venerdì 13 aprile 2012

Libera Terra d’Antartide, o Racconto fantastico d’una ennesima utopia coloniale

Andrew Wyeth


Libera Terra d’Antartide,
giorno 52

Chi pensava, quella sera, che si sarebbe arrivati fin qui. Si parlava tanto per parlare, come spesso si fa tra amici, un parlare senza pretese e senza conseguenze. Chi ci pensava. Eppure eccoci, e quanto avanti siamo.
La vita scorre monotona ma incantevole, come ci si aspetterebbe che scorresse. Quando non è possibile distinguere il giorno dalla notte ci corichiamo a un’ora qualunque, ma solo se il sonno ci preme le palpebre fino a deformarle. Il pensiero che il domani sarà lo stesso che l’oggi, che niente e nessuno ci aspettano, ci priva d’ogni ansia, e quindi d’ogni sogno. Dormiamo notti senza sogni da cui ci svegliamo riposati come bambini e ci stropicciamo gli occhi con lo stesso entusiasmo loro, il semplice entusiasmo di essere vivi. Non ci sono speranze e non ci sono illusioni, perché il piacere ci acquieta. Non manchiamo di nulla. La vita adamitica non dev’essere stata molto diversa dalla nostra.
Oggi, per la prima volta, si sono visti gli aerei: piccoli velivoli da ricognizione, spie nere, dispettose, sospettose, che riempivano l’aria di un grande rumore di civiltà. Abbiamo mandato avanti la nostra contraerea, e quelli si sono ritirati. Ma torneranno, com’è vero che non possono lasciarci alla nostra illegittimità. Legittimo, illegittimo, la nostra terra è senza leggi, la nostra terra non conosce orpelli, non è insozzata dai passi della convenzione. Al rumore di quelle eliche, essa trema e si scuote e vorrebbe scrollarsi di dosso quella intrusione violenta. Torneranno, e noi li scacceremo. Siamo fiduciose che questo non sia uno stato di cose transitorio.
Ringraziamo un Dio in cui non crediamo per le Cose che non ci ha dato.

Libera Terra d’Antartide,
giorno 54

È giornata di manutenzione. Di buon mattino – o forse, di buona sera – Gemma ha imbracciato la cartelletta dei conti e s’è data a ispezionare il perimetro dell’edificio centrale. L’edificio centrale l’ha costruito in forma di igloo, perché aveva quest’idea, se volete un po’ demodé, che la forma dovesse essere “classica al contempo e innovativa nei materiali”. Il diametro dell’igloo è di trenta metri, la volta sopra la nostra testa sfiora i diciannove, e all’interno trovano posto due spaziose camere da letto, una cucina, il salotto dei divani, un bureau e la “sala del trono” (come scherzosamente Gioia chiama il bagno). L’ispezione è durata fino a mattina inoltrata – o forse, fino a notte inoltrata. Gemma faceva i conti, Gioia prendeva le misure col righello e io correvo impaziente dall’una all’altra, spiando le rughe che s’appianavano e si aggrinzivano sulle loro fronti, come l’apri-chiudi delle bacchette di un ventaglio. Tutto il pomeriggio, seppellita nelle scartoffie del bureau, Gemma ha calcolato e tracciato schemi, confrontandoli con le grosse mappe dei progetti, poi ha elaborato i dati al computer. Quando è venuta da noi, con un foglio stropicciato in mano, le sopracciglia aggrottate, abbiamo pensato al peggio.
« Tutto bene » ha detto invece « I materiali non mostrano alterazioni di rilievo. Si è aperta una piccola crepa dal lato est, proprio nella parete della doccia, ma niente che non si possa aggiustare. La struttura è solida, reggerà. »
Da quando siamo arrivate, il problema della struttura è quello che la assilla maggiormente. I materiali sono buoni, il progetto impeccabile, gli operai addetti alla costruzione hanno lavorato instancabilmente, tuttavia il fattore freddo continua ad agitarla. Il pericolo di deformazioni e alterazioni molecolari, a queste temperature, è molto alto e Gemma prende le sue mansioni di ingegnere piuttosto seriamente. Per questo si è sentito il bisogno di ispezioni periodiche: non vogliamo che la calotta ci caschi in testa da un momento all’altro, non possiamo rischiare che il gelo penetri all’interno senza che ce ne accorgiamo. Più d’un nemico aspettiamo alla porta, ma di tutti il gelo è il più temuto.
Sempre ringraziamo un Dio in cui non crediamo per le Cose che non ci ha dato.

