«Eravamo insofferenti nei confronti dei
nostri simili, ma comunque bramosi d’affetto; la timidezza aveva tenuto sotto
chiave qualunque impulso, ma poi il cuore era stato toccato. E quando il cuore
fu toccato, per noi sembrò spalancarsi il paradiso e ci parve di possedere –
sì, a entrambi – tutta la ricchezza dell’universo. Se fossimo stati diversi,
saremmo sopravvissuti».
Il mio amore per Daphne Du Maurier è nato molti
anni fa, quando, essendomi imbattuta per la prima volta in Rebecca la prima moglie, cominciai a inseguire la stessa storia in
film, fiction e nel romanzo, fino a farla un po’ mia e quasi a volerla
riscrivere in prima persona. Di questa autrice inglese dal nome francese amo le
atmosfere torbide e inquiete, la sensazione di scoprire un segreto a ogni curva
della narrazione (anche in assenza di veri segreti) e l’idea dell’amore come
forza logorante a cui non ci si può opporre. Nei suoi romanzi leggiamo di amori
avvelenati e distruttivi, indissolubilmente legati al crimine e alla morte: è
questo a renderli così peculiari, a tenere il lettore col fiato sospeso in un
estenuante volta-pagina, nell’attesa che la tensione che finora l’ha
attanagliato si plachi o culmini una buona volta.
Mia
cugina Rachele è un ottimo esempio di tutto ciò e, nonostante
riservi meno colpi di scena del più noto Rebecca,
sa far dono di ore molto piacevoli. A renderlo speciale è l’ambiguità mai
sciolta della figura di Rachele, un’avvenente nobile italo-inglese in cui si
combinano tutte le sfumature del femminino. A narrarci di lei è il giovane
Philip, ventiquattrenne di belle speranze, cresciuto nella tenuta di famiglia
dal cugino Ambrose, per cui nutre una sfrenata venerazione. Per problemi di
salute, Ambrose è costretto a trascorrere qualche tempo in Italia, dove conosce
Rachele e se ne innamora. I due si sposano e vivono insieme per un anno a
Firenze, finché Ambrose è stroncato da una malattia improvvisa. Philip è
distrutto dal dolore, dall’odio e dalla gelosia per la donna che gli ha portato
via colui che considerava un padre: la stessa donna che poi si presenta alla
porta della sua casa e che sembra così diversa dall’idea che si era fatto di
lei… Ma perché Rachele è venuta in Inghilterra? Per visitare i luoghi amati da
Ambrose o perché ha qualche mira sul suo testamento, da cui è stata esclusa? Mi
fermo qui: tutto questo avviene entro le prime 50 pagine del romanzo e ho
intenzione di lasciarvi intatto il piacere del resto.
La storia, che sembrerebbe vincolata a una trama
un po’ scontata, è resa accattivante e quasi sadicamente divertente dal
personaggio di Rachele, che risulta la stratificazione di diverse personalità e
luoghi comuni sul femminile. Rachele è tutto e il contrario di tutto: è la femme fatale che ruba il cuore degli
uomini, conducendoli alla perdizione; è la strega che conosce le antiche arti
delle erbe, che usa per curare e far ammalare; è la fanciulla che ha bisogno di
essere salvata, anche da se stessa; è la donna del focolare, che sa
amministrare una casa e tenere brillante la conversazione; è l’amazzone indipendente
e impulsiva, che non si lascia comandare dagli uomini. Rachele sa calarsi in
ognuna di queste parti e indossarle per il proprio piacere o per il piacere
della manipolazione, l’arte in cui riesce meglio di tutte. Ma la cosa più
interessare è avvertire che Rachele non è una donna più speciale delle altre,
ma che anche noi, in quanto donne, siamo Rachele e nel corso della nostra vita
ricopriamo un numero incredibilmente alto di ruoli, indossando maschere che il
più delle volte sono state dipinte per noi dal sesso maschile. Per questo, in
fin dei conti, l’anima nera (ma è davvero così?) di Rachele non suscita odio o
sgomento nelle lettrici, ma un’inaspettata simpatia. Osservarla attraverso gli
occhi ingenui di Philip conferisce alla narrazione un tono di nascosta ironia,
che forse solo le lettrici coglieranno. Su tutto aleggia un pensiero frivolo e sbarazzino,
ma che dà grande piacere: gli uomini… sono così semplici.
un libro intrigante, piacevole e raffinato
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