domenica 7 agosto 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap. 4


Un stesso rituale scandiva tutte le mie domeniche. Alle undici e trenta davo da mangiare a Ryanair, poi lo lasciavo poltrire sulle ginocchia quel tanto che bastava a indurre un sonno sufficientemente profondo. Solo allora, a tradimento, lo afferravo per la collottola e lo costringevo nella gabbietta. Ogni domenica faticavo di più, in rapporto alla sua pancia che cresceva graziosamente. Ryanair cercava di graffiarmi o di mordermi, ma era troppo sonnolento o appesantito per minacciarmi davvero. Restava a guardarmi da dietro la grata, gli occhi gialli offesi.
A quel punto caricavo gatto e gabbia in macchina, li assicuravo con la cintura sul sedile anteriore. Inserivo le chiavi nel quadro, le luci che si accendevano sul cruscotto a raggiera, e toglievo il freno a mano. Partivamo sfrecciando tra vicoli e vicoletti fino a uscire dalla città e poi via lungo strade di campagna, e poi via sulla superstrada, e poi ancora campagna e un ponte, il cimitero, il cancello.
Abitavo a sessantatre o forse a sessantadue chilometri dai miei: il numero era tuttora oggetto di discussione. Mio padre diceva che dal cimitero, passato il bivio, c’erano tre chilometri fino al vialetto di casa. Mamma insisteva che non potevano essere più di due. Io davo ragione all’uno o all’altra, a seconda del momento e degli argomenti a favore. Avrei potuto verificarlo col contachilometri e mettere così a tacere domeniche di dispute, ma non sarebbe stato altrettanto istruttivo. Su un punto solo i miei genitori concordavano: sul fatto che mi fossi così “allontanato da casa” per finire tappato in uno spaccio per mangimi.
« Tu a vendere mangimi, con tutte le bestie di cui potresti occuparti! »
I miei erano contadini. Contadini erano stati i loro genitori. Prima di loro i genitori dei genitori. E così via, da quando la nostra stirpe s’era evoluta dagli scimpanzé. Mia sorella faceva l’avvocato. Io lavoravo al Serraglio Verde. Noi eravamo il simbolo della corruzione dei costumi.
Anche quella domenica mamma aveva fatto le tagliatelle col sugo. Amavo tanto la mia passata Cirio, il tappo che si svitava con quell’amoroso suono di sottovuoto, clack, segno di bontà indiscutibile. Un filo d’olio nella padella, due foglie di basilico, una spolverata di formaggio: questo era il mio concetto di tagliatelle. Ma le tagliatelle della mamma avevano un sugo tutto loro, con la zampa di un pollo lasciata a bollire insieme all’amabile e gustosa passata, e pezzi di pollo e dietro di pollo e ali di pollo. Io il pollo non lo mangiavo, ma a mio padre piaceva, succulenti bocconi di pollo grondanti sugo. Ingoiavo le tagliatelle trattenendo il respiro: il sapore non l’avevo mai potuto soffrire. Eppure era la mia mamma. Non poteva scoprire, dopo tutto quel tempo, che le tagliatelle col sugo non m’erano mai piaciute. Sarebbe stato come andarsene di nuovo.
Quando uscimmo dalla superstrada e ritrovammo la campagna, Ryanair si rianimò nella gabbia e miagolò. Aprii il finestrino per far passare un po’ d’aria e intanto guardavo i miei campi e le cascine familiari, come si fa sempre quando si torna a casa. Sono posti in cui non cambia mai niente: un rudere potrà avere una parete di meno e il campo che era a maggese potrà essere biondo di grano e ci saranno lenticchie al posto di girasoli, ma nel complesso non cambia mai niente. Le stesse rondini tornano agli stessi tetti e le api si accasano dove si sono accasate sempre. Se il profumo che si respira è lo stesso e si ride ancora delle stesse battute, si è sempre a casa.
L’auto di Raffa era parcheggiata sul pratino. Uno dei suoi marmocchi stava già arrampicandosi tra i rami di un ulivo, scrollandone via la tramatura. Mio padre gli stava sotto a braccia spalancate: mi chiedevo se per frenarne eventuali cadute o assestagli uno scappellotto appena fosse sceso.
Spensi la macchina e liberai la gabbia dalla cintura. Prima ancora di finire tra le braccia della mamma, spalancai lo sportello di Ryanair, che saltò fuori in un lampo arancione, atterrando sull’erba con un suono di stoffa. Guardò in su come un bambino:
« Puoi fare tutto quello che vuoi, ma ricordati che partiamo alle cinque » lo ammonii.
Lui parve contento e si allontanò dimenando la coda.
La mamma si asciugava le mani bagnate su un grembiule. La baciai sulle guance, mentre lei mi accarezzava i capelli.
« Sono cresciuti » lamentò.
« Non più della settimana scorsa » risposi.
Raffa mi venne incontro con le mani nelle tasche. Aveva i capelli più corti dei miei e pantaloni di lino a zampa d’elefante.
« Mirco ha chiesto se gli insegni a giocare a dama » disse.
« Certo, certo. Dove sono le pe…? »
Il mio improprio appellativo fu stroncato sul nascere dal polverone di Mirco, nove anni, il maggiore, naso coperto di lentiggini:
« Zio, mi insegni a giocare a dama? »
« Dopo pranzo però. »
« Va bene. »
« Elisabetta? » domandai. Avevo già localizzato Tommy, anni cinque, la terribile peste, in cima all’ulivo. Mancava solo la più piccola, Elisabetta boccoli d’oro. Me la ritrovai attaccata alla camicia, dietro, che si sforzava di calarmi i pantaloni.