Libera Terra d’Antartide,
giorno 57

È notte fonda, giorno pieno. Le altre si sono già coricate. Per un motivo o per l’altro, non mi riesce di prendere sonno. Pensavo. Ero lì, nella stanza dei divani, il telecomando molle nella mia presa, quando in mente m’è risovvenuto il principio, la prima frase, il minuscolo ingranaggio che, avviato, ha dato inizio al movimento.
« Entro il 2015 saranno liberi settantamila posti da dottore. »
« Peccato che non ho studiato medicina. »
« E ho letto che in Brasile incoraggiano a prendere ingegneria. Ce ne sarà tanto bisogno. »
Gioia ed io ci guardiamo con scetticismo, col nostro segreto comprenderci di tanti anni passati gomito a gomito. « Siamo proprio inutili, io e te. » È un vecchio gioco, un farsi compagnia nelle amarezze. Gioia ha studiato Scienze Politiche, così, perché le garbava l’idea della diplomazia. Io ho studiato Lettere Classiche, così, perché mi garbava l’idea della letteratura. Gemma ha studiato Ingegneria Edile, così, perché voleva un posto di lavoro. E adesso, in un certo senso, ognuna di noi ha quel che desidera. In un modo che non ci saremmo mai aspettate, ma lo abbiamo.
Quella sera di qualche anno fa, nessuno di noi sapeva ancora che avremmo ricordato e ricordato quella conversazione. Ciascuna era distratta, pacifica, si parlava tanto per parlare. Nell’aria fredda, piovosa d’aprile, si contemplavano possibilità infinite. Non contemplavamo grandi possibilità, non nutrivamo grandi speranze, perché il nostro è un mondo, un tempo per speranze piccole, per passi non più lunghi della gamba. Il nostro è un mondo abituato alle mezze misure, al mezzo litro, un mondo in cui non s’osa, perché non s’ha fiducia che osando si otterrà quel che si desidera.
Ma in mezzo a quei frammenti di speranza noi abbiamo imbastito il nostro delirio. Ci siamo svincolate dalle leggi del possibile, del dovuto, del razionale e abbiamo fantasticato. È stato solo per una sera, ma che sera.
« E noi, invece, rimarremo disoccupate » ho osservato, facendo scattare per gioco un accendino. Gioia ha spento sul tavolo un mozzicone di sigaretta. « Io no. Io voglio fare l’ambasciatore. »
Gemma ha appoggiato la testa sul gomito e ha osservato per un po’ la lampadina sopra le nostre teste. « Ma c’è un ambasciatore italiano in tutti i paesi? »
« Penso di sì. »
« Ma tutti tutti i paesi? Anche… la Tanzania, anche San Marino? »
« Bello sarebbe fare l’ambasciatore a San Marino. »
« Anche in Antartide? »
« L’Antartide non è uno stato. È spezzettato tra altri stati. »
« Facciamo uno stato in Antartide. »
« Io faccio il dittatore » ha detto Gioia, guardandomi « e Clara scrive. »
« E io? »
« Tu progetti gli edifici. »
« Ma dopo che li ho progettati? »
« Cucini e metti lo smalto. »
« Lo smalto è essenziale » ho osservato.
« Però ci vuole un esercito. Sennò che stato è? »
« Ci sono i pinguini. Però non volano. »
« Che problema! Io sono l’ingegnere, costruisco ali meccaniche. »
« E le foche fanno il corpo di spedizione subacqueo. »
« Perfetto. »
« Perfetto. »
Adesso, nessuna di noi prenderebbe quella conversazione così alla leggera. 

