martedì 8 novembre 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap.12

Marcella, Ernst Ludwig Kirchner

Tante cose, tante frasi corsero tra noi che non correvamo, così sdraiati vicini. Così tante che forse ne ricordo la metà. Così tante che forse una metà le ho inventate. Quello che posso fare è raccontarle così come ricordo, per quanto imperfette o forse abbellite nella memoria. Chissà, forse sono persino tutte vere.
« E la tua famiglia? »
« Che c’entra la famiglia? »
« Quanto sanno di quello che stai facendo? »
« Niente, te l’ho detto. Loro pensano che sono in Islanda. »
« Sei tu che vuoi che lo pensino. Che razza di genitori pensano che la figlia è in Islanda e non si danno la pena di controllare? »
« Sono grande. »
« Ah, anch’io. Ma c’è sempre mia madre che mi rompe i coglioni.»
Irene mandò un risolino forzato, di quelli che tiri fuori soltanto per cortesia. Non potevo vedere la sua faccia, perché entrambi fissavamo il soffitto come se fosse interessantissimo, ma immaginai una ruga raggrinzirle la fronte spaziosa, la mascella contrarsi in uno spasimo breve.
« Saranno preoccupati a morte » rispose finalmente.
« Saranno pure morti. »
« Non scherzare. »
« Non sto scherzando. Di dov’è che sei tu? Nessuno ti cerca? »
Irene bisbigliò qualcosa. Appena un fruscio, niente affatto distinguibile. Le chiesi di ripetere.
« Hanno denunciato la scomparsa. Mi stanno cercando. E sanno che non sono in Islanda. »
« E tu? »
« Che potevo fare? Li ho chiamati. Ho detto loro che sto bene, che non posso tornare. »
« E loro hanno capito? »
« Certo che no. Ma mi cercano a Pisa. Era lì che stavo l’anno scorso. Non lo sa nessuno che sono qui. »
« E non vuoi rivederli? »
« No. »
« Perché? Sono così… ? » incespicai, cercando le parole. Ma non vennero. Quanto male poteva aver fatto una famiglia per spingere una ragazza a… ? Neanche nei pensieri mi venivano le parole.
« Perché mi farebbero cambiare idea. Loro sono sempre stati così semplici. Sono sempre stati così buoni. Mi hanno sempre voluto bene. E io neanche un po’. »
« Non ci credo. »
« Fai pure. Ma è l’evidenza dei fatti. Io sono qui e loro mi cercano di là. Io voglio morire e loro vogliono che viva. È così. Non ci sono vie di mezzo. Amare loro significa amare la vita. E io non amo la vita. Quindi non amo neanche loro. »
« Sei troppo radicale. Non è perché ti vuoi… non è perché cerchi di… »
« Perché non riesci a dire ammazzarti? »
« È tanto pesante. »
« Io sono pesante. »
« Il fatto che ti vuoi… ammazzare… non significa che non gli vuoi bene. »
« È quello che direbbero loro. Perché loro sono così semplici. »
« Tutti i genitori sono semplici. Anche i miei. Le famiglie sono così. Esistono per questo. Perché così tutti i problemi sembrano semplici e stupidi. No? »
« È per questo che sono andata via. Non voglio essere semplice, non voglio essere stupida. Voglio essere pesante e… radicale. »
« Parli come una bambina. »
« Senti chi parla. »
Mi girai su un fianco, dandole le spalle. Con la coda dell’occhio spiavo la bacheca. La sentivo respirare piano, tranquilla, come una lenta melodia di pianoforte. Era una canzone malinconica ma tenace, che crescendo e crescendo si affermava, affermava su tutto e tutti il suo messaggio, riverberando da una parete all’altra della stanza, facendo cadere i ventagli delle signore, tremare gli sgabelli degli spettatori col cilindro. Ed io mi sentivo tutto scosso, come liquefatto, impotente. C’era solo da togliersi il cappello ed uscire.