« Prendimi, prendimi » frignò.
Mi voltai, la afferrai per i fianchi e la feci volare alta sopra la testa. Non tanto alta, aveva quasi tre anni. Lei mi rise in faccia un profumo di mela verde.
« Vado a buttar giù le tagliatelle » disse la mamma « Fra cinque minuti tutti a tavola. »
Recuperare Tommy fu più difficile che costringere Elisabetta alla resa. Mio padre dovette scrollare il tronco dell’ulivo, pessima mossa, visto che peggiorò lo stato della fioritura, senza peraltro spaventare il bambino. Ma bastò una parola di Raffa:
« La prossima settimana ti lascio con papà » perché fuggisse giù come un furetto.
« Come sta Giorgio? » le chiesi, voltandomi.
Mia sorella si strinse nelle spalle e disse quello che diceva sempre:
« Se non mi passa gli alimenti gli taglio le palle. »
Era efficace e a me bastava.
In tavola le tagliatelle fumavano dai piatti. Il mio aveva in cima un’abbondante, rossa chiazza di sugo. In quello di mio padre troneggiava una gialla zampetta di pollo. L’avevo sempre trovato quanto mai inquietante. Mangiare trattenendo il fiato non è un’operazione facile come si possa pensare, specialmente se non ci tieni a farti notare. Attorcigli la tagliatella intorno alla forchetta, te la porti alla bocca come se fosse la cosa più invitante di questo mondo e solo allora cominci a trattenere il respiro, mastichi, mastichi finché ce la fai, e ingoi. Se sei molto coraggioso, infili un’altra forchettata senza rilasciare il fiato. A questo punto puoi rilassarti, ricominciare a respirare, ma col respiro tornerà il sapore: di questo devi essere cosciente. Con la massima cautela e la massima scioltezza, versati un bicchiere d’acqua. Ripeti l’operazione per circa venti volte e mano a mano la quantità di tagliatelle diminuirà fino a scomparire. Rifiuta una seconda porzione, categoricamente, senza se né ma. Di’ che ti senti pieno. Non dire che hai mal di stomaco. Potrebbero chiederti perché hai mal di stomaco. E tu sai bene che non c’è risposta a una domanda simile.
Dopo le tagliatelle fu il turno della faraona in salmì, altro tenero compagno di voli. Ma stavolta la mamma sapeva che io e la faraona non andavamo d’accordo, così mi affettò del salame. Venne la frutta e venne il tiramisù, in un piatto bianco bordato di rosso, sempre lo stesso da cinquant’anni. Il caffè scuro nelle tazzine del servizio buono, quello che un giorno sarebbe passato a Raffa. Mia madre lo diceva quasi di tutto:
« Raffa, tienilo da conto questo servizio, questi bicchieri, questo vaso, quei cucchiaini, che sono di quando si è sposata la nonna. »
Sembrava che quando s’era sposata, alla nonna avessero regalato un sacco di cose inutili.
Poi Raffa aiutò la mamma a sparecchiare mentre io giocavo a dama con Mirco. Era un bambino intelligente, ma non tanto da capire quando poteva mangiare due pedine per volta, così lo fregai per tre partite. Alle quarta lui aveva cinque dame e io una sola, nell’angolo. Ma per fortuna Raffa uscì dalla cucina e mi guardò come se mi vedesse per la prima volta.
« La mamma ha detto che hai cominciato un corso. »
Avevo accennato qualcosa a mia madre per telefono, la sera prima. Solo non pensavo che se ne sarebbe ricordata. E difatti non ricordava più di cosa.
« Yoga » risposi serio, alzando gli occhi dalla dama.
« Yoga. Wow, non ti facevo così… »
« Avevo bisogno di svagarmi un po’. »
« E ci credo. Mi fai vedere qualche posa? »
« Beh, ho fatto solo una lezione… » mi schermii.
« Almeno la posizione base! »
« Certo. »
Mi alzai in piedi e mi lisciai i calzoni, cercando di prendere tempo. Anche la mamma era riemersa dalla cucina e avevo tutti gli sguardi addosso. Mirco aveva messo da parte la dama, Elisabetta mi guardava al di sopra di una bambola, persino Tommy il terribile, abbarbicato sul bracciolo di una poltrona, sembrava prestarmi interesse. Per non parlare di Raffa, professionale, serissima.
Mi inginocchiai sul pavimento, cercando di scansare una macchia di sugo. Peso sui talloni, ricordai, e punte dei piedi rivolte indietro. Impiegai meno tempo ad aggiustarmi, stavolta, e forse mi disposi anche correttamente.
« E adesso? » domandò Raffa con una faccia scettica.
« E adesso ecco, zac » mimai il gesto di tagliarmi il ventre « un bel taglio netto da sinistra verso destra. Il maestro ha detto che libera dalle angosce. »
« Davvero? Cavolo, lo devo provare. »
Raffa si accoccolò sulle mattonelle al mio fianco e diede un colpo netto, pulito, lo stesso con cui Irene s’era tagliata la gola. Mi guardò. Pensai che m’avrebbe riso in faccia.
« Caspita, ma funziona! Mi sento molto meglio adesso. »
« Te l’avevo detto. »
« Mi hai convinto, cerco un corso vicino casa. »
Con gli alimenti che Giorgio le passava, non c’era il rischio che investisse sulle palestre. Per altri tre, quattro anni potevo stare sicuro. Al massimo se ne sarebbe uscita con l’accusa che avevo per maestro un cialtrone. Il che, tutto sommato, non era completamente errato.
La partita non riprese da dove l’avevamo interrotta, perché quando tornai sul tavolo Mirco aveva aggiunto una dama al suo schieramento.