Libera Terra d’Antartide,
giorno 58

La terra è splendida, pacifica, glaciale. Ritti sulla soglia dell’edificio centrale, i piedi infilati nelle galosce, la pelliccia sulle spalle, lo sguardo può spaziare lungo una distesa di sempre uguale bellezza. Prima di uscire, spesso, ci muniamo di occhiali da sole, perché il riverbero della luce sul ghiaccio è così intenso che ferisce gli occhi. Il viso è sempre schermato da una protezione cinquanta. Tuttavia la pelle si arrossa e si secca, le unghie si staccano a pezzetti. È un clima impossibile, ma è possibile viverci. Dall’edificio centrale, la stradicciola segnata coi paletti scende fino a una piccola insenatura, dov’è ormeggiata l’imbarcazione di emergenza. A destra, un po’ discosto dall’igloo, sta il padiglione militare, che custodisce le imbracature del corpo d’aviazione. Il corpo d’aviazione, i pinguini, quelli non è possibile tenerli da nessuna parte. Al mangiare, al dormire provvedono da soli. A ciascuno è stato impiantato un chip, che ci permette di monitorarne la posizione e di richiamarli all’ordine se si allontanano troppo. Un pinguino ogni quindici è dotato di una piccola webcam, sempre attiva, perché possiamo studiarne le abitudini comportamentali. Dalle pareti del bureau rintronano a tutte le ore i loro versi sgraziati, lo stropiccio delle penne, il gemito dell’acqua violata. Abbiamo pensato di farne un libro, ma ancora nessuna ha cominciato a scriverlo: ci sembra di non avere sufficienti cognizioni di biologia. Nessuna aveva buoni voti, al liceo.
Le foche la loro imbracatura la tengono sempre addosso. Sono animali fatui, poco collaborativi, ma preziosissimi quando si gioca a palla.
Il panorama, giù fino all’insenatura, ruggisce di bellezza. Questo è il nostro stato, pochi metri di terra di un altro, chi sa chi, che ora è nostra non di diritto, ma di cuore. Questa è la nostra libera terra e, come se anch’essa sapesse che la abbiamo liberata, ogni giorno si veste d’incanto per noi, trasuda tutta una magnificenza di signora munifica, scintilla di pagliuzze dorate e piroetta di vispe superfici di diamante. Ora è rosa ora è argento, ora canta, ora sembra addormentata, e sempre nel cielo lampeggia tra la foschia un globo che chiamiamo sole, ma che sole non sembra, tanto indefiniti e acquosi ne appaiono i contorni. Il respiro si ghiaccia nella trachea e fuoriesce in vapori che son già quasi solidi. Le gambe slittano impacciate e pesanti e il torace si spacca nello sforzo di frenare l’allucinato tum tum dei ventricoli.
Ringraziamo un Dio in cui non crediamo per le Cose che non ci ha dato, perché le Cose che volevamo ce le siamo prese da sole.

Libera Terra d’Antartide,
giorno 76

Dalla Nuova Zelanda, ancora nessuna notizia. Quelle che arrivano, non buone. Ogni giorno l’espressione di Gioia si fa più accigliata. Sa che contiamo su di lei per farci accettare dalla comunità internazionale, ma l’obiettivo sembra sempre meno vicino. I comunicati, le intimazioni, gli ultimatum, il fax che vomita notte e giorno i nostri fallimenti diplomatici. Su tutto grava una cappa di sfiducia che pensavamo di esserci lasciate alle spalle.
Se non ci sarà accordato di metter piede su territorio neozelandese senza pericolo, senza un processo e una condanna sicura, allora avremo poche speranze di sopravvivenza. Sono già tre mesi che beneficiamo del Grande Giorno. Quando la Grande Notte arriverà, i nostri strumenti saranno inefficaci, i pannelli solari smetteranno di alimentarli. Brancoleremo in una tenebra che non sapremo in alcun modo rischiarare. Moriremo congelate nel giro di poche ore. Se la Nuova Zelanda non ci accorda di trascorrere sul suo suolo, nella sicurezza di un’ambasciata, i futuri sei mesi di buio, allora non resteranno che due alternative: la resa, la morte. Che poi sono entrambe morte, quindi un’alternativa sola.

