martedì 6 settembre 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap. 7


Eco e Narciso, Waterhouse

Dopo l’episodio del diario, i miei rapporti con Irene andarono un po’ migliorando. Certo, non diventammo grandi amici, ma arrivai a poterle dire “ciao” e “arrivederci” senza che lei si voltasse o scappasse. E talvolta, pensate, rispondeva pure. Erano piccole sviste, le falle della sua corazza, ma mi riempivano di una grande gioia, il trionfo di un bambino che vince la sua caramella, successo infimo, quasi miserevole.
Cercavo l’approvazione di una ragazzetta di vent’anni, e persino Cassandra scuoteva la testa in segno di disapprovazione:
« Tanto quella mica te la dà. »
Non mi prendevo la briga di correggerla. Non ne valeva la pena.
Il diario, il dialogo, tutto concorreva ad aumentare la mia curiosità, anziché a lenirla. Se prima potevo dire, non so niente di questa Irene, adesso la frase più corretta era, quale Irene? Quale Irene? I miei circuiti si connettevano male: un neurone mi portava un flash dei suoi capelli, un altro teneva per la coda un cinque sghembo, il terzo arrivava saltellando e aveva degli occhi grandissimi. Pensavo a Irene, e nella testa le sinapsi erano scoppi di pidocchi.
Non badavo neanche più alle lezioni dell’agenzia. Impiccagioni, roghi sacri, Pitagora, niente più mi impressionava. Accoglievo tutto con affetto, perché così tutto accoglieva Irene. E quando la vedevo concentrata, anch’io mi concentravo. Quando la vedevo disgustata, anch’io mi disgustavo. Quando lei annuiva, anch’io annuivo. Perché volevo dare importanza alle stesse cose cui la dava lei. Questo me l’avrebbe fatta conoscere. E conoscerla stava diventando - o almeno così sembrava - il mio unico motivo per restare, per restare in quel ricettacolo di pazzi di cui Irene era, probabilmente, la più pazza di tutti.
Era un venerdì, ed io ero in ansia come un condannato a morte. Irene non c’entrava, stavolta, e neanche il cianciare intermittente di Cassandra. Ero ancora in ufficio, quando avevo ricevuto la chiamata: mia madre mi invitava per il pranzo della domenica, con Raffa e i bambini e tutti quanti! Ma non con Ryanair, dopo quello che ha combinato l’altra volta non pretenderai…
« Ma mamma, e come…? »
« Organizzati. Trova qualcuno a cui lasciarlo. »
Prontamente mi ero alzato dalla sedia girevole. Sconvolto, avevo abbassato la cornetta e mi ero slacciato un bottone della camicia. Cercavo ancora di trattenere il dilagante senso di panico, quando mi affacciai a spiare Greta. Lei alzò la testa, strizzò gli occhi, capì che qualcosa non andava.
« Ho bisogno del tuo aiuto » mormorai.
Greta girò intorno alla scrivania e mi prese una mano.
« Cos’è successo? »
« Niente, niente, ho solo bisogno che tu tenga Ryanair. Sarebbe questione di mezza giornata. Non so a chi altro… »
« Chi è Ryanair? »
Mi stupii che non gliene avessi mai parlato. Era la cosa più importante della mia vita e non gliene avevo mai parlato.
« Il mio gatto. »
« Oh! »
E in quel momento i suoi occhi si riempirono di un luccicore strano, lamentoso.
« Mi dispiace, non posso » disse a bassa voce.
« Ma…? »
Ero così sorpreso che non riuscii a dire altro.
« Sono allergica ai gatti. »
Sottrassi la mia mano alla sua presa. E seppi, seppi senza che aggiungesse altro, che Greta non sarebbe mai stata la donna della mia vita, checché i miei genitori dicessero.
Era andata avanti così per tutto il giorno. Tornare a casa non aveva fatto che peggiorare la situazione. Concentrarsi su una possibile soluzione al problema era ancora più difficile, quando il problema ti si strusciava contro le caviglie. L’avevo fissato negli occhietti gialli.
« Che cosa hai fatto, Ryanair » avevo sospirato, accarezzandolo distrattamente.
Certo, avrei potuto richiamare mia madre. Perché no? Dirle che non andavo. Era la cosa più semplice. Ma non sarebbe stata una buona soluzione, non potevo evitare il problema per sempre. Raffa non avrebbe più permesso a Ryanair di scorrazzare nel cortile davanti casa. Raffa o Ryanair, la scelta doveva essere immediata e definitiva. O cercare un’altra via, un’alternativa, ma quale? Se Greta non poteva, allora…? Nessuno mi sembrava abbastanza affidabile, nessuno così degno della mia fiducia. Mi sentivo defraudato di qualcosa.