« Ma perché? » domandai, e fu un atto di ribellione istintiva.
« Perché lo faccio? »
« Sì » risposi a voce bassissima.
« Perché non c’è niente per cui valga la pena di. »
« Di cosa? »
« Di tutto. Non c’è niente per cui vale la pena di. »
Mi voltai di scatto. Sentivo che mi tremava il mento. Tremavano i denti negli alveoli. Tremava il sopracciglio. Tremavano le nocche bianche delle dita.
« Ma non ha senso! »
Lei era calma come melodia di pianoforte, calma come acqua stagnante.
« Ecco. Non ha senso. Proprio questo. »
Sorrideva ancora di quel sorriso sottile, un po’ ironico, un po’ altezzoso, come se non potesse essere capita da nessuno. Come se avesse il diritto, la pretesa di comprendersi lei sola. Nessuno poteva dirle cosa fare. Nessuno poteva correggere una cosa quando lei l’aveva detta. Era come una sacerdotessa delirante e le sue parole erano profezia e foglie e un refolo di vento spazzava il pavimento del tempio, e io ero lo stupido venuto a chiedere all’oracolo.
« Ma ci sarà qualcosa che vuoi! Qualcosa che volevi! Qualsiasi cosa! Qualcosa che è successo! »
« Qualcosa che non è successo. Vent’anni, sette mesi, ventisette giorni. »
« Piantala di fare la scema! »
« È come parlare col muro. »
« È come parlare con una deficiente. »
« Se stai qui per insultarmi te ne puoi anche andare. »
« E se io devo stare qui a deprimermi vado a casa e ci penso da me. »
« La porta è quella. »
Ma non mi alzai. E non andai verso la porta. Tanto sarebbe stato meglio se l’avessi fatto.
Per un po’ restai così, senza sapere che dire né che fare. Era così testarda. A qualsiasi mia domanda avrebbe sempre risposto così, con la pretesa di avere ragione. Non si poteva farle cambiare idea. Allora forse si poteva provare a… A capirla? Ma come si poteva capirla? Era così lontana, così lontana da tutto quello che io ero e da quello che pensavo di essere. Irene era oltre. Allora perché volevo trapanare quel muro, il muro che ci divideva e che sempre ci avrebbe diviso? Per stringerle le dita quando il buco fosse stato abbastanza grande? E che senso avrebbe avuto? Era solo un piccolo foro, erano solo piccole dita, era poco più che niente. Perché volevo quel niente? Non si poteva scavalcare il muro, non lo si poteva abbattere, non si poteva scavare un sottopassaggio. Solo stringere quelle dita lievemente contratte con la punta delle proprie dita lievemente contratte. E forse era questo che io volevo. Un contatto, pure brevissimo, una scintilla, sapere che c’era effettivamente qualcosa dall’altra parte del muro. Far sapere a lei che c’ero anch’io. Farle sapere che c’era un muro, di cui senza di me non si sarebbe mai accorta. Ero folle? Ero un idiota senza speranza?
« Cos’è che non è successo? » mi sforzai.
« Niente. »
« Smettila di fare così, per favore, smettila. »
« Così come? »
« Così vaga. Finta. Artificiale. Parla con me. Per favore. »
« Niente. Non è successo niente. Tutta la vita è stata sempre uguale. E io ho sempre avuto un’ansia di fare qualcosa, di avere un senso, capisci? Ma non ho fatto mai niente e un senso non c’è. »
« Cosa volevi fare? »
« Qualcosa di bello. »
« Cristo, Irene! »
« Volevo che qualcuno mi volesse bene e volere bene a qualcuno. »
« Ma hai… »
« Non dire quelle stronzate. Non dire gli amici. Non dire i parenti. Tu lo sai che cosa vuol dire. Lo sai anche tu. Non fare il moralista del cazzo. »
« Sei tu che non devi dire stronzate. Non fare l’angelo del Paradiso. Un ragazzo? È di questo che stiamo parlando? Stiamo davvero parlando di sesso? »
« Tu lo dici. »
Era molto pallida e adesso un po’ chiazzata di rosso. Ed era tanto più rossa quanto più era pallida. E io stavo quasi per picchiarla. Era buffo guardarla in viso, buffo perché era così imbarazzata, e anche così arrabbiata. Aveva gli occhi liquidi e neri neri, spalancati come gli occhi di un cerbiatto. Si mordeva coi denti il labbro inferiore. E non sapevo se stesse per piangere o per mettersi a ridere. Ma non avrebbe risposto, questo lo sapevo. Perché non ero stato gentile a domandare.