« Ma così non vale. Hai barato. »
« Ma no, zio. »
« Ma sì, ti dico. »
« No. »
« Sì. »
« No. »
Il no vinse: a Mirco l’avvocato non costava nulla. Io me la presi, strapazzai un po’ Elisabetta e raccontai una storiellina dell’orrore per impressionare Tommy. Non s’impressionò, figuriamoci.
« Dov’è Ryanair? » chiese invece, con gli occhi che brillavano.
« Sarà in giro » risposi vago.
Tommy si divincolò dalla poltrona e si mise in piedi. Sapevo che l’avrebbe fatto. Il mio tentativo di fermarlo fu piuttosto blando, piuttosto inutile.
« Guarda che se gli dai fastidio ti graffia! »
Del tutto superfluo. Era già filato fuori della porta con Elisabetta al seguito. Mirco restò e si divertì a costruire torri di dame. Mio padre, che s’era appisolato su una sedia, si svegliò e brontolò qualcosa mentre Tommy gli passava davanti. Mi guardò strofinando gli occhi gonfi di sonno.
« Andiamo a fare due passi? » chiese, come chiedeva sempre.
Ci inerpicammo su per il pendio dietro casa. L’erba cresceva alta e folta e mi arrivava alle ginocchia. Papà mi precedeva negli stivali di gomma e un cappello in testa per ripararsi dal sole. Sapevo dove stavamo andando: era dove andavamo sempre. Traversammo un campo usato come pascolo e prendemmo per una stradina bianca in salita. Quando arrivai in cima, papà era già seduto sotto il ciliegio, che dall’alto della collina dominava una porzione considerevole di paesaggio. Si vedeva la nostra casa, in basso, il vialetto, il cancello, più lontano il cimitero, una torre diroccata. Più lontano ancora, sulle montagne dirimpetto, il profilo di un campanile e le case abbarbicate intorno. Il ciliegio era tutto un fiore. Non i fiori rosa del poster dell’agenzia, che quelli sono buoni per le geishe e i cartoni animati. Il nostro ciliegio fioriva bianco dacché l’aveva piantato il mio bisnonno, tanti anni prima. Faceva un’ombra lunga e fresca sul colle, i fiorellini che tremolavano invisibili, come tante mani che si aprivano e si chiudevano.
Da bambini io e Raffa prendevano a sassate le cornacchie, perché non ci beccassero tutte le ciliegie. A seguire, mio padre s’era attrezzato diversamente: non appena i fiorellini appassivano e si staccavano, avvolgeva rami e tronco dentro un tendone verde traforato. A guardarlo dalla strada, quando arrivavo, sembrava un regalo da scartare o a un mostro che s’agitava sotto un lenzuolo. Le cornacchie non si avvicinavano più, ma a che prezzo.
Mio padre si era tolto gli stivali e strofinava i piedi contro l’erba rugiadosa. Io mi accoccolai al suo fianco, le ginocchia contro il mento. Stare lassù, sotto il ciliegio, era bello. Tutto il resto appariva così insignificante, non quell’insignificante da star male, non quello che ti toglie il sonno: era staccare la testa per qualche minuto, lasciarla scivolare giù dalla collina e ritrovarla un po’ più leggera.
Quando finivamo a passeggiare così, immaginavo sempre che mio padre si voltasse e, facendo un largo gesto col braccio, potesse dire:
« Un giorno tutto questo sarà tuo. »
Avrei riso di gusto. Ma papà non guardava abbastanza televisione per accontentarmi, così quasi sempre finiva per chiedere:
« Allora, come sta la donna? »
Nella sua fantasia, la “donna” era Greta. Con la loro immaginazione infantile e arcaica, i miei genitori ancora pensavano che la gente dovesse amarsi solo perché trascorreva tante ore assieme o parlava o s’aiutava nel momento del bisogno. Ed io, che non mi andava di rovinargli il gioco, rispondevo:
« Bene, bene, tra un po’ andiamo a vivere insieme. »
Ma sotto il ciliegio, con la valle che si spalancava, alla faccia cavallina di Greta non riuscivo a pensare. Pensavo a un fruscio di capelli che si sollevano e ricadono e a un profumo dolce e buono. E il ciliegio non mi aiutava a non pensarci.
« Papà, com’ero a vent’anni? » domandai.
« Una bella testa di cazzo. Hai fatto bagagli e burattini e te ne sei andato. »
Non avrei dovuto chiederlo: mamma non s’era mai riavuta dallo shock. Se avessi messo il mare in mezzo, non sarebbe stato altrettanto brutto che quei sessantadue (sessantatre) chilometri.
« Quand’è che vi sposate? »
Un fruscio di capelli che si sollevano e ricadono. Sembra lo stormire dei fiorellini del ciliegio. Quel lampo dagli occhi, improvviso, un grosso buio e una grossa luce, tutte e due assieme.
« Presto » risposi « Greta vuole prenotare la chiesa. »
« Non ti ci vedo a sposarti in chiesa. »
Io non mi ci vedevo a sposarmi.
« Lei è molto religiosa, anche i suoi. »
« Mamma sarà contenta. »
« Non dirglielo, però. Non voglio rovinarle la sorpresa. »
Papà mi guardò negli occhi e d’un tratto l’angolo della sua bocca s’inclinò e ricadde. Aveva una faccia triste.
« Quando la smetterai di raccontare stronzate? »
Guardai giù la valle che si apriva, due o tre chilometri dal cimitero fino a noi. L’ombra del ciliegio si allungava sopra le nostre teste, cambiando forma con il vento che muoveva i rami. Quei capelli e quegli occhi e quella faccia bianca senza espressione, le braccia conserte. Mi alzai in piedi e tolsi un filo d’erba dai calzoni. Non risposi.