Per questo, concentrarmi sulle parole di Iris mi riusciva davvero difficile. Eppure Irene si stava concentrando, dannata lei. Cercai di allontanare per un attimo quei pensieri dalla testa e di ascoltare, solo ascoltare. Iris camminava avanti e indietro, sulle tracce di un pendolo invisibile. Irene, seduta in prima fila, prendeva qualche appunto sulla sua agenda. Ero felice che finalmente avesse cominciato a scriverci qualcosa. Anche se certo non dovevano essere cose allegre. Eugenio sonnecchiava, il capo reclinato contro il petto. Cassandra si controllava le unghie. E Sca non c’era, perché sarebbe stato troppo anche per lui.
Ma no, occorreva concentrarsi, dare importanza alle cose cui la dava lei. E allora ascoltai, mi concentrai, finsi per un momento - uno solo - di non avere un gatto, di non dover preoccuparmi di nessuno. Finsi di essere un uomo libero dai lacci di qualsiasi dipendenza.
« Dovremmo iscrivere Narciso nella lista dei nostri illustri predecessori, non trovate? Conoscete la storia di Narciso, vero? »
Lo sguardo di Iris si appuntò su di me, che mi richiusi nelle spalle.
« Ma sarà bene darne qualche cenno, certo. Narciso, dunque, bellissimo giovane che si specchia in una pozza d’acqua. Bellissima la ninfa Eco, che lo ama e che ne è respinta, perché Narciso ama troppo se stesso per amare anche lei. La povera Eco che a forza di ripetere il suo nome consuma la propria voce e si asciuga. Questa la storia, no? »
Irene annuì col capo. Annuii anch’io. Cassandra no, era impegnata a divellere una pellicina particolarmente cattiva.
« Perché dico che Narciso non è altro che un uomo come noi, come voi? Forse Narciso si uccide? Beh, non nel senso vero del termine, se vogliamo essere pignoli… Ma se vogliamo essere poetici - e la poesia e la metafora, è questo che noi cerchiamo, vero? Bene, se vogliamo essere poetici e metaforici, questo nostro Narciso si uccide eccome. »
« Si spieghi meglio » disse Irene, alzando appena la fronte.
« Già » feci Eco io.
« Narciso cade nella pozza d’acqua perché tenta di abbracciare la propria immagine. Come a dire che a voler conoscersi fino in fondo si precipita. O forse no? Ecco, se pensiamo a Narciso in questi termini - non come uno che ami la propria immagine riflessa, ma come uno che cerchi il perché di quell’immagine - ecco che avremo davanti il nostro ritratto. Perché siete finiti qui? Perché forse? Non per conoscere qualcosa di voi? Non per cancellare quel qualcosa di voi che avete conosciuto e nel quale siete sprofondati? »
Irene smise di scrivere. Alzò tutta la testa e restò semplicemente così, a guardare in silenzio. Guardava Iris in silenzio come se si aspettasse di più, come una verità che avrebbe potuto salvarla. No, non salvarla. Irene voleva essere salvata? Non lo sapevo, ma non mi sembrava il tipo. Mi sembrava più qualcuno che volesse conoscere e conoscere fino in fondo, proprio come quel Narciso, chiunque fosse.
« E poi Narciso annega » disse a un tratto, come soprappensiero.
« Certo » rispose Iris, accompagnando la conferma con un blando cenno del capo. Mi parve strano, stranissimo, come se quella parola e quel gesto fossero stati una carezza, una gentilezza nei confronti di Irene. Ma era assurdo.
« Quindi Narciso è un innegabile distratto o un geniale calcolatore? Nessuno potrà mai risollevarlo dall’acqua e chiedere alla sua faccia gonfia una qualche risposta. Sei scivolato? L’hai fatto apposta? Cos’hai visto in quel riflesso? Nessuno potrà. Né qualcuno potrà vedere quel riflesso allo stesso modo in cui lo vedeva lui. Se anche Eco si fosse messa alle sue spalle e, spettinandogli i capelli, avesse guardato nell’acqua insieme a lui, non avrebbe visto la stessa cosa che Narciso vedeva. Perché Narciso conosceva il suo viso solo attraverso quell’acqua, mentre Eco lo conosceva attraverso gli occhi. E due diversi specchi danno due immagini completamente diverse. O infinite diverse immagini. Come in un caleidoscopio. »
Irene faceva di sì con la testa, Irene capiva. Io invece non capivo nulla. Erano parole che non avevano alcun senso per me. Però erano parole importanti, perché importanti erano per Irene: avrei fatto bene a tenerle in mente.
Ma come poteva davvero interessarmi tutto quello, quando c’erano problemi ben più gravi ad assillarmi, quando Ryanair, il povero, il caro… ? No, dannazione. Ed ecco che, a vedere i capelli di Irene e la sua testa così docile a far di sì, ricordai. Ricordai quel che mi aveva detto, davanti alla porta di casa, con la tuta indosso e la cortesia di rito.
« Se c’è qualcosa che posso fare per sdebitarmi. »
Era decisamente improbabile - o almeno decisamente ingiusto - che due donne si proclamassero allergiche ai gatti nello stesso giorno.

