mercoledì 3 agosto 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap. 3


La ragazza senza faccia si chiamava Irene. Aveva una faccia meno bella del suo nome, una faccia anonima, dalla fronte spaziosa, spesso corrugata, e sopracciglia troppo folte. I capelli erano lunghi e lisci come un fascio d’erba, ma di uno slavato color nocciola. Il rossetto non le stava bene. Non era una, di certo, che la gente si voltasse a guardare per strada, troppo magra, troppo pallida, cascava nei vestiti. Di questo mi dispiaceva: a vent’anni dev’essere triste, se nessuno si volta a guardarti per strada.
La vidi segnare il suo nome nel registro, un Irene in stampatello, frettoloso. Scambiò una parola con Ida, la signorina della scrivania. Ci fu un confuso tran-tran di banconote. Poi s’incamminò per il corridoio, molto lenta, e scomparve a una svolta.
Avevo lasciato del latte nella ciotola per Ryanair e gli avevo chiesto di fare la guardia. Faceva freschino, ma usare la macchina non conveniva: il corso era zona a traffico limitato. Tra un passo e l’altro m’ero sorpreso a chiedermi dove stessi andando, ma non avevo saputo darmi una risposta. Andavo da qualche parte, era già qualcosa.
Lampioni soffusi vigilavano sulla piazzetta, smaltando di giallo la schiena del ragazzino. Mi immaginai un faro addosso per tutta la notte, nessuna intimità, nessuna speranza di qualche sconcezza. Doveva essere una vita ben triste. Le luci nell’agenzia erano accese e un alto signore in giacca e cravatta mi tenne la porta aperta. Lo seguii nella sala d’aspetto. Era lì che stava Irene, appoggiata contro la scrivania. Ebbi giusto il tempo di leggere il suo nome, perché come mi avvicinai quella si allontanò. Ida mi sorrise e chiese, in tono civettuolo:
« Lezione di harakiri, quindi? »
Annuii e apposi la firma sul registro.
« Il maestro Mishima è molto bravo. Ha degli antenati samurai! » aggiunse, come se dovesse farmi piacere.
« Oh, non ne dubito! » dissi, allungando due banconote a malincuore.
L’uomo in giacca e cravatta e una signora sulla cinquantina mi tennero dietro mentre imboccavo il corridoio, superavo l’ufficio di Iris e sbucavo su un’ampia sala relax, con delle sedie allineate lungo le pareti. La sala sembrava arrangiata così apposta per la lezione di harakiri: due divani erano stati spostati in un angolo, un portariviste era rovesciato. Quello che pareva un piccolo bar era chiuso, le luci spente, nessuna fumante macchina del caffè. Sul pavimento, al centro della stanza, erano stesi lunghi tappetini blu, a un metro di distanza l’uno dall’altro. Contai cinque tappeti per fila, tre file, e un tappeto isolato, in capo agli altri: doveva essere quello del maestro Mishima.
Il maestro era un ometto quasi calvo, con gli occhi a mandorla e un kimono indosso. I segni del giapponese c’erano tutti. Ma bastò che aprisse bocca per rovinare la finzione: lo tradiva un pesante accento romagnolo. Se quel Mishima aveva antenati samurai, di certo adesso erano lontani lontani, e l’unica katana che conosceva era quella taroccata delle vincite al tiro a segno.
Mi guardai attorno. A occhio c’erano tante persone quanti tappeti. Il signore incravattato, la donna sulla cinquantina, Irene, Iris, un paio di miei coetanei, due signore che parevano sorelle, un vecchio sospettoso, tre ragazzetti emo con le sopracciglia spillate e il maestro. Eravamo un gruppo eterogeneo, non c’è che dire. Alcuni parlottavano tra loro, ma i più stavano zitti, guardinghi, con le braccia incrociate. Così stava Irene, faccia al pavimento.
« Sono le nove e quaranta, cominciamo! » disse il maestro, allargando le braccia. Prontamente Iris si fece da parte per accomodarsi su un divano in fondo alla sala, da cui rimase a guardarci, presumo.
« Presto, presto, un tappeto ciascuno! »
Un tappeto ciascuno. Come nelle lezioni di ginnastica al liceo, per giunta sotto gli occhi della prof di italiano.
Mi mossi lesto per accaparrarmi un tappeto. Ero in seconda fila, tra uno degli emo e la signora sui cinquanta. Irene la avevo esattamente di fronte.
« Vediamo di capire perché siamo qui » disse il maestro, ginocchioni sul tappeto.
E per un attimo sperai che lo spiegasse.
« Due parole, prima di iniziare. Di quello comunemente chiamato harakiri esistono due pratiche, similari ma distinte e con un diverso valore ideologico. Abbiamo l’harakiri e abbiamo il seppuku. L’harakiri è meno codificato del seppuku, più povero, se vogliamo. Ma partiamo da quello che sapete. Entrambi prevedono il taglio dell’addome. »
