sabato 20 agosto 2011

Un viaggio verso nord

C. Monet, La stazione di St. Lazare, studi 1876-1877

Signorina,
detto fatto: ho preso un treno verso nord. Gliel’avevo detto, si ricorda?
Sono arrivato presto alla stazione. Erano le cinque, non c’era ancora nessuno. Il capostazione sonnecchiava su una panchina, il berretto contro il petto, il fischietto che penzolava dal taschino. I binari erano vuoti, silenziosi e lunghissimi.
Mi sono detto che ci potevo riuscire. Ho chiuso le mani a pugno, ho chiuso gli occhi e mi sono urlato dentro: urlare fuori non potevo, non volevo svegliare il capostazione.
La signorina dei biglietti mi ha guardato con l’occhio lucido, forse chiedendosi dov’è che stessi andando, una valigia appena. Gliel’ho detto e lei ha sorriso. Le ho teso la banconota un po’ irrigidito. Non sono abituato ai sorrisi.
Sono rimasto ritto sulla banchina, la valigia posata per terra, il biglietto congestionato tra le dita. Pensavo che stavo per raggiungerla, pensavo a lei, signorina. E lei, stava pensando a me?
Non credevo che l’avrei fatto davvero. Solo ieri pomeriggio, se qualcuno me l’avesse detto, gli avrei riso in faccia. Ma i panni sono entrati nella valigia da soli, il gancetto è scattato, il colletto della camicia s’è inamidato di sua volontà. Percorrevo la camera a grandi falcate, pensando a lei, a lei che si è impadronita di me, che ha piegato il mio spirito irriducibile. I miei erano i passi di un’anima in pena. Quei passi li ho ripetuti stamattina, sulla banchina, col vuoto dei binari davanti, dritti dritti che non finiscono mai. Così le ho scritto questa lettera, signorina, che imbucherò al prossimo cambio. Se sono fortunato, sarà lì domattina, prima ancora che ci sia io. L’avvertirà della mia venuta.
Cosa non darei per essere con lei nel momento in cui dispiegherà la carta, per essere le sue dita, le sue falangi, le sue unghie, per essere le sue labbra che si piegano a una smorfia. Ecco, signora, se potessi essere le sue labbra allora saprei, saprei che cosa pensa di questo viaggio verso nord, saprei se il sorriso che m’accoglierà sarà studiato e bizzoso oppure un autentico moto di gioia. Vorrei, quanto vorrei che lo fosse, ma non posso imporglielo, come non posso imporle la mia venuta. Tutto ciò che posso fare è metterla in guardia. Da cosa? Da me, dal mio viaggio verso nord, dalla mia infelicità che cammina.
Il treno è arrivato con un fischio lungo, che è risuonato tra i binari, nell’androne della stazione, svegliando l’uomo sulla panchina, spandendo intorno un profumo. Somigliava al suo profumo, signorina, lo stesso di cui cosparge la carta da lettere, lo stesso che impregna le mie tende e riverbera dalle pareti della cucina. Mi sono sentito dentro una gran forza.
Con un piede ancora sul predellino, mi sono voltato indietro, per capire che cosa lasciavo. Non lasciavo niente, signorina. Ho le sue lettere e tutti i miei vestiti nella valigia. Sono partito.
Il primo vagone era deserto, mi sono seduto accanto al finestrino. Ho sistemato il bagaglio sulla rastrelliera. Non fumo, eppure ho fumato. Ero un altro stamattina, ero l’uomo che veniva da lei. Le piacciono gli uomini che fumano? Non sapevo come tenere la sigaretta: mi sentivo goffo, disperatamente buffo. Per fortuna che nessuno mi guardava. Non c’era nessuno.
Lo sa com’è quando si è soli? Deve saperlo, ne abbiamo parlato tante volte. Quando si è soli, si è come me accanto al finestrino che fumo. Si prova a ingannare se stessi che si è coraggiosi, che non si teme quel paesaggio che scorre, che non si ha paura di lei, signorina, e del suo sorriso al mio arrivo. Si è soli e bugiardi, si è umani. E se anche non c’è nessuno che ci guarda su quel treno, tuttavia ci siamo sempre noi e noi ci guardiamo, e noi sappiamo di mentire. Noi sappiamo che non siamo noi quelli che fumano nel vagone: è il simulacro di chi vorremmo che fossimo.
