sabato 5 settembre 2015

Mia cugina Rachele, Daphne Du Maurier

«Eravamo insofferenti nei confronti dei nostri simili, ma comunque bramosi d’affetto; la timidezza aveva tenuto sotto chiave qualunque impulso, ma poi il cuore era stato toccato. E quando il cuore fu toccato, per noi sembrò spalancarsi il paradiso e ci parve di possedere – sì, a entrambi – tutta la ricchezza dell’universo. Se fossimo stati diversi, saremmo sopravvissuti».


Il mio amore per Daphne Du Maurier è nato molti anni fa, quando, essendomi imbattuta per la prima volta in Rebecca la prima moglie, cominciai a inseguire la stessa storia in film, fiction e nel romanzo, fino a farla un po’ mia e quasi a volerla riscrivere in prima persona. Di questa autrice inglese dal nome francese amo le atmosfere torbide e inquiete, la sensazione di scoprire un segreto a ogni curva della narrazione (anche in assenza di veri segreti) e l’idea dell’amore come forza logorante a cui non ci si può opporre. Nei suoi romanzi leggiamo di amori avvelenati e distruttivi, indissolubilmente legati al crimine e alla morte: è questo a renderli così peculiari, a tenere il lettore col fiato sospeso in un estenuante volta-pagina, nell’attesa che la tensione che finora l’ha attanagliato si plachi o culmini una buona volta.
Mia cugina Rachele è un ottimo esempio di tutto ciò e, nonostante riservi meno colpi di scena del più noto Rebecca, sa far dono di ore molto piacevoli. A renderlo speciale è l’ambiguità mai sciolta della figura di Rachele, un’avvenente nobile italo-inglese in cui si combinano tutte le sfumature del femminino. A narrarci di lei è il giovane Philip, ventiquattrenne di belle speranze, cresciuto nella tenuta di famiglia dal cugino Ambrose, per cui nutre una sfrenata venerazione. Per problemi di salute, Ambrose è costretto a trascorrere qualche tempo in Italia, dove conosce Rachele e se ne innamora. I due si sposano e vivono insieme per un anno a Firenze, finché Ambrose è stroncato da una malattia improvvisa. Philip è distrutto dal dolore, dall’odio e dalla gelosia per la donna che gli ha portato via colui che considerava un padre: la stessa donna che poi si presenta alla porta della sua casa e che sembra così diversa dall’idea che si era fatto di lei… Ma perché Rachele è venuta in Inghilterra? Per visitare i luoghi amati da Ambrose o perché ha qualche mira sul suo testamento, da cui è stata esclusa? Mi fermo qui: tutto questo avviene entro le prime 50 pagine del romanzo e ho intenzione di lasciarvi intatto il piacere del resto.


La storia, che sembrerebbe vincolata a una trama un po’ scontata, è resa accattivante e quasi sadicamente divertente dal personaggio di Rachele, che risulta la stratificazione di diverse personalità e luoghi comuni sul femminile. Rachele è tutto e il contrario di tutto: è la femme fatale che ruba il cuore degli uomini, conducendoli alla perdizione; è la strega che conosce le antiche arti delle erbe, che usa per curare e far ammalare; è la fanciulla che ha bisogno di essere salvata, anche da se stessa; è la donna del focolare, che sa amministrare una casa e tenere brillante la conversazione; è l’amazzone indipendente e impulsiva, che non si lascia comandare dagli uomini. Rachele sa calarsi in ognuna di queste parti e indossarle per il proprio piacere o per il piacere della manipolazione, l’arte in cui riesce meglio di tutte. Ma la cosa più interessare è avvertire che Rachele non è una donna più speciale delle altre, ma che anche noi, in quanto donne, siamo Rachele e nel corso della nostra vita ricopriamo un numero incredibilmente alto di ruoli, indossando maschere che il più delle volte sono state dipinte per noi dal sesso maschile. Per questo, in fin dei conti, l’anima nera (ma è davvero così?) di Rachele non suscita odio o sgomento nelle lettrici, ma un’inaspettata simpatia. Osservarla attraverso gli occhi ingenui di Philip conferisce alla narrazione un tono di nascosta ironia, che forse solo le lettrici coglieranno. Su tutto aleggia un pensiero frivolo e sbarazzino, ma che dà grande piacere: gli uomini… sono così semplici.

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