Splendido, pensai, ricordando con ansia il mio piatto di lenticchie.
Il ragazzo emo era concentratissimo, gli occhi sbarrati. O forse aveva fumato qualcosa di pesante. Una smorfia segnava il volto della signora di sinistra, che ascoltava con le labbra tremule. Per distrarmi, presi a fissare un punto della lontana parete.
« È a questo punto che abbiamo la distinzione. Se vi tagliano la testa, parliamo di seppuku. Se non ve la tagliano, siamo sull’harakiri. Semplice, neh? »
Semplicissimo.
« L’ho messa giù in quattro parole, non possiamo permetterci una disamina universitaria. Innanzitutto, perché l’addome? Perché il ventre è la sede dell’anima e del corpo, della vita spirituale e materiale dell’uomo. Tagliando il ventre non uccidiamo solo il corpo, ma ci uccidiamo nello spirito. È questo il punto. E se vi piace l’idea, siamo a cavallo! »
Qualcuno sbuffò. Dalla fila dietro dissero, iniziamo?
Il maestro Mishima si alzò in piedi, sollecito.
« Iris, potrebbe portarmi quello scatolone? »
Rumore di cartone che si tende, uno strappo. Iris arrancò sotto il peso dello scatolone fino al Mishima, che non mosse un passo per aiutarla. Per tutta risposta, lei rovesciò il contenuto sul suo tappeto. Qualcosa come venti pugnali giocattolo ruzzolarono sul pavimento, finendo tra le gambe di quelli della prima fila. Il maestro si chinò imbarazzato e cominciò a raccoglierli.
« Distribuiteli! Distribuiteli! » gracchiò, rivolgendo a Iris un’occhiata gelata.
Irene mi passò un coltello dalla parte del manico, io lo allungai a quelli della fila dietro. Quando ne avemmo uno ciascuno, il maestro batté le mani soddisfatto e disse:
« Adesso ci manca la posizione! Guardate, guardatemi molto bene! »
Si inginocchiò di nuovo, ma lentamente, cerimonioso e svenevole. Le ginocchia erano divaricate, il fondoschiena poggiava sui talloni.
« Le punte dei piedi all’indietro! Lei » gridò alla mia compagna di fila « apra di più quelle gambe! »
« Ma sto scomoda » protestò questa, senza scomporsi.
« Poi si abitua. »
Io faticai ad abituarmi. Innanzitutto, mi tiravano i calzoni e, secondo, mi sentivo vulnerabile.
« I samurai assumevano questa posa per non cadere all’indietro. Capite? Non faceva onore cadere di schiena, si deve sempre tenere la faccia avanti. Ed ora, i pugnali! »
I pugnali. Ricordai di aver giocato ai guerrieri ninja, da bambino. In quel momento non sembrava poi così diverso. Raccolsi la lama che avevo poggiato sul tappeto e strinsi incerto la piccola impugnatura.
« No, no, che branco di pecorelle! Non il manico, la lama! »
« La lama? Ma ci tagliamo! » disse un altro dei ragazzi emo.
« È di plastica! »
« Ma supponiamo che sia d’acciaio. »
« Ma è plastica! »
« Ma la vera è acciaio! »
« Ebbene, se non hai il fegato di impugnare un pugnale giocattolo, torna alle tue lamette! »
Il ragazzo si offese, mise il broncio, tacque.
« Il samurai stringeva la lama attraverso un panno bianco, per non ferirsi, non mollare la presa. L’arma poteva essere il banto, un pugnale corto tipo questo… »
Lo guardai. Un pugnale di plastica dei Guerrieri Ninja.
« …oppure il wakizashi, una spada leggera. E ora che siamo pronti, cominciamo! Guardate, guardate qui, un taglio secco, da sinistra verso destra. Un altro taglio dal basso verso l’alto, se siete ancora vivi. E niente smorfie, mi raccomando. I samurai non fanno smorfie. »
Mi squarciai il ventre con una mossa fluida. L’anima spirituale era una nebbiolina semitrasparente al di sopra del mio naso. Mia moglie Giunco Splendente mi osservava, gli occhi tristi, le palpebre truccate. Scoprii che mi ero incantato su un poster appeso alla parete di fondo: una bella geisha voltata di profilo, lo sguardo perso su un albero di ciliegi. Era inginocchiata, come me, i capelli raccolti. Madama Qualcheccosa, lessi di sfuggita, tra la testa di Irene e le spalle del Mishima.
Era sceso un grande silenzio sulla sala. Le nostre budella si contorcevano sul pavimento, si prendevano per mano, giocavano alla lotta con le budella vicine. Il volto del Mishima era atteggiato a un lieve sorriso, il rigor mortis.
« Ebbene » chiese d’un tratto, rompendo l’incantesimo « non vi sentite liberati di un peso? C’è qualcosa di più dolce e di più sublime di questo, una morte con una storia, una morte che porta scritto il coraggio sull’elsa! »
Riprese a parlare, aggiungendo qualche nota di colore a proposito dei samurai. Pare che facessero un ultimo bagno, prima dell’esecuzione, e che vestissero vesti bianchissime. Poi ordinavano il loro piatto preferito - certo del sushi -  e scrivevano una poesia - il sudoku.
