«Voleva essere artista, a lui non bastava essere l’artista della propria vita, benché questo concetto racchiuda tutto ciò che può rendere felice qualsiasi persona lungimirante, pensai. Wertheimer insomma si era innamorato, o addirittura era rimasto ammaliato dal proprio fallimento, pensai, e in questo fallimento si era incaponito fino alla fine. In effetti potrei dire perfino che pur essendo certamente infelice nella sua infelicità, sarebbe stato ancora più infelice se dall’oggi al domani avesse smarrito la sua infelicità, se questa da un momento all’altro gli fosse stata sottratta, il che dimostrerebbe ancora una volta che in fondo Wertheimer non è stato infelice, ma anzi felice, sia pure con la sua infelicità e a causa di essa, pensai. In verità sono molte le persone che proprio perché profondamente immerse nella loro infelicità, in fondo sono felici, pensai, e dissi a me stesso che forse Wertheimer è stato davvero felice perché della propria infelicità è stato consapevole in ogni momento e di essa si è potuto rallegrare».
È stato difficile arrivare in fondo a questo libro (il che, di
solito, non presuppone una recensione positiva). È stato difficile, perché questo
romanzo brutale, spietatamente sincero in ogni sua parte, ha tolto la
crosticina a ogni mia ferita, quelle già rimarginate e quelle in via di
guarigione.
Il soccombente è la storia di
tre virtuosi del pianoforte,
conosciutisi da giovani in una delle più prestigiose scuole di musica
austriache: Glenn Gould, Wertheimer e il narratore. Il momento decisivo per la
loro amicizia, ma soprattutto per la loro vita, fu quello in cui Glenn eseguì,
con genio insuperabile, le Variazioni
Goldberg di Bach, pezzo che gli sarebbe valso, in futuro, la fama mondiale.
Quel momento ritorna nella vita del narratore e di Wertheimer come
uno spettro: al cospetto di quella perfezione, essi e il loro modo di suonare
sono niente. Se non possono essere la perfezione, allora vogliono essere niente, e per questo abbandonano
la carriera pianistica. Ciò ha effetti diversi sulla loro vita: il narratore,
per cui il pianoforte è sempre stato un capriccio, accusa meglio il colpo e si
ritaglia uno spazio di sopravvivenza; invece Wertheimer, per cui il pianoforte
era tutto (nonostante l’incapacità di raggiungere il vertice), alimenta le
braci di un fuoco spento. È proprio lui il protagonista del romanzo: il soccombente, l’uomo che ha fatto del
fallimento la cifra della propria esistenza, un uomo inadatto alla vita e
tirannico nella sua inettitudine. Ora, io credo che il fallimento sia anche la
cifra della nostra esistenza, forse non
di tutti, ma certamente una delle esperienze più comuni, sia esso un fallimento
reale o un fallimento che sentiamo di incarnare. Per questo il romanzo non può
che ferirci e torturarci, gettandoci in faccia le nostre mancanze e vigliaccherie.
Bernhard lo fa con uno stile ripetitivo fino all’ossessione, e forse davvero
ossessionato, come ossessionato è il narratore dal genio di Glenn e dal fallimento
di Wertheimer, poli opposti tra i quali anche la sua vita è sballottata e si destreggia
per trovare il giusto mezzo. È un libro che apre nella mente squarci lancinanti
di verità e credo che nessun lettore dovrebbe negarlo a se stesso.
Bernhard non è mai facile da portare a termine.
RispondiElimina