« Ma…certo. »
Non se lo aspettava, glielo leggevo negli occhi. L’avevo davvero colta di sorpresa.
Si portò una ciocca di capelli dietro le orecchie e rimase ad osservarmi con una punta di curiosità. L’occasione era troppo ghiotta per farmela sfuggire.
« Sarà solo per qualche ora. Ho avuto dei problemi a casa e non posso più portarlo con me. E sono sicuro che con te… »
« Ma sì, starà bene » lo disse con decisione, come se volesse rassicurarmi.
Lo sarebbe stato veramente? Irene-Narciso era abbastanza all’asciutto, abbastanza lontana dall’acqua, per badare ancora al mio gatto? O non poteva forse essere vendicativa e criminale o semplicemente sciatta…un innegabile distratto o un geniale calcolatore? Stavo affidando alle sue mani la cosa più cara che avessi e in quel momento provai paura e vergogna. Mi vergognavo di essere così caduto in suo potere.
Ma c’è da dire che Irene non se ne rendeva minimamente conto, o almeno così sembrava. I suoi occhi erano limpidi, le sue parole misurate. Indossava la sua migliore maschera di circostanza.
« Siamo d’accordo, allora. Lo porto da te domenica mattina alle undici. Va bene? »
« Certo. »
« Ci vediamo allora. »
« Ciao. »
Si allontanò con la borsa sotto il braccio. Qualche momento prima l’avevo vista far scivolare l’agenda al suo interno. E per un attimo ero stato colto dalla vertigine, al ricordo di quella sensazione di potere, la sensazione di poter controllarla e conoscerla, manipolarla, svelarne i segreti. Ma non era servito niente. Irene non si faceva conoscere da me. Irene sola voleva conoscere se stessa.
Cassandra mi si avvicinò e mi poggiò una mano sulla spalla.
« Insisti? » chiese, in tono dolce-miele.
Le sorrisi incerto, un po’ teso.
« Dai, andiamoci a prendere un caffè. »
« Ma sì, andiamoci a prendere questo caffè. »
Ero così soddisfatto della riuscita del mio piano che potevo anche essere accomodante, per una volta. Purché si trattasse solo di un caffè: aveva troppo fard sulle guance, quella stregaccia. Cassandra mise il suo braccio sul mio, e si dichiarò contenta, tanto contenta, che non me ne scappassi subito a casa. Ma Irene era già scappata, ahimè.
Mi tornò in mente una cosa che dovevo dirle. Ryanair non mangia croccantini. La appuntai nella mia agenda mentale e cercai di concentrarmi su quell’idea per tutto il tragitto fino al café. Ma non so cos’accadde, se Cassandra parlò troppo o un altro appunto sbiadì quello sottostante. Fatto sta che mi dimenticai, e mancai di dirlo a Irene. E lei, innegabile distratto o geniale calcolatore, non poteva di certo sapere che.

Di Chiara Pagliochini



3 commenti:

  1. A me è piaciuto davvero tanto tanto, forse il mio preferito per ora :)

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  2. Concordo con Marco.
    E' un colpo di genio questa riflessione su Narciso.

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  3. Alla fine ho fatto una piccola concessione al lato filosofico. Forse Ryan diventerà un tantino più intelligente man mano che conosce Irene xD

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