« Se avete deciso che questa è la morte che fa per voi, non esitate a chiamarmi. Sarò lieto di assistervi in tutto il rituale. E per le donne c’è la formula speciale, il jigai, col taglio della giugulare. Vogliamo provare? »
Le donne raccolsero di nuovo il pugnale. La mano della cinquantenne fu esitante, debolissima. Non la vedevo una potenziale sgozzatrice. Ma Irene si tagliò la gola con una mossa pulita, veloce, i capelli si sollevarono alle spalle con un fruscio. Me ne venne un profumo dolce e buono.
« Ecco, signore e signori, ripeto, Iris ha il mio numero » un sorriso più teso « Se questa morte vi piace, chiamatemi senz’altro! »
« Ma certo, chi non vorrebbe morire sbudellato… » commentai a bassa voce.
O forse non proprio a bassa voce, perché Irene si voltò. Era la prima volta che mi guardava. Una persona qualunque avrebbe sorriso del mio sarcasmo, ma la sua espressione era decisa, quasi di sconcerto.
 « Salgari l’ha fatto » disse secca.
« Quello di Mowgli? » chiesi.
« Quello di Sandokan! » rispose, mandando un lampo dagli occhi. E allora vidi che quando s’irritava diventava più graziosa, riprendeva colorito e gli occhi soprattutto erano belli, molto grandi, molto marroni. Ma non è che potessi far figure di merda solo perché lei diventava più carina.
« Sandokan, certo. Scherzavo » risposi.
Dopo mezzora in quella posizione, tutti i muscoli cominciavano a dolere. Quelli dell’inguine tiravano che era uno spasso. Immaginai un tendine staccarsi dall’osso come la corda di una chitarra e le mie ginocchia che si richiudevano a molla. Quel Mishima aveva effetti nefasti su di me.
Finalmente Iris ebbe la decenza di chiedere:
« C’è qualcuno che vuole fare domande? »
Pregai la Grande Lucertola Infuocata e gli Spiriti Antichi che nessuno osasse. Ma qualcuno osò. Era l’uomo incravattato, il più goffo, il più sinistro di tutti. Da quando l’esercizio era cominciato si era tolto in sequenza la cravatta, la giacca e la cintura dei calzoni. Adesso era in maniche di camicia e la pelata gli luccicava di sudore.
« Io….posso andare in bagno? » chiese, con accento pieno di disperazione.
La sala esplose in uno scroscio di risatine. Persino il Mishima si tenne per un pezzo il ventre gonfio da mangiatore di piadine. Ad aprirlo con la spada, sarebbe stato come il sacco di Babbo Natale.
Poi Iris fece un gesto con le mani che voleva significare, alzatevi e disperdetevi. Faticai a riabituarmi alle gambe: il piede sinistro si era addormentato e formicolava. Il maestro parlava col ragazzo emo della mia fila, quello che per tutto il rito l’aveva seguito con gli occhi luccicanti. I suoi compagnetti scuri e pinzettati confabulavano tra loro a bassa voce. Chi più chi meno erano tutti riuniti in gruppi: le due sorelle scambiavano i numeri di cellulare con gli uomini miei coetanei, la cinquantenne e l’incravattato facevano la coda alla toilette.
Soltanto Irene si stagliava sola, ancora gli occhi bassi, ancora le braccia incrociate. Qualcosa mi diceva che non avrei rivisto le due sorelle: avrebbero dato appuntamento agli uomini, sarebbero usciti, avrebbero preso una stanza. E d’un tratto le loro manie suicide sarebbero parse lontane come quella nebbia trasparente. E non avrei rivisto gli emo, così divertenti nei loro panni aggressivi: la moda sarebbe passata e avrebbero cominciato a coltivare girasoli. Avrei rivisto l’incravattato e la cinquantenne, forse, purché riuscissero ad uscire dal bagno. Ma sempre avrei rivisto lei, Irene, la ragazza senza faccia, la ragazza senza faccia che non guardava in faccia nessuno, se per paura o per altro non sapevo. Ma appena mi mossi per andare a parlarle, lei credo s’accorse che io la minacciavo e subito mi voltò le spalle e scomparve nel corridoio.

Di Chiara Pagliochini

4 commenti:

  1. Spettacolare!
    Irene e Bianca farebbero una bella coppia xD

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  2. Mi è venuto in mente come sarebbe bello far morire Irene, forse è banale in realtà, attenderò che sia tu a tramortire me, alla prossima!

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  3. L'idea per Irene ce l'ho già. Mi è così trapiantata in testa che non posso trovarne un'altra.
    Ma a parte questo:
    Tambo, che ne dici se la facciamo sgozzare da Bianca? xD

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  4. Qui diventa tutto un GDR mi sa ahahah

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