Libera Terra d’Antartide,
giorno 80

Ci chiamano usurpatori, loro, che hanno usurpato ogni speranza per ciascuna generazione a venire, loro che tutto prendono senza nulla chiedere. Noi che abbiamo avuto l’ardire di strappar loro un pezzetto di terra per viverci in pace, loro che la terra la vogliono tutta per farci la guerra. Ci chiamano usurpatori, senza ricordare che i primi usurpatori sono loro, loro che hanno commesso il peccato maggiore, quel peccato che noi cerchiamo di accomodare. Loro hanno strappato la terra alla terra, l’hanno imbrigliata nelle cartine geografiche, stampata sugli stivali e sulle borse, hanno ucciso per mangiare e mangiato per uccidere, senza rispettare nulla che non fosse la loro fame di cibo e di morte. Noi non chiediamo niente, se non di vivere la vita che vogliamo, la vita che lassù non ci permettevano, perché non c’era abbastanza spazio per tutti. Entro il 2015 servivano settantamila dottori, tutti gli altri non servivano a niente. Un tempo, signori, non si era liberi, e si faceva quello che ti dicevano di fare. Adesso si è liberi, così dicono, ma quello che ti dicono lo devi fare lo stesso. Perché se non fai il dottore, allora fai la fame. Se non sei ingegnere, non lavori. Se non t’iscrivi nel ramo dell’industria, uno stipendio poi chi te lo dà. E sbranarsi e sventolare bandiere e strillare come scimmie per un boccone di pensione, quando sei troppo vecchio per gustartela, perché gli anni migliori della tua vita li hai passati a lavorare per loro. Vuoi fare l’insegnante – perché non prendi Farmacia? Vuoi essere archeologo – ma cercati un lavoretto buono. Vuoi scrivere – tanto, se non sei famoso, non ti pubblicano. E soffocare soffocare soffocare le ambizioni perché l’ambizione è peccato e non porta pane, l’ambizione è tempo perso, braccia sottratte alla produzione. E sempre un livore un livore nel petto a fare quel che è giusto fare, ma non quello che si vuol fare. Siamo morti in partenza perché volare basso ci uccide.
Abbiamo dato le ali ai pinguini. Non le strapperete di nuovo né a loro né a noi.

Libera Terra d’Antartide,
giorno 102

Niente di nuovo sul fronte meridionale. Ci trastulliamo leggendo comunicati e guardando la tv. Pensavamo di avere dvd a sufficienza per tutti i sei mesi, invece scarseggiano già. Ogni tanto guardiamo un film che abbiamo già visto in un’altra delle venticinque lingue del menu. Non pensavo di poterlo dire, ma il macedone è una lingua decisamente affascinante.
Leggo molto e così fa Gioia. Scrivo anche tanto, non solo qui. I libri, quelli non finiscono mai. Se finiscono, anche quelli si possono rileggere, e trovarci ogni volta una persona diversa. Le ispezioni di Gemma procedono bene. Si è provveduto a rinsaldare la parete dietro la doccia e si è aggiustato il contatto difettoso di un pannello. Cibo in scatola, ancora a sufficienza. Gli smalti tendono a cristallizzare in superficie, ma l’acetone non scarseggia mai. Per far asciugare i colori, spesso mettiamo il palmo fuori d’una finestrella: l’arancio, il glicine, il verde bottiglia si seccano in un modo così brillante che non s’era mai visto lassù.
Si sono visti altri aerei da ricognizione. Era prevedibile. Aspettiamo un attacco che potrebbe anche essere imminente.

