giovedì 11 agosto 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap. 5

Good Evening Barn Swallow by ~Kaleioki

Non ci volle molto per prendere confidenza con la gente, all’agenzia. Certo, c’era chi andava e chi veniva, così non era mai facile abituarsi alle facce. Un solo incontro poteva fare la differenza tra una faccia nota e una che avresti scordato.
Si poteva pensare che fossimo tutti persone scorbutiche, restie ad allacciare rapporti, tanto più in un ambiente e in un momento simili. In realtà, era l’opposto. Quando non si ha niente da perdere, si è più che ben disposti a parlare di sé.
Lo sapeva Cassandra, che conobbi un giorno davanti a un cappuccino, in una tregua dalla lezione sulle teorie ultramondane.
« È quasi peggio della lezione di harakiri » bisbigliò, per non farsi sentire dagli altri « C’era anche lei? È stato orribile. E quando ci ha costretti a sgozzarci! »
Le ricordai che eravamo nella stessa fila. Lei sorrise e disse che aveva troppa paura per notarlo.
« In ogni caso, sgozzarmi è l’ultimo dei miei pensieri. È antiestetico, non trova anche lei? E non avrei la mano ferma, finirei per macellarmi. »
Parlava alzando le spalle. Lo faceva di continuo. Alzava le spalle come se fosse tutto troppo difficile da capire.
Io avrei preferito intingere il naso nel cappuccino piuttosto che ascoltare le sue lagne, ma Cassandra non sembrava in vena di demordere. Né la mia mancanza di entusiasmo la sfiorava. Avrebbe seguitato a parlare per ore, di qualsiasi argomento, se solo la pausa fosse durata più a lungo. E anche quando le indicai l’orologio e dissi che la lezione ricominciava, non seppe trattenersi dal cianciare qualcosa sulle sue personali idee di aldilà. Ma credo che fosse abituata a non essere ascoltata o creduta, visto che non badava minimamente a me. Era come se ripetesse dei discorsi già fatti o premeditati o universali, qualcosa di cui tutti potessero constatare l’evidenza o che riguardassero anche te, solo che spesso riguardavano lei sola.
« …e poi mia sorella ha avuto un tumore al seno. Proprio l’anno scorso, sa? Le hanno asportato la mammella destra. Ho cercato di convincerla a farsi asportare anche l’altra, ma non vuole darmi retta. Dice che i medici sono fiduciosi… Come se ci si potesse fidare di loro. Anche mia madre ha avuto il cancro, e è morta. E io ho buone probabilità di svilupparne uno. Ma lei crede che questo importi ai medici? Che ne sanno loro cos’è la paura? Ho fatto tutti gli accertamenti del caso, ovvio, e loro dicono che non c’è motivo di allarmarsi, che sto bene, è tutto a posto. Sono andata dritta da uno e gli ho detto, voglio fare la mastectomia preventiva! Crede che mi abbia presa sul serio? Oh no, per niente, ha letto la cartella e visto le ecografie e il resto, ma niente. Niente, le dico. Da non credere. Tu stai per morire e loro dicono che sei l’uccello del malaugurio. L’uccello del malaugurio, come se fossi una pazza paranoica, guarda te! »
E parlando alzava le spalle e intanto si fregava le mani. Che la gente non le desse retta era il suo chiodo fisso, dopo la fobia di essere malata. Quando mi consigliava di prendere un decaffeinato ed io prendevo un espresso, lei diceva:
« Tanto nessuno mi dà retta. »
E così quando contestava la scelta del sapone per il bagno
« Ma non c’è scritto Clinicamente Testato! »
o stentava a infilare la testa in una corda
« Chi ha dato la cera al pavimento? Bella cosa, c’è da scivolare e rimanerci appesi! »
Tanto nessuno mi dà retta, diceva sempre, di qualunque cosa e con chiunque parlasse. E finiva che nessuno le dava retta davvero.
Altra faccia nota era Eugenio, nelle immancabili giacca e cravatta. Solo dopo due o tre volte facevi caso che giacca e cravatta erano sempre le stesse, e per giunta sempre più lise.
« Lo conosco di fama, quello là » sussurrava Cassandra, malignetta « Aveva una casa con piscina e campo da golf e guardalo adesso. È nato con la camicia, ma gli è rimasta quella sola. Il resto se l’è giocato al videopoker. »
Eugenio parlava poco e a monosillabi. Aveva la faccia grigia e un’espressione tirata, concentrata, come se cercasse sempre una via di fuga. Solo quando, alla lezione di impiccagione, lo avevo visto ficcare il collo dentro un capestro m’era parso un po’ sollevato.
« Mia moglie non sa niente » mi disse una volta, guardingo « Non sa niente e non saprà niente, fino a quando è tutto sistemato. »
