E fine della storia. Vissero felici e scontenti.
A poche braccia da me c’era un’altra ragazza seduta per terra. Parlava e piangeva dentro un telefono cellulare e altre ragazze cinguettavano e dicevano che se non lo lasciava era peggio. Chissà con chi parlava. Doveva essere il suo ragazzo. Oppure era un ragazzo che non se la filava. Non si deve insistere, quando uno non ti fila. Ti sbucci le ginocchia e basta, e questa buccia non è succosa manco un po’.
La ragazza sopra cui stavo aveva un sapore molto buono. Era un po’ sudata, ma il polso le sapeva di caramella. Volevo leccarglielo ma la lingua era legata sul palato, spessa e inturgidita.
Ascanio mi teneva sollevata una palpebra e ci guardava dentro come da uno spioncino. Gli feci, buh!
« Dobbiamo portarlo a casa. »
« Prendigli il telefono. »
« E? »
« Chiama il numero che compone più spesso. »
« Non so chi è. »
« Al massimo ti manda affanculo. Qui non può stare. »
Ascanio parlottava con un altro dentro il mio telefono e questo non era giusto neanche un po’. Uno, perché il telefono era mio. Due, perché Ascanio era amico mio. Tre, perché il telefono era mio. Quattro, perché non parlava con me e io mi offendevo.
Ma nessuno voleva parlare con me. Io ero stupido. Con me non ci parlava nessuno. Nessuno voleva dirmi niente. Come ti chiami. Come stai. Come ti ammazzi. Niente. Neanche una confessione piccola piccola. E non mi voleva la ragazza coi capelli brutti e non mi voleva manco Irene. Irene. Irene è una cosa secca che entra in una vasca da bagno, è una cosa tutta ossi e tutta capelli, che appena la tocchi o si rompe o cade. Irene è brutta e io non la voglio e lei non mi vuole e quindi possiamo anche fare pace e andare a cena e poi scopare e poi ammazzarci insieme buttandoci giù da un ponte. Io prima le do una botta in testa, così non sente che affoga, poveretta.
Ascanio chiude il telefono e mi fa distendere di nuovo per terra. Io fisso il cielo e ci ritrovo tutte le luci di prima.
« Adesso chiudi un attimo gli occhi. Stanno venendo a prenderti. »
Io chiusi gli occhi e vidi tante cose che non ricordo. C’era ancora il treno che veniva e poi frenava e ripartiva e non faceva ciuf, ma fischiava sempre.
« Sono arrivati. »
Già? Non li ho nemmeno sentiti arrivare. E ho già dormito così tanto?
Aprii gli occhi e cercai di mettere a fuoco, perché se era una persona che conoscevo dovevo essere educato.
« Quanto ha bevuto? » chiedeva la persona, che poi era una donna.
« Eh, un po’. Non lo so. Mi sa che è astemio. »
La donna si chinò su di me e il suo viso era bianco come quello di un angelo. Era Irene. No, era Greta. Io mi sollevai un attimo, poi mi piegai da una parte a vomitare. Le sue scarpe erano lucide, nere. Vidi una chiazza gialla che le copriva e si spandeva e mi colava dalla bocca. E c’erano chicchi di riso, ma soprattutto era gialla. Mi faceva così vomitare che non sapevo neanche se l’avevo vomitata io.
« Andiamo a casa » disse Greta.

Di Chiara Pagliochini

2 commenti:

  1. Sarebbe tutto da citare, ma a causa di un particolare momento della mia vita mi ha colpito questa parte più di altre: "Oppure era un ragazzo che non se la filava. Non si deve insistere, quando uno non ti fila. Ti sbucci le ginocchia e basta, e questa buccia non è succosa manco un po’."

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  2. Da quando "questo particolare momento" della mia vita è cominciato, io ho scoperto che vado molto più d'accordo con Ryan.
    Sembra una cosa stupida a pensarci, in realtà fa male quando uno ci è dentro, ed io piangevo fino a due settimane fa. Quindi ti sono vicina :)

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