Libera Terra d’Antartide,
giorno 111

Il morale incattivisce. Siamo scontrose, diffidenti. Fortunatamente, c’è abbastanza spazio perché ognuna sbollisca il nervosismo prima che degeneri in lite. Pensavamo che sarebbe stato più semplice. Siamo state ingenue, positivistiche. Abbiamo creduto di far diritto legale un nostro diritto morale, quando la legge e la morale di ciascuno mai si sono trovate in accordo. Avevo tanta fiducia in questo progetto, e ne ho ancora, solo non avevo fatto i conti con l’ostilità del mondo. Mondo, che grande parola sembrava, e che parola piccola ora, quando mondo è tutto ciò che ti impedisce di essere felice.
Dopo la pubblicazione del mio primo romanzo, dopo la vendita dei diritti cinematografici, avevo abbastanza soldi da investire in un progetto qualsiasi. Gemma era capo-cantiere di un grosso centro commerciale, Gioia lavorava in una pizzeria. Avevamo una sicurezza, un posto, una missione. Ma avevamo la noia di tutto.
Gemma aveva a noia i materiali di scarto, il cemento meno armato di quanto doveva essere, le liti coi finanziatori, la speculazione, gli operai senza caschetti, gli operai in nero, lo smalto che prendeva la polvere al cantiere, quelli che dicevano che non era abbastanza brava, i passanti che scuotevano la testa perché erano indietro coi lavori, i lavori che andavano lenti, i fogli che si perdevano, i geometri per cui non si poteva fare niente, la gru che scivolava sui cardini senza far rumore, l’odore dell’asfalto.
Gioia aveva a noia i clienti, specie quelli che chiedevano pizze difficili, i poco gentili, i poco diplomatici, i vecchi che non si sapeva perché continuavano a portarli in pubblico, le forchette che doveva sempre raccogliere e sostituire, l’odore di fritto, la cuoca coi capelli che scappavano da sotto la cuffietta, sapere che l’olio per friggere si cambiava una volta a settimana, la conserva di pomodoro scaduta, la tovaglia macchiata col vino, i bambini che frignavano, i bambini che correvano tra i tavoli, l’idea di non fare quello che voleva fare, l’idea che non stava all’ONU e non s’occupava di come girava il mondo, l’idea che il mondo per lei era una pizza e che si somigliavano solo perch’erano tondi entrambi.
Io avevo noia di tutto, del genere umano nella più vasta definizione: noia dei lettori che fanno finta di capire i libri, noia dei libri che non avevo tempo di leggere, noia degli scribacchini che scrivono senza documentarsi, delle biografie delle starlet, dei nerd che fanno la rivoluzione dietro il pc, dei poco intelligenti che s’atteggiano a intellettuali, di chi sputa sentenze, di chi ha sempre ragione, di chi viene bene in foto, di chi crede nell’esistenza della Padania, della pubblicità della Redbull, delle ragazze che fanno pompini dietro i banconi dei bar, degli adulti che si credono migliori quando son soltanto di un’altra generazione, dei moralisti di destra, dei moralisti di sinistra, dei moralisti atei, dei moralisti cattolici, dei cani grossi, di chi falcia i prati.
Avevamo così noia di tutto che abbiamo lasciato quello che avevamo per andare incontro a qualcosa che non si poteva avere. Tutto il mio capitale investito in una spedizione folle di conquista e di razzia, le minacce delle autorità, gli operai aborigeni ingaggiati per una miseria. Se ci tolgono tutto questo, tornerà la noia. Sarà stato invano. Sarà stata solo una sciocchezza.
Preghiamo un Dio in cui non crediamo di preservare le Cose che non ci ha dato.

Libera Terra d’Antartide,
giorno 142

È definitivo. La Nuova Zelanda ci nega asilo politico. Il fronte è compatto, non scapperemo dalle sentenze. Gioia è rotta in lacrime che non abbiamo saputo asciugare. Lo vive come un suo proprio fallimento, invece è un fallimento collettivo. Non so chi fallisce di più. Non mi sento colpevole. Solo, mi sento spacciata. 