E dopo?, pensavo io, immaginandomi sul collo quella montagna di debiti. Era per questo, credo, che Eugenio il collo se lo voleva tirare. Ma quando parlavo con lui o lo guardavo o ne sentivo parlare, non potevo fare a meno di disprezzarlo, per quel suo capriccio di volersi ammazzare e scaricare così la coscienza. Non sapevo, allora, quanto caramente egli amasse la sua Francesca e quanto poco fondato fosse il pettegolezzo di Cassandra. All’epoca non vedevo che lo squallido uomo col vizio dell’azzardo, e mi faceva orrore. È solo da poco che ho scoperto della fabbrica di sapone, del fallimento, degli operai mezzi licenziati e mezzi in cassa integrazione. Tutta una questione aziendale di sovrapproduzione e scarsa domanda, costi troppo alti e investimenti sbagliati. Il videopoker non c’entrava e Eugenio non sarebbe stato il primo né l’ultimo che si appendeva a una corda dacché c’era la crisi. Li vedevi al telegiornale un giorno sì e l’altro pure, e c’era sempre quella strana parola astratta – la crisi – che per te significava solo l’aumento della benzina e per loro, invece, tutto un mondo.
Ma all’epoca, ecco, non sapevo niente di tutto ciò e nemmeno avevo un minimo di consapevolezza. Mi rappresentavo la scena in una successione di inquadrature grottesche da cui traevo la massima soddisfazione. Immaginavo sua moglie, povera donna ricca, entusiasta ed ignara, regina della carta di credito. Un bel dì il commesso di Gucci gliel’avrebbe restituita con aria mortificata e la signora, tutta spaventata, avrebbe infine domandato a se stessa:
« Ma quanto cazzo costano queste scarpe? »
E il signor Eugenio, la coscienza pulita, il collo tirato, sarebbe penzolato come un prosciutto nel suo completo di giacca e cravatta, ridicolo, abominevole.
« Ma Ryan, lei è troppo severo! » diceva talvolta Cassandra, scrutandomi con aria truce « Chi è lei per giudicare se uno vuole ammazzarsi? »
Giusto, non ero nessuno, neanche uno che volesse ammazzarsi. E Cassandra poi, con quella inclinazione al patetismo, con la paura dei germi o di cadere o di slogarsi un polso, cosa ci faceva Cassandra all’agenzia?
« Se devo morire di qualcosa, voglio scegliere io di che cosa. »
Sicuro, ma non era abbastanza: nessuna di quelle motivazioni mi convinceva fino in fondo, nessuna l’avrei trovata sufficiente o dignitosa, e mi dispiaceva, perché ero entrato all’agenzia con così tante speranze.
Nemmeno da Sca mi veniva qualche soddisfazione. Sca era l’ultimo dei ragazzi emo, l’unico rimasto. Aveva sedici anni, sette piercing e un’espressione frequentemente gioviale, come di uno costretto a mangiar ranocchie. Anche lui parlava poco, ma aveva le idee chiare: coltelli, daghe, spade, asce erano il suo elemento, le scorticature come delle carezze. Ogni tanto venivano fuori cose intelligenti, ma più spesso si finiva per discutere della scarsa affilatura dei coltellini svizzeri o del sopracciglio che si gonfiava di pus. Io stavo a sentire, ammirato: quel ragazzo mi apriva sempre un mondo.
Con Irene, invece, non parlavo. Era lei che non parlava con nessuno. Nemmeno Cassandra era riuscita ad estorcerle più che un parco sì affermativo. Non solo non parlava, ma era come se non ci vedesse. Se entrava nella stanza dov’eravamo tutti, non salutava. Se c’era una sedia libera, prendeva posto senza chiedere se qualcuno l’avesse occupata prima. Se c’era una coda al bagno, mai che domandasse se qualcuno era prima di lei.
« Mai vista una più maleducata » diceva Cassandra. E su questo non si poteva darle torto.
Solo con Iris la si vedeva scambiare qualche parola. Parlavano in un angolo, a bassa voce, come se stessero confidandosi segreti. Quell’Irene io non la capivo, come non la capiva nessuno. Eppure non potevo fare a meno di essere curioso: c’era qualcosa in lei che mi faceva preoccupare. Mi preoccupava, sì. Io mi preoccupavo per lei. E questo era assurdo, considerando che non le avevo mai rivolto la parola.
« Ryan, si dia un contegno, la sta fissando di nuovo! »
È vero, la fissavo. Cassandra aveva ragione. La fissavo senza accorgermene, soprappensiero, per un gesto che faceva o un’espressione del viso. Mi sorprendevo a domandarmi cosa avesse e cosa pensasse e perché ora fosse triste e ora felice, ora alzasse gli occhi, ora li riabbassasse.
« E poi potrebbe essere suo padre! »
Ma su questo Cassandra si sbagliava. Io non guardavo Irene perché mi piacesse. Non c’era niente in lei che potesse piacere a qualcuno. Cassandra sì che era una donna attraente, bionda e formosa, cinquant’anni ben portati. E lei, che lo sapeva bene, si divertiva a stuzzicarmi: sperava che un giorno o l’altro mi decidessi ad invitarla a cena. Piuttosto Greta, pensavo io segretamente, terrorizzato dalla sua parlantina.