Sul pratino davanti casa si consumava una notoria tragedia. Tommy era seduto su un sasso: grossi lacrimoni gli scorrevano giù dalle guance e si contorceva nella presa della madre. Raffa, inginocchiata davanti a lui, gli teneva un braccio, lo esaminava, ci passava di sbieco un batuffolo di cotone.
« Ch’è successo? »
Raffa si voltò, incenerendomi dagli occhi. Quello che vidi non mi piacque neanche un po’. Due sottili graffi rossi, dritti e paralleli come binari, segnavano il braccio paffuto di Tommy. Ryanair si grattava un orecchio in un angolo del prato.
« Mi sono stufata, proprio stufata! Se ti riporti dietro quel gatto, la prossima volta gli tiro col fucile! »
Sapevo che l’avrebbe fatto: Raffa manteneva sempre quello che prometteva.
Aprii lo sportello dell’auto per prendere la gabbia. Ryanair se ne accorse, ma non fece per fuggire. Anzi, quando lo chiamai venne diretto e senza fare storie, scivolando da sé nella gabbietta. Si sarebbe persino chiuso lo sportelletto, se avesse potuto.
« Non lo porto più. »
« Sarà meglio per te! »
« Tommy, mi dispiace tanto. Lui non voleva, ma… »
Raffa mi lanciò un’altra occhiata torva.
« Tommy, scusa, scusa davvero. Ti fa tanto male? »
Detestavo quel pessimo attore coi lacrimoni, i suoi striduli urletti da prima donna. Ma tutti lo fissavano, tutti fissavano me. Persino Elisabetta aveva preso a guardarmi storto.