A ogni stazione saliva qualcuno, prima due o tre, grigi pendolari mattutini, coi baffi lustri e la cravatta ben allacciata; poi studenti, turisti, ufficiali, persino un dottore. Ho pensato che fosse un dottore: aveva mani da chirurgo. Si sedevano cercando tutti il finestrino, il loro posto al sole, una salvezza. Lo sa perché si cerca il finestrino? Per fingere, signorina, fingono tutti. Pur di non guardare chi abbiamo di fronte, preferiamo confonderci col paesaggio tutto uguale, col mondo che va veloce, troppo veloce perché lo si possa fermare ed amare. Non ci si vuole fermare, non vogliamo amare chi abbiamo di fronte. Sarebbe troppo difficile ammettere che siamo soli e riconoscere nell’altro la nostra stessa solitudine. Sarebbe troppo difficile abbracciarci. Ma lei, signorina, io l’abbraccerei volentieri se me lo permettesse. Non solo l’abbraccerei, ma prenderei il suo mento tra le mani e la bacerei, bacerei il suo sorriso forzato pur di mettermi a tacere la coscienza.
Ora che sa, si prepari. La bacerò, signorina, la bacerò avventato quanto una donna e forse con più passione. Farò tutto quello che ho sempre voluto e non ho mai potuto fare. E se non lo accetta, se non si abbandona al mio progetto, sarà meglio che non venga alla stazione. Soffrirei di meno che a vedermi rifiutare la sua bocca. Di lei non m’importa, che il suo sorriso sia vero o finto, che lei voglia o meno il mio bacio, la bacerò lo stesso. Non si nega a nessuno un ultimo desiderio.
Sono pazzo? Lo credo. Io faccio tutto da solo e voglio farci entrare lei, voglio metterla al corrente e turbarla. Che conta? Non sono io che lo faccio, è il mio simulacro in viaggio verso nord.
Il controllore ha strizzato gli occhi per leggere la data sul mio biglietto. Lo ha ferito con l’obliteratrice. Quello faceva sangue. Quel forellino, signorina, era proprio il segno che stavo venendo da lei. Sciocco e disperato, sto venendo da lei.
Ho nascosto il biglietto per non doverlo più vedere, cacciandolo in fondo al portafogli. Mi faceva pensare a cose bellissime e terribili. Bellissime, perché finalmente io la vedrò e le mie dita potranno sfiorarla come le parole hanno fatto finora. Terribili, perché le dita sono terribili, più sincere e più definitive delle parole: non le si può mai ritrattare. E, anche se le si ritrae, resta l’orma della carezza sulla guancia. Una carezza non voluta scotta. Bellissimo e terribile è questo mio viaggio verso nord. E non posso figurarmi cosa accadrà davvero. Non posso sapere cos’accadrà dopo che le mie mani avranno ripiegato la lettera e l’avranno sospinta nella fessura della cassetta. Ma dovevo scriverle, capisce? Volevo che lei capisse che razza di persona sono. Uno che s’inganna, ecco, uno che confonde i sogni con il vero. Questo treno potrebbe anche portarmi a sud, per quanto poco ne so del mondo, del paesaggio là fuori, di lei, signorina. Cosa in fondo so di lei? Ma quando so che voglio abbracciarla e baciarla, conta davvero tutto il resto? Conta quello che vuole lei? No, signorina, sono abbastanza egoista da decidere per entrambi.
Ecco, il controllore annuncia che la prossima fermata è la mia. Dovrò cambiare treno, binario e posto nel vagone. Dovrò imbustare questa lettera e spedirla. Nell’angoscia, ho immaginato la cosa che più di tutte mi spaventa. Immagino di scendere, domattina, e di vederla. Lei sarà ritta sulla banchina, la valigia posata per terra. Sarà rigida, coi capelli spartiti in mezzo, e ben rasata. Avrà i miei occhi, signorina.
Dovunque andrò, non posso sfuggire a me stesso. E questo viaggio non è che l’ennesima farsa, una bambinata, un capriccio. Per quanto a nord io vada, non farò mai un passo tanto lungo da raggiungerla, signorina. Dovunque andrò lei avrà sempre il mio volto e io vorrò fuggire e ingannarmi di nuovo, raccontandomi che lei è più avanti, che mi precede in questo viaggio verso nord. Mi racconterò che mi ama, ma sono io che non la amo, Vita mia.  

Di Chiara Pagliochini

2 commenti:

  1. Ma è bellissimo *-*
    Ho già rubato per there is a happy land :D

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  2. Adorabile <3
    Sei diventata davvero una sentimentale tuttavia XD

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