Successe poi quella sera, alla fine della lezione di un venerdì. Per poco non m’ero appisolato su un gomito, mentre Iris diceva qualcosa a proposito dell’Inferno di Dante. Aveva menzionato dei cespugli, cespugli che fanno sangue, ed io l’avevo trovato molto divertente, e avevo smesso di seguire. Ricordavo io e Raffa, le mattine di tarda primavera, quando raccoglievamo ciliegie sul colle e io per farle paura mi impiastravo la faccia di rosso.
« Sanguino! » gridavo « Sanguino! Va’ a chiamare la mamma! »
Lei si metteva a frignare e nascondeva la testa tra le mani e diceva che aveva paura. Io ne approfittavo per rubare le ciliegie dal suo cesto e ingoiarne qualcuna mentre non guardava.
Ma cosa c’entrava coi cespugli che sanguinavano? Ero troppo stanco, decisamente troppo stanco per prestare attenzione. Sca faceva palloni con la gomma da masticare. Avevo avuto una giornata orribile al Serraglio, un altro ordine di croccantini per gatti, e il proprietario m’aveva rimproverato per una fattura sbagliata.
« Una citazione dall’Eneide! » disse d’un tratto Iris, con voce brillante. Vidi Cassandra annuire. Forse annuiva per compiacerla.
« Signor Ryan, si ricorda chi fosse? » chiese poi, come se cercasse di coinvolgermi. Sperai anch’io di cavarmela annuendo, ma non funzionò.
« Allora? » insistette Iris e in qualche punto mi sembrò che lo spazio-tempo si sfaldasse. Ero di nuovo sui banchi di scuola e lei era l’insegnante di italiano e domandava, domandava cose impossibili per il solo gusto di mettermi in difficoltà. Tutti mi guardavano, tutti guardavano il povero Ryan Air. Tanto non lo sa, dicevano. Era vero, non lo sapevo, e questo mi mandava in bestia, perché non c’era altro modo di difendersi che rispondere. Ma io non potevo, non potevo.
« Polidoro » disse una voce secca alle mie spalle. Mi voltai, stizzito. Era la secchiona del banco dietro, sempre lei, con le sue trecce unte e i brufoli e senza faccia, o forse era Irene, solo Irene, e io non avevo più diciott’anni, e quella non era la prof di italiano, ma Iris. E io solo un finto potenziale suicida.
« Ottimo, Irene! » disse Iris, sorridendo a me.
« Finiamola qui, per oggi, e andatevi a leggere il tredicesimo canto. »
Mi chiesi a che canto si riferisse. Forse a quelli degli alpini.
Cassandra mi raggiunse con una faccia perplessa.
« Ci andiamo a prendere qualcosa? » chiese. Scosse i capelli.
« Mi dispiace, ma… »
Cercavo un modo per finire la frase. Stavo pensando se fosse meglio un nipotino malato o un limoncello a casa di amici quando si udì un patatrac e, voltandomi, vidi Irene per terra, la sua borsa aperta, il contenuto sparpagliato sul pavimento. Era scivolata sulle mattonelle tirate a lucido.
« Lo dicevo io, questa cera maledetta, ma tanto nessuno mi dà retta! »
Accorsi per tenderle una mano e chiederle se s’era fatta male. Avevo già la frase pronta, ti sei fatta male?, così semplice e lineare e omnicomprensiva, ma Irene mi anticipò.
« Tutto ok » disse, rifiutando la mia mano, e prese a infilare nella borsa tutto quello che le capitava a tiro. Le passai un rossetto, una matita per gli occhi, una moneta da due euro. Chiuse la zip e mi fissò negli occhi. Fredda.
« Grazie tante » disse brevemente. Si alzò e mi voltò le spalle senza salutare.
Fu solo quando s’era già dileguata che Cassandra si avvicinò e mi tolse qualcosa dalle mani:
« E questo che sarebbe? » chiese, con una smorfia.
Era sottile e nero e chiuso da un elastico. Un diario.
Avrei dovuto riprenderlo e precipitarmi dietro a Irene, di corsa lungo il corridoio e poi fuori, sulla piazza. Sarebbe stata ancora lì, se avessi avuto fortuna. Ma decisi che non volevo avere fortuna, no.
« E adesso? » fece Cassandra, alzando le spalle.
« Lo tengo io » risposi e prendendoglielo dalle mani mi lisciai la copertina contro il palmo.

Di Chiara Pagliochini

4 commenti:

  1. Che cattiva, far finire così il capitolo.
    Cassandra è odiosissima comunque.

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  2. Mi impegno a circondarlo di gente detestabile.

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  3. Irene è favolosa! E il ragazzino emo è simpatico xD
    Quoto per Cassandra, non si può reggere. E ora voglio sapere cosa c'era scritto nel diario xD

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  4. Cassandra è insopportabile perché ho trasposto una ben più nota e più affascinante Cassandra della letteratura per far vedere chi sarebbe ai giorni nostri xD

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