La vita si faceva strada da sé,
come un tirannico padrone. Lui non la invocava mai, ma lei si addentrava
comunque nel suo corpo e nel suo cervello; entrava come poesia, come
ispirazione. E il significato di questa parola gli si rivelò per la prima volta
in tutta la sua grandezza. La poesia era la forza vivificante di cui lui
viveva. Era proprio così. Non viveva per la poesia, ma di poesia.
E finalmente era chiaro che l’ispirazione
era vita, era evidente. Gli avevano concesso di capire, prima della morte, che
la vita è ispirazione; ispirazione, sì.
E al pensiero che gli fosse
stata data la possibilità di comprendere questa verità, il suo animo si
riempiva di gioia.
Tutto quanto l’universo era
poesia. Era poesia il lavoro, lo scalpitio dei cavalli, una casa, un uccello,
una pietra, l’amore; nei versi entrava leggiadramente tutta la vita, e vi si
accomodava. Doveva essere per forza così, i versi sono la parola.
Persino in questi momenti le
strofe comparivano nella sua mente con facilità, una via l’altra, e anche le
parole si succedevano con la stessa facilità, anche se da tempo non si annotava
– né gli sarebbe stato concesso di farlo – i suoi versi; giungevano secondo un
ritmo in un certo senso ben definito ma ogni volta sorprendente. Lo strumento
di ricerca era la rima, lei l’indicatore magnetico di concetti e parole. Ogni parola
comprendeva una parte di universo suscettibile alla rima, e l’universo intero
schizzava alla velocità di una macchina elettronica. Ogni cosa gridava: «Prendi
me!» «No,
prendi me!» Non
era necessario cercare, non si doveva fare altro che scegliere. Era come se in
lui vivessero due persone: una componeva – quella che aveva fatto girare la sua
trottola alla massima velocità – e l’altra che si fermava a scegliere e che
ogni tanto bloccava il congegno che ormai era senza controllo. E quando si rese
conto che queste due persone erano insieme, il poeta comprese che solo in quel
momento stava componendo delle vere poesie. Che importanza aveva che non erano
scritte? Scrivere, pubblicare, tutto frutto della vanità delle vanità. Le cose
migliori sono quelle disinteressate. Ciò di cui non si prende nota è il meglio,
ciò che è stato creato e svanisce si scompone senza lasciare tracce, e soltanto
il piacere della creazione che il poeta sente e che non può scambiare con
qualcos’altro è la testimonianza che una poesia è stata creata, che il bello è stato creato.
Da "Cherry-Brandy", I racconti di Kolyma,
Varlam Šalamov
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