« Perché questa ragazza è così triste? »
La domanda la riscosse, si svegliò, sentì che
le montava la collera. Perché questa ragazza è così triste era affar suo, il
motivo di un’indagine tutta privata. Sentirselo chiedere ad alta voce la colpì
come un’offesa e un’intrusione. Si chiese se dovesse voltarsi, per rispondere,
difendersi, « Io non sono triste affatto », oppure fare un gesto con la mano,
quel gesto che si aspettavano da lei. Le mancò la forza. Continuò a camminare.
Non aveva pensato di essere triste fino a
quando qualcuno non glielo aveva ricordato. Splendeva il sole, la luce
scivolava sulle cose, le colline verdi e lontane parlavano di posti dove non
era stata ancora. Tutto era così grande, così magnifico da schiacciarla, e si
sentiva piccola, di scarso valore, un’intrusa che non sapeva bene come
portarsi. Ma non aveva pensato di essere triste. Quando aveva superato quei
ragazzi, è vero, aveva pensato con che faccia affrontarli. Formarsi una faccia
non veniva spontaneo, doveva chiedersi, « Potrò far finta di non averli visti? ».
Come funziona, quando si incrocia per strada qualcuno che non si conosce? Si scontreranno
gli occhi, ci si metterà d’accordo di essersi visti e ci si sorriderà? Oppure si
chinerà il capo, si volterà la guancia dall’altra parte, ci si distrarrà con la
rubrica del cellulare e si passerà come se non si fosse visto niente? Niente, una
falla nel tessuto dell’universo che risucchia la luce tutto intorno.
Eppure quei ragazzi li aveva visti. Aveva visto,
ma non li aveva guardati. Tra il notare qualcuno e l’osservarlo corre tutta la
differenza d’una forza o d’una debolezza di carattere. Serve coraggio per
guardare qualcuno senza abbassare gli occhi: le palpebre corrono a chiudersi
per vecchia abitudine, le pupille squadrano corrucciate il marciapiede. Così,
quand’era sfilata tra i tre ragazzi in mezzo alla via… Ecco, non era triste – o
almeno non triste in un modo così vile e palese – non era triste, stava solo decidendo
come guardarli. Uno era biondo, un altro reggeva un sacchetto della spazzatura,
un terzo sapeva che c’era, ma l’occhio non l’aveva registrato. Registrare qualcuno
è impegnativo: significa esser disposti ad accollarselo, a portarlo con sé nella
memoria, a riconoscerlo un’altra volta che si passerà. E così guardare qualcuno
– guardare quando lo si guarda con occhi sfacciati – è proprio un’operazione di
grande impegno, non esente dai pericoli del contatto umano, un atto che non lascia
mai indifferenti. Guardare qualcuno è accarezzarlo, e una carezza non è gesto
che si dispensi con facilità. L’occhio sceglie la sua guancia e vi si posa, la
riscalda con la promessa di un affetto pronto e così… è proprio così difficile
alzare lo sguardo.
La ragazza improvvisamente fu triste. Fu triste
per più motivi tutti insieme: triste perché non aveva ricambiato l’occhiata,
triste perché non avrebbe ricordato quei ragazzi, triste perch’era sembrata
triste, perché aveva mancato un’occasione di essere bella.
Tutto il giorno fu triste e continuò a pensare
a quei ragazzi e quando venne la sera sentì di aver commesso un grande sbaglio.
Avesse almeno provato a scusarsi, si fosse voltata e avesse detto, « Non sono
triste », si fosse fermata per spiegare la differenza tra l’esser tristi e l’esser
perduti, e che importa se non avrebbero capito, che conta se le avrebbero riso
in faccia. L’avrebbero ricordata, la spazzatura sarebbe sfuggita di mano, e
avrebbe donato loro lo stesso imbarazzo che per un attimo aveva provato lei.
Ammesso che l’imbarazzo sia un dono, e non la condanna di una lettera
scarlatta, non una pistola, un boia, uno sfregio, una cicatrice, un danno. Ammesso
che colpire qualcuno col proprio imbarazzo non sia il più mortale dei colpi.
Si immaginava nell’atto di guardare quei
ragazzi, di sbatter le ciglia. Loro notavano che era graziosa, che si vestiva
bene, e una pioggia di particelle di attrazione inzuppava loro i capelli. Si immaginava
che potevano chiederle di salire e la sdraiavano sul letto, e uno le baciava la
tempia dalla parte destra, e un brivido le correva giù tutto lungo il fianco.
E più immaginava, più diventava triste, più il
capo le si chinava sul collo, più le spalle crollavano invertebrate. Meno vedeva,
meno guardava, e intanto intorno pioveva.
Fu solo molto più tardi – molto, molto più
tardi, ma fu – che le innestarono un anello d’acciaio, proprio qui, alla base
dello sterno, e un corrispondente gancetto sul mento. Così, quand’era troppo
fiaccata per guardare, poteva chiudersi il mento col busto, e se ne andava in
giro ripiegata come una valigia, premuta come un bottone dentro l’asola.
Di Chiara Pagliochini
♥
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