« Non dovevi, Ryanair. »
Lui aprì un occhio, uno solo, e non rispose. Guidavo di nuovo attraverso la campagna, il vialetto, il cancello, il cimitero.
« Lo sai come sono. Sono così…normali. Le persone normali si arrabbiano per delle stronzate. »
L’occhio si richiuse. Non ci fu altro segno di vita.
« Non verremo più » promisi, ma sapevo di non poterlo mantenere. Nonostante le incomprensioni, i bambini, le menzogne, nonostante le tagliatelle.
Alzai gli occhi dalla carreggiata, individuando il ciliegio su in alto, che tremolava tutto tranquillo e bianco. Quando li riabbassai, c’era un merlo che becchettava sul ciglio della strada. Pensai che sarebbe volato via, ma non volò. Zampettò a destra, zampettò a sinistra e finì sotto le ruote. Un piccolo tonfo soffocato contro il cruscotto. Uno sbuffo di piume nere. Nello specchietto retrovisore vidi il suo corpo che rotolava e rotolava, rotolava sull’asfalto tutto avvolto nelle penne.
« Non ho potuto fare niente per salvarlo » dissi, e distolsi lo sguardo.

Di Chiara Pagliochini

3 commenti:

  1. Davvero non poteva fare niente per salvarlo?
    Mi è piaciuto molto questo finale amarognolo dopo il registro tutto soft del capitolo. Continuo a seguirti, sono certa che presto sarai all'opera per il prossimo capitolo :)
    M.

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  2. E' difficile salvare qualcuno che non vuole essere salvato. Detto questo, sarò presto al lavoro :)

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  3. Il finale è stato tanto pucciosamente cupo :D

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