Ma poi… non era tutto lì? Quell’ansia metafisica che diceva lei, quell’ansia per niente. Cosa? Questione di sentirsi vivo per qualche mezz’ora ed avere caldo senza avere le coperte. E quando ci si svegliava al mattino un paio di mutande sulle piastrelle e il bagno occupato. Tanto rumore per nulla.
Oppure ero io, io che non avevo mai capito cosa ci fosse di bello in un bagno occupato, io che alla frase “quando?” rispondevo sempre “non lo so”, io che volevo essere felice per mezz’ora e non mi importava affatto di tutta la vita. Chi voleva il bagno occupato? Chi voleva un bagno occupato per tutta la vita? Si poteva avere qualche mezz’ora ogni tanto e il bagno sempre sgombro. No, non ero così cinico, non ero così freddo, ma loro mi raffreddavano, loro coi loro artigli di mogli e fidanzate e tutto il resto. Si installavano in casa tua, dormivano nel tuo letto, occupavano il tuo bagno, dicevano “mi presenti ai tuoi?”. Perché dovrei? Loro mi spaventavano, perché volevano qualcosa da me. Ma alla fine capivano, lo capivano tutte. E Maria e Nadia e Rebecca, sfilate via come ballerine di carillon, coi loro mariti in qualche parte del mondo, adesso, e un bello stuolo di marmocchi. “Non è questo che vuoi anche tu?”, no, non è questo che voglio. “Allora hai paura”, paura di cosa? Paura di cosa? Di essere libero, di avere la mia indipendenza? Era bellissimo e niente affatto pauroso.
Così non potevo capire Irene. Non potevo capire Irene come nessun uomo poteva capire nessuna donna. Ma forse io ero tanto più speciale da non poterla capire neanche un po’.
« Non è questo » disse lei, dopo un po’ che stavamo zitti.
« Sapevo che l’avresti detto. »
« Non è questo perché non è solo questo. Perché quello che dici tu si può sempre avere. Se uno si accontenta. Se uno abbassa gli standard. Ma quello che voglio io non è una cosa che si può avere sempre. »
Leggevo la bugia che barcollava nei suoi occhi.
« Hai mai avuto l’occasione di accontentarti? »
« Che vuoi dire? »
« Voglio dire… ti è mai stato proposto di accontentarti e tu hai rifiutato? »
« No. »
« E allora come fai a sapere che non è solo questo? »
« Se fosse così avrei un altro motivo per ammazzarmi. Perché non c’è davvero niente, davvero niente che…  »
Lasciò cadere la frase, e quella cominciò a fluttuare tra noi come se fosse una piuma. Non c’era bisogno che io la raccogliessi, perché sapevo cosa portava scritto. Così quella ci sorvolò e restò ad alleggiare sospesa, senza che nessuno sentisse davvero il bisogno di completarla.
« E se fosse solo così? Se tu volessi ammazzarti solo perché nessuno si è mai voltato a guardarti per strada? »
« Non è così. »
Abbassò gli occhi e fissò il lenzuolo e le sue piccole unghie si artigliavano come tante conchiglie con la bocca spalancata.
« Perché se è così stai sbagliando tutto, Irene. Perché io mi sono voltato. »

Di Chiara Pagliochini

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