Libera Terra d’Antartide,
giorno 143

Sono venuti in formazione. Sono venuti in molti. Grossi spacchi si sono aperti sulla sommità della calotta. Fin dalle prime ore del mattino – sera – avevamo approntato una difesa. Sapevamo che, se la Nuova Zelanda avesse preso posizione, non avrebbero tardato ad attaccarci. Prima, ci hanno intimato la resa. Una resa gridata, srotolata su tutto questo ghiaccio attraverso i megafoni. Non abbiamo alzato le braccia, niente. Solo, abbiamo fatto alzare la contraerea. Era uno spettacolo vederli, vederli uno sopra l’altro, ammassati sulla collinetta là in fondo, i passanti delle ali meccaniche sotto le loro alucce rachitiche, tutti un qua que qui, un frullare e uno sbatter di becchi. E quando si sono alzati in volo, tutto uno stormo di uccelli destinati a rimaner per terra, ci si sono inumiditi gli occhi. Tante volte abbiamo già visto questo spettacolo, eppure non manca mai di commuoverci.
Non sono minacciosi, la nostra air force di pinguini. Non sparano o cose del genere, solo, volano. Volano a riempire tutto il cielo, volano come se non avessero mai fatto altro o non fossero nati per altro scopo, volano e il sole si scopre e si copre nel mezzo d’una scacchiera bianconera. Dentro le cabine di pilotaggio, gli uomini che ci sparano addosso si confondono, s’imbarazzano a veder tutto questo caos di grossi uccelli che fino a ieri non volavano. Si confondono tanto che non sparano.
Oggi, invece, hanno sparato. Hanno sparato a destra e a sinistra, fino all’insenatura e sulla collina e in acqua, ovunque un nero di penne, un odore, un colore di sangue. Si sono ritirati, e adesso noi portiamo via i corpi. Li trasciniamo, così dilaniati, scie diritte in tutto questo bianco, innumerevoli binari di corpi tirati per le zampe o per le ali, se le hanno ancora addosso. Restituiamo loro una sepoltura oceanica. Ma chi pulirà tutto questo?
Le foche si sono immerse. Sulle foche non si può contare. Sono scomparse negli abissi, sono riemerse altrove, non più qui. La palla ruzzola sul campo di battaglia, non respinta, non rimbalzata da nessuno.

Libera Terra d’Antartide,
ultimo giorno.

Abbiamo affondato la barca perché non ci venisse la tentazione di scappare. Domani piomba il Grande Buio. Chissà se piomba tutto insieme, come un sipario, una ghigliottina, o invece scivola pian piano, benefico sulle palpebre dopo tutta questa luce. Chissà se il buio può ferire gli occhi come solo sa ferirli la luce. Il tetto è riparato, dovrebbe reggere un altro po’. Ma i riscaldamenti non funzioneranno più. Dicono che a morire di freddo ci si sente bruciare da dentro, così se il freddo brucia pure il buio acceca. Tutto è al rovescio. Tutto è così interessante.
Libera Terra d’Antartide, t’abbiamo voluto bene e tu preserva le nostre carcasse, così, quando ci troveranno, finiremo come pezzi da museo. Ma non sarà lo stesso che cento altre mummie preservate dal gelo, mummie non si sa di chi, mummie senza nome, senza storia. Verranno a guardarci, da dietro le teche, bambini coi polpastrelli sudati. Verranno a guardarci, chiederanno e sarà loro risposto:
« Queste son le mummie di certi colonialisti che si credevano meglio di altri. Hanno fatto volare i pinguini. »
Ma il bambino, anziché prenderla per stupidaggine, per una cosa che non si deve fare, penserà che è stata una storia fantastica. Chissà che un giorno non fantastichi anche lui.

Di Chiara Pagliochini

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