lunedì 24 agosto 2015

Abbiamo sempre vissuto nel castello, Shirley Jackson

«Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni. Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni».


Ho iniziato e terminato questo libro durante un viaggio in treno e devo dire che si è rivelato un’ottima compagnia. Sapevo che la Jackson è una delle fonti di ispirazione di Stephen King e che, quindi, mi sarei trovata a leggere una storia in bilico tra horror e giallo. In realtà (come nel caso di King) ho trovato molto di più.
Abbiamo sempre vissuto nel castello è la storia dell’amore tra due sorelle, Mary Katherine e Constance Blackwood, rimaste orfane in seguito a un tragico e misterioso evento. A eccezione di uno zio, Julian, tutti i membri della famiglia Blackwood sono morti avvelenati durante una cena, sei anni prima. All’epoca del fatto Constance era stata accusata dell’omicidio, ma presto scagionata: questo, tuttavia, non impedisce agli abitanti del villaggio limitrofo di continuare a sospettare, schernire, odiare e segretamente temere le sorelle Blackwood, che sono state costrette a tagliare ogni rapporto con la società. Ma Merricat e Connie sono felici nel loro isolamento: la loro vita è tutta intessuta di piccole gioie e ritmi indistruttibili, parole magiche, oggetti-talismani e manicaretti. Tutto procede per il meglio, finché un estraneo, quasi uno spirito maligno dal passato, non manda in frantumi la corazza che si sono faticosamente costruite, pretendendo che rientrino a forza nel mondo e abbandonino la loro vita sulla luna.
La vicenda è narrata in prima persona da Mary Katherine, diciottenne il cui sviluppo sembra irrimediabilmente bloccato a uno stadio di selvaggia infanzia. Nella sua voce sono forti i toni dell’odio e della paura, ma anche quelli dell’amore per la sorella, lo zio, la casa e il gatto Jonas. La sua narrazione lascia nel lettore un amalgama di sentimenti contrastanti: empatia, pietà, disagio, irritazione… A tratti si avverte la necessità di posare il libro per qualche minuto, sottraendosi al suo incantesimo verbale, a quella strisciante sensazione di fastidio mista a morbosa curiosità. Poi lo si riapre ed ecco che la scrittura della Jackson, pulita e ammaliante, trascina di nuovo il lettore con sé.
Il finale non è un muro o una sorpresa, ma piuttosto una ripresa circolare. Ci si rende conto che la storia letta imita la superficie notturna del mare, punteggiato d’onde dalla crestina bianca: una massa d’acqua buia e minacciosa, che proprio quell’oscurità rende così seducente. 

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